“ASSEMBRAMENTO”

Un’altra parola è stata sdoganata: ASSEMBRAMENTO. Non si sentiva dall’epoca del Ventennio e ha sostituito termini come relazioni, affetti, famiglia (il blasonato al governo l’ha sovrapposta anche agli ambienti intimi e domestici). Con una connotazione assolutamente negativa rispetto alla socialità promossa e tutelata dalla Costituzione. Assembramenti sono anche le associazioni, le organizzazioni politiche e le libere espressioni di protesta, anch’esse censurate con l’alibi neanche troppo originale di un virus influenzale.

La stampa igienica e la Tv spazzatura la usano con metodo e anche voi con troppa disinvoltura. Attraverso le parole manipolano il vostro pensare, vi fanno assorbire contenuti che non hanno, veicolando una forma di società autoritaria e priva dei caratteri della solidarietà.

A parte la matrice fascista (o nazimaoista) non sottovalutate il lato semantico. Due o più persone non sono un assembramento, mi sembra una sintesi impropria e riduttiva di una realtà più articolata. L’amicizia, il dialogo, la socialità sono un fatto affettivo. Le aggregazioni politiche il bisogno a riunirsi per dare luogo a un corpo sociale. Le orge, pure loro, non le puoi chiamare assembramenti. Hanno qualcosa di poetico, dipende ovviamente da chi hai dietro. La messa e la scuola anche. Non ho mai sentito dire a nessuno: questa sera vieni a casa mia, facciamo un assembramento. La gente normale cena, si incontra, parla. Ci vuole una mente malata per concepire un gruppo di persone come un assembramento.

Fa tanto mandria o gregge, corpo nelle sole funzioni biologiche. Neanche Marx era arrivato a tanto, da quel che so non ha scritto: proletari di tutto il mondo assembratevi. Eppure questa è la neolingua di un dittatoruncolo spuntato chissà come dall’Istituto Luce. Con mille difetti e un solo pregio, quello di non averne nessuno.

Un giorno si dirà del blasonato: quando c’era lui gli assembramenti arrivavano in orario. Anzi no, credere obbedire distanziare. O meglio: È l’aratro che traccia il solco ma è Casalino che lo difende. Ma forse sui libri di storia verrà ricordato con una sola frase lapidaria: visse un giorno da leone e cento li passò a pecora. Perché può anche capitare che quando vai per fottere vieni fottuto

LA VIROCRAZIA E LA SINDROME DI STOCCOLMA

Vivere in una virocrazia, derogando alla scienza la democrazia e le libertà dei cittadini è pericoloso. Anche nell’emergenza sanitaria (con restrizioni previste dalla Costituzione e ben delimitate nell’ordinamento) sessanta milioni di reclusi fanno comunque impressione. La vicenda è questa: Sgarbi (che è anche un parlamentare) ha in corso un processo per le sue esternazioni pubbliche in merito alle misure prese dal governo: “notizie false, esagerate e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico (Art. 656 del Codice Penale), Istigazione a disobbedire alle leggi (Art. 415 c.p.) e Istigazione a delinquere (Art. 414 c.p.).

Il PTS (patto trasversale per la scienza) ha inoltre richiesto di adottare ogni provvedimento volto a oscurare o sequestrare il sito web e i canali social del critico d’arte. “Oscurare e sequestrare“. Gli oscurantisti non erano gli altri?

Esiste un patto trasversale per la scienza. Lo apprendo con qualche apprensione, che “oscura e sequestra” il pensiero, la parola, la critica. Le libertà, queste sconosciute alla scienza (o presunta tale). Un luminare (bravissimo nel suo mestiere) ieri ha ammonito il Papa: “Dio vuole che si preghi da casa“. Ho sempre pensato che l’etica non fosse un campo dello scienziato, scopro invece che sconfina anche nella religione. Il laureato in biologia in futuro potrà dire messa, abbiamo risolto l’antinomia tra ragione e fede.

Sostituiamo papa Francesco con uno specialista in igiene e medicina preventiva.

A questo punto si può chiudere il Parlamento e sostituirlo con un comitato tecnico/scientifico permanente. Perché no? Economico, funzionale e pratico.

 

La-guerra-dei-mondi-di-Orson-Welles

 

Non entro nel merito della vicenda Sgarbi, ma la virocrazia mi sembra un’oligarchia degenerata. Parere personale e sicuramente sbagliato (ok). La tecnocrazia non temperata dalla politica è però anche questo: se un esperto di statistica elabora studi e modelli matematici anapodittici sugli incidenti stradali, i tecnocrati del mondo immaginario di Welles potrebbero vietare l’uso delle auto o del tabacco. Proibire su base epidemologica l’alcol, limitare la viabilità a piedi, contingentare le piazze, chiudere giornali e programmi di svago che rincoglioniscono le persone. Chiedete a un sociologo se la tv di Barbara D’Urso abbia determinato un deficit cognitivo su scala nazionale.  Ed è un allarme sociale anche quello.

La scienza ha ragione. Nei numeri sempre.

Non ricordo l’epoca, ma il controllo sanitario sulle condotte individuali, di movimento e di pensiero lo abbiamo vissuto. E aveva un nome: Ordine e disciplina. Leggetevi Foucault, la biopolitica. In Sorvegliare e punire (1975) descrive un lockdown del XVII secolo:

«Alla peste risponde l’ordine: la sua funzione è di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia, che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un potere onnipresente e onnisciente che si suddivide, lui stesso, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade. […] la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli della esistenza, del regolamento ­– e intermediario era una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere; non le maschere messe e tolte, ma l’assegnazione a ciascuno del suo “vero” nome, del suo “vero” posto, del suo “vero” corpo, della sua “vera” malattia. La peste come forma, insieme reale e immaginaria, del disordine ha come correlativo medico e politico la disciplina.»

