LA CASALINGA EPISTEMICA

Abbiamo un’idea distorta della filosofia, come qualcosa che si esercita nelle aule universitarie e che è di proprietà di un ristretto numero di persone. Niente di più sbagliato, la filosofia non è materia scolastica, ma un naturale disporsi verso le cose, cercando di andare loro incontro, di capirle. Anche nel metodo, il rigore, la logica non mancano negli esercizi quotidiani; come quando una casalinga stira e con abitudine (e l’abitudine è una forma della logica che ordina la relazione secondo il prima e il poi) piega le camicie evitando accuratamente di stropicciarle. C’è più filosofia in quelle mani acculturate nella ricerca di un ordine che in tanti libri pieni di parole ma vuoti di sostanza. E c’è anche tanta teologia; la quale mi pare serva appunto a non prendere una brutta piega. Gli adolescenti di norma sono anarchici e vestono stropicciato; a riportare decoro nei costumi con una fondazione delle regole ci pensano le mamme. Quelle italiane in particolare, che sembrano ossessionate. Stirare equivale a prendere un concetto per renderlo funzionale all’idea che abbiamo del mondo. Talvolta a dimostrare l’esistenza di Dio o la sua immanenza nelle cose. Non sempre siamo coscienti della portata filosofica dei comportamenti ordinari, è vero. Ma nulla toglie a quel che chiamiamo filo-so-fare, che vuol dire l’amore-so-fare; seguendo un filo come in un discorso che non manca di criterio scientifico. Perché anche nei piccoli gesti, nella consuetudine di certi movimenti manuali c’è tanta impensabile episteme, come pure è epistemologia ciò che la madre insegna alla figlia nella normale istruzione domestica. Le cose si fanno così, perché è con quel metodo o con quei modi che si ottengono i risultati. E se il risultato è un piatto saporito o una camicia smacchiata tanto meglio; c’è della scienza anche quando si dosa il sale in una pietanza e nella quantità di sbiancante che si versa sull’indumento, e va appresa come qualunque altra disciplina. Naturalmente parliamo di svariati metodi e non di uno solo, come tutto quel che riguarda le esperienze teoretiche prodotte da una necessità pratica. La filosofia non è un insieme di verità di cui entrare in possesso o un metodo stabilito: “Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire ci sono differenti terapie” (Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, § 133). Si tratta piuttosto di indagare i modi in cui si presentano le espressioni linguistiche che articolano il mondo, educando a vederlo con perspicuità, disincanto, facendo pulizia. Avete presente quando le mamme chiedono qualcosa? Ebbene la verità già la conoscono, basta loro un’occhiata. Misurano piuttosto il modo col quale vi rapportate al mondo e che per naturale propensione all’idealismo coincide con il loro Io. Questa pluralità dei metodi risponde all’esigenza di rimanere coerenti con quel che si dice. O meglio, di rimanere fedeli alla forma di vita così com’è predisposta nell’ambiente familiare. “Dire, mi meraviglio di questo e di quest’altra cosa ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così … Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l’esistenza del mondo, poiché non posso immaginarlo come non esistente” (Sull’etica, in Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano, Adelphi, 1976, pp. 1-18, pp. 13-14). Qualcosa di simile a quanto accade con la critica dell’evidenza di alcuni truismi enunciati da G. E. Moore (“esiste un corpo umano che è il corpo”, “questo calamaio è alla sinistra di questa penna”), che Wittgenstein smonta analizzando la grammatica del linguaggio. Una casalinga non dice “hai un corpo sgualcito o sporco” e meno che mai si perde in astruse considerazioni logiche. I pantaloni non sono in terra a destra della lavatrice, vanno messi dentro. Punto. Si potrebbe dire che il discorso vale anche per tutti i mestieri e non solo quello casalingo; ma davvero non so. L’ambiente domestico mi sembra vero, legato ai nostri bisogni intimi, è lo spazio affettivo, emotivo, conoscitivo nel quale ci muoviamo con libertà di linguaggio; non è il luogo dell’Io, ma l’Io in una sua intima dilatazione. Tra le grammatiche del quotidiano mi sembra