SIAMO SEMPRE “IO” AL CITOFONO DI QUALCUNO

Ci sono quelli che al citofono dicono “sono Io”, rimanendo delusi quando si sentono rispondere: “Io chi?”. E in effetti il mancato riconoscimento di quel che siamo, della nostra identità suscita uno stato d’ansia e mette di malumore. Mio padre no, lui articolava. Ciao sono io. Io chi? Tuo figlio. E lui: “Quale?”. Il “quale” introduceva un decentramento tra me e lui e metteva il mio Io in un angolo. Andava anche e oltre a dire il vero. Perché (e non ho mai capito se era serio o mi prendeva in giro) quando rispondevo “Gianni!” lui incalzava: “Gianni chi?”. Tuo figlio. E così ad infinitum.

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A parte il desiderio di conferma dell’identità, per quanto precaria e fragile, nel riconoscimento (che è un conoscere di nuovo) si muove un gioco di specchi tautologico: l’io ripete se stesso e il processo si può dilatare all’infinito. Per essere riconosciuti abitiamo e abituiamo l’altro, in qualche modo lo addomestichiamo.

PER FAVORE ADDOMESTICAMI

Siamo abitati dalla lingua; la lingua si muove su due piani, quello primario si riconosce dall’uso costante di alcune parole che diventano determinanti per dare un ordine al campo più superficiale del linguaggio. Il fondo della lingua è il luogo comune su cui costruiamo una familiarità, l’abitiamo e l’abitudine diventa una regola e poi una legge, secondo un comune modo di vedere e sentire. In sostanza quando parliamo trattiamo alcune parole come cose e su quelle costruiamo le nostre certezze. E’ una manipolazione di cui si serve ampiamente la politica. La riproposizione continua crea un contenuto, rende la parola reale, la svuota dei significati caricandola di senso. Anima, Dio, famiglia, Stato sono alcune di queste parole che accentrano l’attenzione e coinvolgono le emozioni, rimandano a una condivisione profonda di contenuti. E’ per questo che parliamo di famiglia, di anima o di Stato come enti reali; trasformando le parole in cose le rendiamo solide e vere.

Nel Piccolo Principe si legge: Per favore… addomesticami… Volentieri, disse il Piccolo Principe… Che cosa bisogna fare? Bisogna essere molto pazienti, rispose la Volpe. In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guardero’ con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino… Il Piccolo Principe ritornò l’indomani. Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora, disse la Volpe. Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti. Che cos’è un rito? Disse il Piccolo Principe. Anche questa è una cosa da tempo dimenticata, disse la Volpe. E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni. Funziona così.

Le parole selezionate si ripetono e vanno ad assorbire tutta quanta la lingua, danno luogo a una ritualità. La continuità è un processo di addomesticamento profondo e radicale. Nelle televisioni e giornali è evidente la ricorrenza di alcuni termini. Extracomunitario, omosessualità, Isis, spread, famiglia, vengono proposti come universali e s’impongono nella lingua fino a modificare l’ordine mentale. E così percepiamo di essere invasi dall’uomo nero, ci nascondiamo nella famiglia quando sentiamo parlare di omosessualità, investiamo in una banca perché l’inflazione è alle porte. Diventiamo governativi e governabili davanti alla parola terrorismo. Un uomo libero padroneggia la lingua, ma il più delle volte vogliamo essere addomesticati. Qualche anno fa è stato votato il referendum sulla fecondazione assistita; pulman di cittadini con un’improbabile semantica sono corsi ad abrograre una cosa definita inseminazione eterologa. Quando viene chiamato all’ordine il popolo vota. Una folla di elettori con tanti io e nessun noi, che legifera e parla di cose che non conosce con una lingua che non padroneggia. Un popolo così che se ne fa della libertà? Vuole essere addomesticato.