La quarantena è sopravvissuta alla peste come possibilità di normare lo spazio urbano, le vite e i corpi portando alle società disciplinari autoritarie e fasciste  del XX secolo. Il pericolo reale è che il cordone sanitatrio diventi nel tempo sorveglianza, repressione e controllo sociale. C’è da augurarsi che a qualche mascherina autoritaria travestita da virologo non venga in mente di estendere nel tempo le misure restrittive ai diritti costituzionali inviolabili, magari con maglie allargate solo per consumo, studio o lavoro.

Sul Manifesto del 26 febbraio scrive Giorgio Agamben: “Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo. Il decreto-legge subito approvato dal governo per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica si risolve infatti in una vera e propria militarizzazione dei comuni e delle aree nei quali risulta positiva almeno una persona […] Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”.

Al termine dell’emergenza “Il tran tran sarebbe ricominciato, ma con più controllo di prima, più sorveglianza, e con l’idea condivisa che da un giorno all’altro si poteva bloccare la cultura, vietare ogni riunione, associazione, assembramento di persone non finalizzato al mero consumo, col consenso di un’opinione pubblica impaurita (qualcosa si deve pur fare!). O meglio: col consenso dei media e di una minoranza rumorosa di imparanoiati, che creavano l’effetto di un’opinione pubblica impaurita”.

La paura genera mostri e apre un varco allo stato di polizia e non più di diritto. Non siete criceti ammaestrati per vivere in una gabbia, o no?

 

sorvegliareepunire

#covid-19 #coronavirus #decretoconte #zonarossa #quarantena #sgarbi

 

FILOSOFIA SOCIALE

Ho seguito quel che è accaduto sulla bacheca della donna di Settimo Torinese; non ho l’indole del guardone, i fatti sono quelli (una madre uccide il figlio) e non li giudico. Giudicare è un mestiere da logico e la logica istituisce relazioni. Ho l’idiosincrasia per le relazioni, ci vuole uno spirito sociale e il carattere da voyeur che non ho. I social seguono una logica matrimoniale e proprio come in certi matrimoni creano sodalizi inossidabili su un’idea piuttosto che nelle cose; le cose o i fatti sono assolutamente marginali, ciò che conta è la comune visione. A sua volta la visione comune necessita di luoghi abituali (appunto comuni) del ragionamento e della parola. In sostanza vuol dire: stesso dizionario, non troppo articolato e identità di pensiero. Ed è logico: se pensiamo diversamente dobbiamo anche essere diversi per antropologia (tertium non datur) e dunque il matrimonio non funziona. Di norma il soggetto asociale viene bannato e bannare significa divorziare, il luogo non è più in comune, la casa è mia e tu vai a rompere i coglioni da un’altra parte. L’identità prevale sulla diversità, funziona così nei social come nella vita e i parenti si mettono davanti alla porta di casa impedendo l’accesso all’escluso. Il terzo escluso appunto, l’incomodo che cerca la relazione con i fatti prima ancora che tra le idee.

Più o meno consapevolmente i membri dei gruppi sociali parlano di filosofia, o meglio sono portatori sani di un pensiero filosofico. Proprio dalla pagina della madre scellerata di Settimo ho estratto un ordine di ragionamento inappuntabile, come ogni pensiero strutturato attorno alla medesima idea: sei una zoccola e devi morire. Difficile confutare. Mi limito a riportare le massime e sentenze più significative, alcune davvero sottili e raffinate; quelle di tale Antonio S. Il mio filosofo preferito dopo Aristotele.

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SULLA DEPRESSIONE
Antonio S.: Ho sentito parlare di depressione, ma è assolutamente non credibile. Una persona depressa non fa sesso, e soprattutto nessuna malattia può giustificare. Io stesso ho sofferto tanto nella vita, e non ho mai fatto male ad una mosca.

– Risposta:

Carlo Z.: La depressione non esiste è una cazzata inventata dalle case farmaceutiche per vendere i farmaci.

– Risposta:

Antonio S. (notate la competenza logico-matematica): No, uno se conosce i propri limiti non si supera.
Io ad esempio ho le idee chiarissime sul fatto che non farò mai figli.
Conosco il preservativo e lo uso, semmai dovessi fare sesso, ma anche quello mi interessa poco.

– (In sostanza: Antonio S. è uno stoico e non scopa; ora dormiamo tranquilli.)

LA TESI

Dario R: Facebook rovina le donne che, anziché prendersi cura dei figli, cazzeggiano su Facebook!

Dario R.: REAL TIME HA FOTTUTO IL CERVELLO A TROPPE GIOVANI.

Federica A. F.: Zozza…quando hai preso il cazzo ti è piaciuto? Grande troia,devi morire…puttana!!!

– (In questo passaggio i filosofi sentenziano che alla madre di Settimo piaccia il sesso e che i social rovinino il cervello)

Maurice M.: DEVI MORIRE MA NON IN CARCERE ..NON PER MANO DI DIO …MA TI AUGURO UNA MALATTIA ..UNA MORTE LENTA E DOLOROSA ….TROIAAAAAAAAA

Francesca V. (introduce un argomento concreto nella discussione) Per mano nostra, datela a noi

Antonio S. interviene dopo lunga assenza: Eccomi (se ne sentiva la mancanza infatti e riporta un canto del poeta Francesco Renga)
Bicchiere tra le dita / E gente sconosciuta intorno a noi… (segue testo completo)

L’ANTITESI

Tale Simone G. irrompe a controbilanciare con buon senso: Che bello che è il nostro paese, il nostro popolo: combattenti dei poveri, delle cause già perse in partenza, quelli che ci mettono un sencondo a lasciare commenti senza cognizione di causa ma che allo stesso tempo subiscono leggi insensate che realmen… Altro…

– Ma il nostro filosofo non demorde:

Antonio S.: per cosa dovremmo combattere, genio?