quella più aderente alle nostre necessità epistemiche, accidentalmente stropicciata dalla filosofia. Una casalinga che organizza la giornata della famiglia ha riti che sembrano preghiere, risolve sottili questioni teoretiche, mostra un’insolita attitudine matematica, formula giudizi analitici, risolve dubbi, la cucina assorbe gli aromi e gli odori, decora l’ambiente con il suo gusto estetico. I mestieri sono un’altra cosa, la finalità è la produzione e la vendita; nella casa alberga invece il sapere per il sapere. E questo se non ricordo male è uno dei nomi che diamo alla filosofia. Il sapere per il sapere; perché come appuntava Aristotele “La filosofia non serve a niente. Ma proprio perché libera da legami di servitù nessuna scienza le sarà mai superiore”. La filosofia non è serva (quante volte sentiamo le genitrici dire: “Non sono la tua serva”), questo è il punto; i mestieri che producono un reddito sono servili e accomodanti, complici a volte. Non tendono al bene, quasi mai hanno un rapporto con la verità e raramente producono felicità; c’è anche chi ha visto in quelle forme di lavoro alienazione e abbrutimento, autodistruzione. Ma è un’altra storia. Le mamme quando chiedono pretendono risposte, non divagano mai, hanno un metodo e si muovono in un ambito empirico. “Il metodo corretto della filosofia è propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi … ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato significato alcuno … Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende infine le riconosce insensate, se è salito per esse- su esse- oltre esse; (deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. (Tractatus, 6.53-7)”. La filosofia descrive i modi con cui usiamo parole e proposizioni, poiché è a causa di un loro uso perverso che si sviluppano teoremi incapaci di dare conto della verità. La frase “il mondo non esiste”, o “il mio corpo esiste”, è logicamente impropria perché si fonda sul presupposto metafisico dell’esistenza. Parimenti quando diciamo alla mamma “nessuno”, alla sua richiesta di sapere chi era al telefono. Quel “nessuno” manca di soggettività, non è oggettivabile, è qualcosa di manifestamente metafisico, insensato sul piano delle proposizioni ordinarie del vivere quotidiano. Non ha un volto ed è irritante. La filosofia deve delineare le condizioni di senso che rendono corretta una certa espressione linguistica. E il senso deve avere un nome (di quella “zoccola”, come appunto dice la genitrice non potendo indagare oltre). La prima delle condizioni del filosofare è che noi parliamo in un mondo che preesiste, e rispetto alla cui esistenza non ha senso il dubbio scettico, perché la sua formulazione è la prova che disponiamo di un linguaggio che ci rende partecipi di un gruppo; e al cui interno stirare camicie o fare filosofia sono attività equivalenti. Stiro ergo sum, il fondamento c’è e a una casalinga epistemica non interessa andare oltre. Contraddire una mamma comporta a vederla difendere il principio di non contraddizione con la pantofola in mano; è empirista prima che agnostica, rinunciate ai paralogismi. Perciò Wittgenstein scrive: “La mia vita mostra che so” (Della certezza, Torino, Einaudi, 1999, § 7). La conoscenza è l’espressione di quanto apprendiamo nella vita, sappiamo ciò che abbiamo imparato. La filosofia è un modo di osservare, guardare. spiare anche dal buco della serratura. Disciplinare la descrizione dell’esperienza, darsi regole non significa costituire una precettistica. Le stesse definizioni che Wittgenstein ha elaborato, quali il gioco linguistico e la forma di vita, mutano di senso a seconda del contesto d’uso in cui vengono adoperate. Non diversamente da una casalinga ha infatti ripulito la filosofia da ogni ambizione fondazionalistica. La filosofia non fonda e non istituisce, mostra il modo in cui il pensiero può articolarsi, ma non cosa deve pensare; è una filosofia del come, non del che cosa. Alle mamme interessano i risultati, non danno un metodo di studio al figlio quando fa i compiti. Si limitano a chiedere il giorno dopo, quanto ti ha dato la maestra? E non è proprio un chiedere, perché la domanda è analitica e sintetica. D’altra parte, le