Buon anno insomma; da me, dal mio io. Io chi?…

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Autore: Giancarlo Buonofiglio

Manipolo paradossi sito web http://giancarlobuonofiglio.weebly.com/

29 pensieri riguardo “SIAMO SEMPRE “IO” AL CITOFONO DI QUALCUNO”

  1. IO è sicuramente il più lurido dei pronomi! Riguardo al principe e alla volpe: in positivo IO ci vedo l’ inizio dell’innamoramento, quando due IO diventano un NOI e l’aspettativa reciproca di fonde nell’amore rituale che prepara il cuore… Comunque bando alle ciancie: Buon Anno!!!

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    1. Ma è l’IO che dà vita al noi e che dà un senso al TU! Certo, è egocentrico, è accentratore, ma è l’esatto equivalente dello stomaco di Menenio Agrippa: senza di lui, il Principe dei pronomi, nessun altro può esistere.

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  2. OnGiancà caro, tiro fuori un vecchio adagio che a fine anno ci sta con tutta la roba vecchia accatastata: “se uno parla male, pensa male”. Entrambi abbiamo la stessa opinione sui mezzi più utilizzati oggi per comunicare (i social) e l’utilizzo sciatto e spesso sciagurato che si fa della lingua. Questione di abitudini e consuetudini. l’IO si adatta agli altri IO che ha intorno per sentirsi meno IsOlato come la particella di sodio in una pubblicità di una famosa marca di acqua minerale (l’acqua con la “marca” è una delle invenzioni più infami e subdole che il marketing abbia mai escogitato).
    La nostra ritualità è ormai fatta di un mordi&fuggi con quasi la paura di dovere approfondire dei concetti (potrebbe capitare di cambiare idea, sai com’è). Non la pensiamo entrambi così e quindi stringiamoci a coorte (anche se in due la vedo difficile pure a formare un manipolo) e andiamo avanti. Buon 2zerouno8!

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    1. ogni tanto faccio un video su questi argomenti; come proposito di inizio anno ho di farne uno con te. Un’intervista tipo Ungaretti-Pasolini (e ho detto niente, eh…). Intanto il mio noi ti manda un abbraccio e gli auguri per un meraviglioso inizio. A far danni ci pensiamo il danno nuovo. A presto Clà

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      1. Azz! Hai detto niente! Danni-amoci a scrivere anche l’anno prossimo e a riprendere il nostro fertile scambio, che mi pare una buon proposito per l’anno nuovo. Ai posteri l’ardua sentenza.

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  3. Citare quel passaggio è stato un colpo basso: vuoi proprio farmi chiudere l’anno con una lacrimuccia? (Sono molto sensibile a tutto ciò che si dicono il Piccolo Principe e la volpe…)
    Da ragazzo sentii una frase in un film tedesco che mi colpì: ripeti dieci, cento, mille volte una parola e questa non avrà più senso. Infatti i politici ripetono mille volte le parole.
    Però chiudiamo con una speranza, e cioè che nel linguaggio politico italiano è tutto al primo posto. La famiglia? È al primo posto. I giovani? Al primo posto. La cultura? Al primo posto. Il problema del Mezzogiorno? È al primo posto. Di’ qualcosa: scommetti che è al primo posto? Che grande Paese quello che non ha secondi posti 😀
    Auguri di buon anno, e semmai la parola “auguri” ha ancora un significato, tranquillo: è al primo posto ^_^

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    1. ahaha ecco, come chiudere l’anno con le parole giuste. E poi se ci pensi la parola ripetizione è anche cacofonica o più precisamente petofonica, come un peto espresso più volte. I nostri politici sono maestri di petalinguaggi. Noi invece ci accontentiamo delle lenticchie, che -dice- portano soldi e non li portano mai. Come i sogni, sempre rimandati al nuovo anno. Buon 2018 Lucius, spero di sentirti presto G.

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  4. Mi piace l’idea di essere addomesticata in quanto riconosciuta e coccolata, esiste però un limite da non superare, per non correre il rischio di omologarsi a ciò che gli altri si aspettano da me. È una sorta di tiro alla fune tra individualità narcisistica e desiderio di riconoscimento. La serenità sta nel mezzo. Per la serie “mi faccio amare ma non mi si pongano troppe condizioni”, che l’amore chiede aria ed abbracci, nella giusta misura. Un piacere leggerti. Buon Anno, cin cin 🥂

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