Simone G.: Antonio S. Hai mai sentito Parlare della Legge fornero? hai mai sentito parlare di intere famiglie che perdono la casa e vengono sfrattate perchè non sono piu’ in grado di pagare l’affitto o alle quali per debiti di poche migliaia di euro con il fisco gli viene pignorato l’immobile anche se prima casa? Hai mai sentito parlare di reddito di inclusione? vivi nel tuo mondo genio e continua a divertirti a leggere o a fare commenti idioti su una tragedia familiare, non sociale.

Antonio S.: Nella mia famiglia queste cose non sono mai esistite e mai esisteranno. Fiero di essere cresciuto in una vera famiglia, nonostante lo schifo di città in cui vivo.

– Nel simposio giunge Luca F., l’antitesi appunto

Luca F: Quali sarebbero le differenze tra voi e i gli islamisti? Nessuna

– Il filosofo ha pronta la risposta:

Antonio S.: Gli islamisti fanno bene ad avere la pena di morte per chi uccide.

Luca F.: Sono estremisti come esattamente tutti voi, a Salem bruciavano le streghe, siamo tornati a quei tempi

Antonio S.: Mi sembra giusto.

Antonio S. Io sono un “estremista della vita”, per me la vita è quanto di più sacro ci possa essere (e infatti la vuole togliere alla madre scellerata, la logica ancora una volta ricompare)

Luca F.: Bene, anche per me, ma essendo una persona COERENTE come potrei augurare la morte di questa donna?

Antonio S.: Io sono talmente coerente che la morte la auguro a tutti quelli che non si meritano un dono così sacro come la Vita.

LA SINTESI

Luca F.: Vabbè, non sono abituato a disquisire con persone simili. Ti lascio coi trogloditi, vi trovate meglio.

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Il gruppo a quel punto si ricompone sull’idea comune, e la logica e la filosofia sociale trionfano con gli anapodittici: zoccola, troia, devi morire.

TORNATE A LEGGERE, CHÉ I SOCIAL VI FANNO MALE

Se parli male ragioni male e ti comporti peggio. La grammatica non è qualcosa di marginale, è l’ordine che diamo al pensiero. I commenti che si leggono in rete su Valentina V. * rilevano un dato statistico interessante: le costruzioni sintattiche più volente hanno una semantica prescolastica, tradiscono la sindrome da deficit fonologico e disprassia verbale ad andamento paranoide e un vocabolario che non va al di là delle cinquanta parole. Niente a che vedere con le grammatiche del quotidiano dei contadini e degli operai del dopoguerra. Quella italiana è una lingua viva, evocativa, sensibile alle flessioni territoriali; gli uomini delle campagne la modulavano con competenza e profondo rispetto per le parole. Nella lingua ordinavano il quotidiano e si davano delle regole. Mi pare invece che questa analfabetizzazione di ritorno, sgrammatica e decomposta, gutturale prima che compiuta nelle forme adulte della comunicazione, fortemente contaminata dal t9 e e da un uso disinvolto di una tecnologia che non si padroneggia sia qualcosa di profondamente diverso. Certo c’è anche chi si cimenta in sottili questioni teologiche: “Dio? Dove era in quel momento?” A cui segue la sentenza implacabile: “Dio non esiste”. Teologia negativa dunque, onore al merito. Articolare vuol dire ragionare, vedere le cose da diversi punti di vista, attingere da un dizionario disomogeneo e variegato. Qua siamo invece alla rigidità del pensiero e della lingua. Se conosci cinquanta parole vedi solo cinquanta cose e il mondo diventa infinitamente piccolo. Sempre in termini teologici c’è anche la “buonista” (la chiamano così i cattivisti): “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”. L’argomentazione è forte e meriterebbe due righe in risposta; e infatti arrivano: “Sei qualche parente x caso . La devono ammazzare a sta troia”. Argomento inconfutabile e allora si procede oltre. “Lurida troia”, “bastarda”, “In galera le faranno festa .. !!! Trasferitela a Palermo noi sappiamo cosa farne”. Qua abbiamo proprio uno spostamento verso la filosofia pratica, perché le parole non bastano più e perlamiseria la preda va data in pasto al branco: “Non ha avuto pietà per il bimbo perché dobbiamo averne noi per lei?”. Il noi fa ovviamente riferimento a un’identica percezione delle cose, allo stesso linguaggio: noi, i buoni, siamo nel giusto e perciò giustiziamo. È una questione logica: se sono nel giusto, giustizio e ‘ntuculo alla legge, la legge siamo noi. E allora il gruppo si ricompone: “io butterei ii dal balcone questa e la pena che devi pagare brutta stronza😬😬😬😬😬“, “Ma che dici … Nn capirebbe niente … deve essere bruciata viva”. La regola della comunicazione (in questa come in altre discussioni) sembra insomma consolidata: uno parte con l’aggressione e la minaccia e presto arriva un simile a dare il contributo. I simili, come i coglioni, vanno sempre in coppia e fanno gruppo. Dove c’è un gruppo ci sono tanti “simili” e nella pagina di questa signora (come anche altrove) i “simili” davvero non si contano.

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* Il fatto è noto: una giovane donna getta dal balcone il figlio e il bimbo muore. Il web si scatena, l’italiano di norma belante col padrone si mostra feroce coi disgraziati. Perché sempre disgraziati comunque sono. I commenti su Facebook nella pagina della donna sono migliaia, ho provato ad analizzarne alcuni. La regola è il punto esclamativo e qua si sprecano: come dire tiè o ‘ntuculu e più ne metti più ‘ntuculo lo prendi. L’italiano, inteso come lingua, latita (nel carattere fa invece sentire la fulgida presenza) e all’assenza del congiuntivo siamo però abituati. Il ke scritto con la k viene inteso come un rafforzativo e la x in luogo di per serve a demarcare la differenza antropologica: la lingua italiana è roba da checche intellettuali (e dunque di sinistra), noi siamo altro, nonrompetecilaminchia. I più imbestialiti invitano alla violenza (bruciamola, se ero io ti ficcavo… vabbè ci siamo capiti), altri, gli apocalittici invocano la giustizia di Dio. Io non sono pratico della materia, ma mi pare di ricordare che Dio fosse agape e misericordia. L’aggettivo puttana è la regola e vuol dire: sei un corpo sessualizzato e dedito al piacere piuttosto che all’amore. Sembra che il piacere svilisca l’amore, bah. Troia, cagna etcc. I commenti più garbati sottolineano il disagio mentale della signora e l’opinionista italiano rivela una insolita preparazione psicoanalitica. Le sentenze più violente (e questa cosa mi ha stupito) vengono dal mondo femminile (70 a 30 direi), bassa scolarizzazione, qualche nostalgico fascista. Alcuni commenti li ho trascritti fedelmente qua sotto; buona lettura.