cose si danno immediatamente allo sguardo e ricercare una spiegazione dietro l’apparenza significa compiere un’opera di mistificazione, la ricerca delle cause e dei principi primi è un esercizio come si è detto metafisico. Le mamme indagano, questo sì; ma si limitano ad osservare la forma secondo cui avviciniamo le cose, che appaiono e si presentano per come effettivamente sono. I pantaloni sono rotti e vanno rammendati, il bambino al limte si rimprovera ma raramente mi è capitato di sentire chiedere “com’è successo?” Non c’è progressione nell’intenzione di ricerca, la filosofia fa vedere meglio, nulla di più: “Il mio metodo è quello di rilevare errori nel linguaggio. Sto usando la parola ‘filosofia’ per l’attività di rilevazione di tali errori” (Wittgenstein, Lectures, Cambridge, 1932-1935, pp. 27-28). Veniamo ora al succo del discorso, anzi al frullato che al soggetto casalingo piace di più. La filosofia è un’attività terapeutica e nel concetto di terapia sono presenti l’educazione e le regole. Come quando le mamme dosano il detersivo per il bucato, parimenti ripuliscono “Le parole dal loro uso metafisico al loro uso corretto nel linguaggio” (Filosofia, Roma, Donzelli, 1996, § 88). Come si arrivi a dare una presentazione perspicua dei fatti linguistici, attraverso cui si descrivono quelli antropologici, non è però immediatamente chiaro neanche a Wittgenstein. Se infatti afferma già dal Tractatus che la filosofia deve rischiarare linguisticamente il pensiero e non formulare teorie sul linguaggio, per mostrare che alcune proposizioni filosofiche non sono sostenibili, occorre prima aver puntualizzato come funziona correttamente il linguaggio, e cioè avere elaborato una teoria. E tuttavia proprio l’elaborazione di una teoria del linguaggio è insensata nel momento in cui postula la sua essenza. Wittgenstein risolve il paradosso intendendo la filosofia come un’attività che procede con l’esibizione di esempi di costruzioni semantiche che affidano al lettore il compito di pensare per conto proprio (Filosofia e Ricerche filosofiche). In qualche modo la casalinga costruisce un linguaggio e quello finisce per ordinare il mondo. Un mondo domestico, familiare e pulito; non ragiona in termini metafisici o immaginari. Non costruisce illusioni, afferra piuttosto il desiderio (perché è di quello che parliamo quando pronunciamo la parola filosofia), lo porta dove non possa far danni facendolo esplodere altrove, proprio come fanno gli artificieri. Le illusioni sono metafisica, non come la intendeva Aristotele però. La “meraviglia” con cui comincia il suo Libro è desiderio (ορεγονται) e il desiderio è rivolto alle cose naturali (φυσει). La natura aristotelica è qualcosa di aderente alla vita, al di qua del nomos. Come ho detto sopra, la filosofia non è materia scolastica, ma un naturale disporsi verso le cose prima che alle idee. C’è anche un altro elemento interessante nell’incipit aristotelico, Παντες ανθρωποι, tutti gli uomini, nessuno escluso tendono al sapere, a meravigliarsi, a desiderare. Le mamme lo sanno bene, basta loro un’occhiata sull’epidermide del figlio. Anche nelle illusioni il desiderio è presente e vagamente rimanda a un senso di giustizia e equità. Ma è un desiderio povero, falsamente votato all’educazione, detonato in quel che conta. Non nasce da un bisogno filosofico, ma dalla necessità di ordinare i capricci e gli stropicciamenti della vita. La filosofia non si occupa di capricci e non ama l’ordine pur mettendo in ordine; le mamme non vendono fumo e si arrabbiano anzi se fumiamo. Dove c’è ordine non può esserci meraviglia. Ed è questo il punto: il disordine è necessario alla sua esistenza di domestico filosofico in bigodini, pur tra mille lamentele e la minaccia del battipanni. La camicia stropicciata è la ragione e il senso del suo ragionare con le mani e con la scopa. Non per niente Wittgenstein scriveva che: “Il lavoro filosofico è propriamente … un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose e su cosa si pretende da esse”. E quello che desidera una casalinga filosofica è una camicia e una vita stirata.

Autore: Giancarlo Buonofiglio

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