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C’è quella che dà consigli: Troia puttana 😤 xke ucciderlo xke portarlo in grembo x 9 mesi x poi ucciderlo xkeeeee bestia bastarda devi crepare… Nessuno deve avere pietà di te merdaccia umana potevi portarlo in ospedale e rimanere anonima bastarda

Quella che era meglio se chiudevi le gambe: Solo un essere spregevole ed ignobile arriva a qst….sta piezz e puttana bucchina prima gli è piaciuto aprire le gambe…x nove mesi ha nascosto la gravidanza a tutti dicendo che nn sapeva di essere incinta….ha avuto la freddezza e la lucidità di buttarlo giù…ma che psicopatica di 💩💩💩💩 rinchiudetela in un manicomio e buttate le chiavi….

Quella che è stata in carcere: Brutta puttana di merda spero che alle vallette ti mettono subito una corda al collo dopo averti torturata bastarda che sei non meriti neanche la galera tu… meriti torture e morte… non sei una donna e neanche una mamma perche loro non fanno del male hai propi figli tu invece hai avuto il coraggio di uccidere un anima innocente 😈😈😈 crepa all inferno troia maledetta

Il mistico che invoca il giudizio divino: BRUTTA SCHIFOSA, SEI UNA VERGOGNA, MERITI DI MORIRE DOPO TANTO TANTO DOLORE!!!
DEVI SOFFRIRE….NON HO PAROLE BRUTTA TROIA!!!! GENTE COME TE NON DOVREBBE ESISTERE DIO TI DOVEVA FULMINARE PRIMA!!!

Quella di prima che è stata in carcere e ce l’ha anche con tale Mario R.: Mario R. sei un indegno e infame come XXX che di conseguenza spero che quando la mettono nel femminile delle vallette la appendono con una corda alle sbarre della cella sta puttana infame… e tu se sei il marito sotto falso profilo se…Altro…

Una signora interviene a moderare i commenti: siete solo dei meridionali.

Quello che le donne sono tutte: troia di merda….che tu possa marcire all’inferno insieme a chi ti ha aiutato.

L’esperto del sistema giudiziario: Magari la farà franca uscirà presto farà una comunità di recupero e poi libera….
Ma la gente che incontrerà povera lei meglio che si cambia i connotati

– al rogo

– bruciamola viva
(Due promani)

C’è anche chi prospetta l’eugenetica: Una persona malata di mente non dovrebbe mettere al mondo i figli

– Io penso che la colpa più grande ce l’abbia il marito

– Cosa cavolo c’entra il marito?

– il marito oltre a mettere il cazzo in culo non ha fatto nulla.
(Sillogismo perfetto)

Quella coi punti esclamativi: Sei la peggiore delle speci (e già: se specie è al singolare, il plurale dovrà essere speci)… Non so come definirti,ma sicuramente non sei una madre… Sperò tu marcisca in galera e che ti torturano fino alla fine dei tuoi giorniiiiiiiii !!!!!!!!!!!!

Quello che sei mignotta tu, tua madre e tua zia: Brutta puttana devi morire sia tu che quel figlio di puttana di tuo marito!!! Fate schifo bastardi di merda!!!! Meritate di morire torturati lentamente brutte merde indegne!!!

Grande troiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa se ti terrei nelle mie mani ti farei fare una brutta fine.

Che Dio ti fulmini

Un ardito posta la foto del duce; la didascalia dice: ecco chi ci vorrebbe per salvare questo schifo di paese.(se non ricordo male nell’ultima guerra i morti sono stati 50 milioni, ma non si può pretendere di più)

Quella che la tortura non basta: SE TI AVREI TRA LE MIE MANI TI INFLIGGEREI TALMENTE DI QUELLE COLTELLATE CHE NON HAI IDEA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! MA SENZA FARTI MORIRE!!!!!!!! TI FAREI SOFFRIRE TANTO FINO AGLI ULTIMI TUOI 10 RESPIRI….. POI TI DAREI FUOCO LENTAMENTE!!!!!!! UNA MORTE LENTA ED AGONIZZANTE!!!!!!! E POI TI SQUAGLIEREI NELL’ACIDO!!!!!!!!!!! PER ELIMINARE DALLA TERRA OGNI TUO RESIDUO INUTILE SUPERFLUO! CHE TU PUOI MARCIRE NELLE FIAMME DELL’INFERNO!!!!….. E TUTTO IL TEMPO CHE PURTROPPO RESTERAI SULLA TERRA, DIO TI PUNIRÀ!!!!!…. STANNE CERTA!!!!!! MI AUGURO SOLO CHE TU POSSA FARE UNA LENTA E BRUTTA FINE DATO CHE NON TE LA POSSO FAR FARE IO!!!!!!!!!!

– Purtroppo la giustizia Italiana fà questo , non ce da meravigliarsi se tra un mese o domani anche è agli arresti domiciliari ..

Mario R. (quello con cui ce l’ha la signora che è stata in carcere):
Se ci fosse giustizia in italia le teste di cazzo che stanno qua a commentare non avrebbero diritto di voto

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Ma il commento più bello a mio parere è l’ultimo e lo condivido:

“Io spero che mettano tutti voi in manicomio”.

RAZZISMO E FRENASTENIA

Hanno sdoganato tutto in Italia, legittimando il peggio. Ora è il turno della frenastenia e del razzismo. Ma anche della grammatica e della sintassi imbarazzante; perché #Salvini e i fan è così che si esprimono, o meglio ruttano tra una gutturale e l’altra. Nei social come altrove.

Il termine ricorrente è invasione, negro (con la g), rom; segue extracomunitario, meridionale storpiato in merdanale, in leggera flessione Roma ladrona. Una ragione c’è, non si sputa nel piatto nel quale si mangia. Ricorrono i neologismi: sinistrato, cattocomunista (il più delle volte con la k), sinistronzo, sinistrotto, piddino, renzino. L’uso del neologismo ha una funzione particolare, tende a circoscrivere l’individuo in un gruppo e il gruppo in un luogo comune con una lingua incomprensibile fuori dal recinto. Lo stesso accade con le degenerazioni neuronali o psicotiche. Perché di quello si tratta, le mandrie si uniscono attorno al capobranco che promette ordine e qualche benevolenza. La parola ordine ha una natura apotropaica e curativa quando l’Io perde le sue funzioni. Le parolacce la fanno da padrone: caxxo (con la x), rottinculo, checca, negrodimerda, terrone qualche volta. La grammatica latita, ma si tratta di gente laboriosa, non di intellettuali che hanno tempo da perdere con i dettagli. I concetti sono ridotti al minimo: gravitano attorno a poche idee, confuse neanche tanto; la prima attorno alla quale ruotano le altre è la paura per l’uomo nero che ti tiene un anno intero (come nella filastrocca). La medicina che gli accoliti propongono è il rimpatrio, la galera, la frusta a volte per gli indesiderati. La dinamica della discussione è pressoché la stessa: il mentore scalda gli animi con una domanda retorica e l’esercito infuriato parte in battaglia. Non c’è posto per la discussione, la regola è che a casa nostra facciamo come ci pare e se non vi sta bene fora di ball. Il Capitano commenta poco e quando compare sembra un bulletto di periferia che si mette alla guida fomentando la massa inferocita. Non stempera le animosità, istiga piuttosto con un’ironia che a lui sembra sottile, ma che non va al di là della volgarità di certi film anni ’70; la mandria fa muro e tutti insieme si riuniscono a mangiare polenta e osei. I luoghi comuni la fanno da padrone; un luogo comune è un pensiero che fa riferimento a un’abitudine culturale maturata nel sentire popolare. La realtà è un’altra cosa, ma quando c’è un limite cognitivo la comprensione viene filtrata da un’idea tanto diffusa da sembrare verosimile. La verosimiglianza è però lontana dalla verità, come la demagogia e la retorica dalla politica. Non si tratta solo di una disfunzione semantica indotta dalla mancata padronanza del vocabolario, ma di una profonda degenerazione neuroantropologica. Si sente nell’assenza del senso delle parole e appunto nel prevalere dei luoghi comuni. E vengo al punto: la demenza neurolinguistica è caratterizzata dalla perdita del significato e dal deterioramento cognitivo; è una manifestazione clinica della degradazione lobare frontotemporale, associata all’atrofia del giro temporale inferiore e medio.

Le persone affette presentano problemi nella denominazione e nella comprensione di parole, nel riconoscimento dei volti, delle cose, delle situazioni, della realtà; la predominanza del verbale o non verbale (e nel nostro caso delle gutturali che dominano sulle articolazioni mature della lingua) riflette l’accentuazione dell’atrofia cerebrale. Alla distruzione del linguaggio si accompagna quella della personalità e a seguire la dimensione sociale dell’individuo. L’aggressività, la violenza, l’odio sociale verso un fantasma immaginario e minaccioso è uno dei morfemi dello stato paranoico di un poveretto che ha smesso di desiderare in maniera sana e consapevole e ha cominciato a odiare.

#estinguetevi

PERCHE’ HUME NON FA CAUSA A BERLUSCONI

vespa berlusconi

La giustizia è la reazione a un’azione dannosa; ha una connotazione punitiva, nessuno chiede giustizia se prima non ha subito un torto. Anche quando rinunciamo al dibattimento, non possiamo fare a meno di pensare: ma con quale diritto (sempre lui, il terzo incomodo) mi fa questa cosa. La questione è complicata: è nato prima il diritto o la giustizia? Senza ammorbare le galline, la lasciamo in sospeso. Le mamme non avrebbero dubbi: sono nate prima loro, il senso della giustizia o del diritto è successivo e lo amministrano con la competenza di un pretore. La giustizia è gestita a più gradi, ma il suo esercizio pubblico è nelle mani dei giudici. Il giudice appurata la relazione tra la causa e l’effetto sanziona il responsabile della cattiva azione; deve ricostruire la verità e si comporta come un logico che ricompone il legame tra reazione e reazione. Hume, che era un ottimo filosofo non avrebbe potuto fare il mestiere del magistrato; ha messo in dubbio prima ancora che la coerenza di causa effetto la logica e ha chiarito la natura della verità (così come l’hanno raccontata Aristotele e le nostre mamme) come credenza. Le relazioni sono per natura instabili, tranne in italia dove sembrano eterne più che durature. Lo stesso vale per le credenziali, che hanno preso il posto delle credenze: quel ‘lei non sa chi sono io’ pare che faccia curriculum. Per relazione intendiamo la connessione (ontologica) tra cose, idee, fatti e i ragionamenti consistono nell’ordinare la frammentazione secondo relazioni costanti o incostanti. La relazione causale funziona per contiguità e priorità della causa rispetto all’effetto. Due oggetti considerati come causa e effetto sono contigui, uniti da un’infinità di altre cause e la causa precede sempre l’effetto. Dalla ripetizione secondo il prima e il poi nasce l’abitudine e giungiamo all’idea di connessione necessaria attraverso l’esperienza. L’esperienza ha sempre a che fare con il passato; tuttavia secondo Hume non dà garanzie su quel che accadrà, perché un cambiamento è sempre possibile. Ne sapeva qualcosa il tacchino di Popper, che aveva maturato la convinzione di essere immortale; fino al 25 di dicembre. L’induttivista prima o poi finisce ne forno. Trasferiamo insomma la nostra esperienza dal passato al futuro, ma lo facciamo per un meccanismo psicologico e emotivo, l’abitudine. L’abitudine a sua volta istituisce la necessità (e questa volta possiamo lasciare in pace la gallina, lo sappiamo chi è nato prima). La necessità è qualcosa che esiste nella nostra mente piuttosto che nelle cose; è la determinazione a passare da un oggetto a un altro, da un’idea all’altra ricercando la causa e i principi primi. Anche quando le mamme danno un ordine, pare che debbano inserire l’imperativo morale in una teleologia che ha come referente il buon Dio; senza quello il discorso sembra loro vuoto e privo di sostanza; contestabile dall’adolescente che ha dentro casa, disposto per acneica propensione alla confutazione. La giustizia è sempre sottilmente teologica come pratica intellettuale e non per niente il giudice è un pretore. Quando la mente passa da un’idea all’altra, lo fa in base a principi associativi che consentono di unirle nell’immaginazione. Tali principi sono: somiglianza, contiguità e causalità. Ciò significa che se abbiamo un’idea, la nostra mente tende a passare naturalmente all’idea che le assomiglia, che le è contigua e che le è connessa. Questa cosa le mamme e i giudici la chiamano verità. In quanto principio di associazione tra le idee, la causalità consente l’inferenza da un’idea all’altra. Secondo Hume esistono due definizioni della causalità, l’una intende la causa come relazione filosofica, l’altra la considera un principio di associazione. Per la prima la causalità si determina come un oggetto contiguo ed antecedente ad un altro, in modo tale che gli oggetti somiglianti siano posti in relazioni analoghe di contiguità e priorità. Per la seconda definizione, la causa è un oggetto contiguo ed è antecedente a un altro; unito ad esso al punto tale che l’idea dell’uno determini la mente a passare all’idea dell’altro. Discorso articolato più che complicato; in sintesi vuol dire che abbiamo la convinzione che ogni oggetto che cominci a esistere debba sempre avere la causa della propria esistenza. In Italia in particolare tale bisogno intimo di certezza e fondamento assume i toni del grottesco; qualcuno parla di Dio come causa prima, altri di un senso morale assoluto che ordina le cose, altri ancora di verità. Questi sono i peggiori, hanno la tendenza a istituire regole e leggi valide per tutti, al di là delle naturali articolazioni e diversità. Non siamo un popolo fenomenologo e le cose sembrano non bastarci per come si presentano e sono, abbiamo bisogno di altro. E perseguiamo l’intenzione con l’ostinazione di una mamma che detiene la verità e difende l’ordine col battipanni.

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Hume non avrebbe potuto far causa a Berlusconi o al figlio adottivo di Rignano, si sarebbe però rifiutato di baciare loro la mano. Come invece fanno i domestici dell’informazione, che più delle cause si interessano agli affetti (e agli effetti personali) di questi prìncipi primi svincolati dalla giustizia e mai riportati all’ordine dal battipanni delle mamme.

tre d italiani
Gli italiani il sesso (la rivoluzione) lo fanno poco e male

MI FAI MORIRE DAL RIDERE

riso

Gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso d’amore non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; tuttavia c’è un altro fenomeno sempre presente nelle relazioni amorose, la risata. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere, definendolo con il neologismo Marxlust. La risata come maschera o distrazione rimanda al significato del potere attraverso un meccanismo che preserva la vita privata a detrimento di quella pubblica; provoca un cortocircuito nel senso, un’assenza di significato come rimando al reale) perché le sue intenzioni primarie sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Il riso non è il motto di spirito di Freud e non serve solo per una scarica pulsionale; nasce e si risolve piuttosto nella manque-à-être, rimane nelle fenditure del significato dando accesso non tanto all’Altro grande, ma risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della relazione in quanto trabocca dal discorso e richiama all’assenza di un fondamento nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, strappandolo dall’ordine abituale lo svuotiamo di senso per consegnarlo al nulla. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. La relazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità, non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non unisce l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata sacrifica l’altro, non lo conferma: “Il riso comune … è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio; non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse … Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve” (Bataille). Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem. XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo possibile di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, eterogeneo a quello della parola. La materia della pulsione non è quella della parola; è fatta di un composto simbolico, mentre la pulsione ha una natura erogena. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse e si muovesse il senso, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: quando si parla qualcosa gode. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo si parla per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, modulazioni, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua.

FRAMMENTI 3D

Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Per quanto l’uomo neghi la natura, essa ricompare nelle deiezioni, in un gesto che non è solo negazione dialettica, perché nella risata i termini non sono superati come nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine concettuale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica (se non come motto di spirito), lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là dell’inconscio, trascina nel luogo in cui si apre una ferita che non può rimarginarsi. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia non canalizzabile. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo e attuale sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io, che è una radicale inesorabile erosione della vita. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio, rendendolo assimilabile. E’ una voce che parla dall’infinito prima che dall’inconscio. Più che Freud o Lacan è stato Nietzsche a dare una disincantata spiegazione della risata, in quanto terapia contro la veste restrittiva della moralità logica; una retrocessione dalla ragione così come scorre nel discorso. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito.

Frammenti di un monologo amoroso

 

Reich, l’orgasmo, la violenza sessuale

Altre due vittime, questa volta a Roma. Due donne stuprate (al di là dei tecnicismi giuridici tra tentata violenza e la violenza acclarata) e una responsabilità certa, certissima, anzi probabile; i colpevoli ci sono e hanno un nome. Altri però ne verranno perché è un fenomeno anomalo che si va anomalamente normalizzando; le leggi si fanno sempre più incisive (che per il nostro ordinamento vuol dire inasprimento della pena), ma non basta. Perché il mostro, l’Ombra, l’Altro non arriva da luoghi geograficamente improbabili e tuttavia fa comodo pensarlo. Per rimozione, proiezione e spostamento. Il mostro lo abbiamo in casa e lo nascondiamo al giudizio morale.

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Per Reich (che ha anticipato il discorso sulle sessuopatie) il criterio della buona salute è il libero fluire dell’eccitazione nel corpo; un corpo erotizzato e non sublimato nelle forme culturali. Ravvisava nelle tensioni muscolari un orgasmo inespresso, contenuto, vincolato più alla morale che alle reali esigenze della carne. Le tensioni croniche sono abitudini inveterate, il sintomo del disagio di una civiltà che ha censurato la natura umana nelle pulsioni e genuinamente predisposta al piacere. Come Marcuse, Reich rifiuta l’impianto teoretico freudiano di un impulso originario distruttivo; la nevrosi dipende piuttosto dal decentramento politico del corpo e del suo condizionamento sociale. Il discorso di Freud sul disagio è alterato da un concetto destoricizzato della civiltà, il sacrificio della pulsione non è necessario all’ordine che una comunità si dà, ma funzionale a un genere particolare di società, che per Reich è quello borghese capitalistico. E’ discutibile anche il principio di realtà (tanto caro a Freud) e parimenti indefinibile come quello di normalità; è in questo che la psicoanalisi dimostra una matrice metafisica o ideologica, utilizzando categorie ontologiche (o meglio mitologiche) e non antropologiche. Il concetto di sublimazione, in quanto risolutivo del conflitto libido/civiltà, è una mistificazione per una fascia sociale disorientata in quel che conta e che tuttavia cerca un equilibrio nei meccanismi del consumo e del capitale, rinvenendo non più nella dialettica con l’altro (e con l’Altro) la propria identità. La teoria dell’origine sessuale delle nevrosi porta nella pratica terapeutica alla sostituzione della rimozione inconscia delle pulsioni con la rinuncia consapevole alle pulsioni stesse. Per Reich si tratta non più di uno spostamento culturale sul piano scientifico di idee politicamente conservatrici. Il disagio attuale individuale e sociale dipende invece dal mancato appagamento sessuale, dall'”imptenza orgastica” responsabile nel singolo del disturbo nevrotico e delle degenerazioni etiche e sociali della comunità. L’energia sessuale non liberata provoca un ingorgo nell’organismo, una stasi sessuale che alimenta il sintomo e la malattia. La repressione sociale della sessualità, la miseria sessuale delle masse vincolata a una monogamia innaturale non è che il riflesso della reale miseria sociale e culturale nella quale il popolo si trova a vivere. Il discorso-potere sul sesso, la famiglia, l’ordine economico della società, le istituzioni sono la mano del potere capitalistico che, attraverso le forme della deviazione nevrotica, impongono il dominio materiale e economico dell’ideologia borghese. L’introiezione in massa della prassi sessuofobica come luogo morale, produce individui socialmente pericolosi, stimola gli istinti peggiori, favorisce l’edonismo e l’egoismo, fomenta le degenerazioni antropologiche, mutila il carattere politico, solletica il populismo, annulla le resistenze al potere vincolando gli oppressi all’oppressore. La repressione matura nella depressione, qualche volta nella perversione e diventando la regola della comunità ne altera l’etica, i costumi, le leggi. La famiglia patriarcale in particolare il più delle volte mostra il carattere repressivo, il baluardo del capitale all’interno della classe oppressa, impedendo già dalle mura domestiche ai giovani di sviluppare un’energia realmente rivoluzionaria.

Marcuse è andato anche oltre. L’azione del capitalista consiste nel produrre l’autonomia dell’ideologia borghese, come qualcosa di separato dai piaceri materiali e svincolato dalla realtà esistente. La felicità collocata al di là della vita quotidiana e finalizzata a liberare dalla realtà sensibile e dalla sessualità, diventa un meccanismo per disciplinare le masse insoddisfatte, potenzialmente eversive. Il disagio individuale e sociale è la conseguenza all’ordine contraddittorio della società. La mancanza di felicità, la malinconia o la depressione come carattere precipuo del popolo è banalmente il risultato di un’organizzazione sociale irrazionale. L’analisi di Marcuse non si ferma a questo: sottolinea l’incompatibilità della felicità con il lavoro, come testimonia l’esistenza miserabile a cui è ridotto il proletariato (nelle nuove denominazioni). Il piacere individuale, inconcepibile in un mondo rurale che l’aveva socializzato, non è in grado di tradursi in un progetto di reale trasformazione sociale; è necessaria una prassi per fare dei bisogni primari una profonda rivoluzione del reale in quel che c’è di razionale. Al progresso tecnologico e all’evoluzione economica (lo vediamo ogni giorno) non corrisponde necessariamente l’emancipazione umana, come pure al socialismo non è seguita la dissoluzione del capitalismo. La violenza, a cominciare da quella sessuale, è il punto più alto di un ordinamento sociale che reprime non la sessualità e il piacere, ma la loro diffusione all’interno di una strategia storica e dialettica. Ma questa davvero è un’altra vicenda, politica prima ancora che psichiatrica e penale.

Da Gli italiani…

L’AMORE NEL MULINO BIANCO

La pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva; attira, corteggia, stimola l’azione e il comportamento. Il messaggio pubblicitario, breve ma ripetitivo, riproposto all’inverosimile lusinga, lambisce il desiderio, non aiuta però a conoscere. Ha una lingua elementare e emotiva, perché se il prodotto è di largo consumo deve arrivare a chiunque. Una valvola mitralica non necessita di essere pubblicizzata. Il tecnico la compra sulla base di informazioni che dettagliano l’oggetto per quello che è. Non sempre il prodotto è buono, è vero, ma a quel punto ci sono le leggi e una valvola difettosa manda il paziente al Creatore, ma il chirurgo diritto in tribunale. Tra ciò che si dice dell’oggetto e l’oggetto deve esserci una corrispondenza o quantomeno l’articolo è tenuto a rispettare i requisiti minimi di sicurezza e funzionalità. Questo per dire che ci sono prodotti che non richiedono la pubblicità perché la qualità e una buona gestione del mercato li fa vendere e altri invece, la maggioranza delle cose, in cui la qualità risulta marginale per la vendita. Ma è cosa nota, un pessimo prodotto si vende comunque, basta saperlo raccontare. Ci sono cose inutili, di cui non abbiamo bisogno, spesso dannose che vendono moltissimo. Altre più modeste nella comunicazione ma con caratteristiche superiori rimangono sullo scaffale del supermercato. La discriminante che stabilisce il successo di un prodotto è proprio la pubblicità, una buona campagna di marketing non racconta l’oggetto, lo rende desiderabile finché crea il bisogno e spesso anche una reale dipendenza. Quante volte avete sentito dire: mio figlio mangia solo i biscotti del Mulino Bianco? Ecco, non è vero; o meglio la mamma fa in modo che lo diventi. Lasciato il bambino in una foresta solo con i biscotti all’olio di palma, li mangia eccome e magari anche la confezione e la commessa che glieli ha venduti. La cui commestibilità peraltro (parlo della commessa) non è mai stata veramente provata.

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Analizziamo come esempio lo spot di Gavino Sanna: il Mulino Bianco ha acquisito credibilità, racconta una storia (il mulino, il prato, le spighe di grano) e la famiglia pur vivendo isolata, in un’abitazione medievale, in mezzo al nulla è felice perché ha tutto ciò di cui ha bisogno, i biscotti che benché riportino l’avvertenza sulla confezione “non contiene olio di palma”, sono stati  (il più delle volte) maneggiati con lardi idrogenati, edulcoranti e altro ancora; che abbiano inquinato la Salerno-Reggio nel trasporto dal mulino a casa vostra, che il grano provenga da Chernobyl passa come un peccato veniale. Le mamme sanno che l’olio di palma fa male e i pubblicitari lo ricordano loro ogni volta che possono. Non ho mai veramente capito perché non ci sia allora la scritta “non contiene uranio o acido arsenioso”. Vabbè. La pubblicità ha istruito le persone prima ancora delle università e conosciamo i danni che provoca l’olio esorcizzato con una competenza pari se non superiore a quella di un medico internista. Ma il Mulino Bianco è un marchio e un marchio dà fiducia e poi l’ha detto la televisione. Abbiamo votato un pubblicitario per vent’anni, non stiamo parlando del nulla. La pubblicità non veicola solo il consumo, in realtà fa qualcosa di più radicale, racconta l’attualità, non guarda al futuro ma al presente. Le interessano i soldi, quelli che abbiamo ora non quelli improbabili di domani. E’ così racconta storie reali più del reale stesso. Guardando Ernesto Calindri che beve il Cynar al tavolo in una strada trafficata, si capisce subito che siamo negli anni ’50 o ’60, oggi se va bene gli automobilisti ti stirano, dopo ovviamente averti fregato il digestivo. Oppure il povero Franco Cerri che ha vissuto un decennio nella lavatrice per convincerci che stare a mollo nel Bio Presto è meglio che tuffarsi nel mare dei Caraibi; oggi sarebbe un comportamento antisindacale. O ancora il gentiluomo che con una flessione sicula dice alla moglie: “Io ce l’ho profumato”, insorgerebbero le donne del mondo civile. Che dicesi civile proprio perché se anche ce l’hai profumato, non puoi comunque dirlo a nessuno e meno che mai a un esponente del sesso femminile. Per non dire di quella signora che confessava alla nipotina che Gennarino (pur gran lavoratore) non aveva il pesce come Santuzzo suo. Qua si configura proprio il reato di molestia a un minore, e non mi pare poco. Una pubblicità del genere sarebbe oggi improponibile. E’ però inutile dilungarsi, ma tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla famiglia Boccasana. chiudo questo scritto con alcune immagini promozionali, normali una volta e assolutamente inconcepibili nel nostro tempo. Per inciso, mi piacciono più di quelle attuali; hanno dell’ironia e un nobile artigianato della parola che Oliviero Toscani se lo sogna. La pasta Barilla “ditalini” non scioccava nessuno, veniva richiesta con tanta naturalezza quanto ingenuità. Come quel condomino in uno spot degli anni ’90 che sentita la vicina ricciolina e desiderata gridare  con rabbia: “Esco e vado col primo che incontro”, si fermava davanti alla porta dicendole con un sorriso alla Pozzetto/Johnny Depp: “Buonaseraaaa”. Qualunque mora dai capelli increspati e con un Diavolo per boccolo oggi gli risponderebbe: e tu, che cazzo vuoi?

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Il mio preferito rimane comunque lui

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il video alla pagina

Un mio maldestro tentativo di spot pubblicitario (booktrailer)

Renato Pozzetto, i libri, l’omosessualità

UNA LETTERA D’AMORE

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La lingua è tiranna in quanto costringe a parlare, a nominare, a disporre in un ordine. Nominare significa identificare, imporre all’altro un’identità. E’ per questo che Barthes invita a fingere con la lingua, a nascondersi nelle parole, dove per l’appunto abitualmente veniamo individuati. Ma per sottrarsi alla lingua è richiesta una scrittura intransitiva, spersonalizzata, desoggettivata e tuttavia intima e radicale. Lo scrittore è capace di silenzio, di eccedenza. Come l’innamorato che ama, ma non per sua scelta. E infatti “Innamorato” si pronuncia nella forma passiva. “Io sono innamorato”, abitato dall’amore. L’amore non dà un ordine, non è funzionale; l’innamorato è fuori posto, come lo scrittore a cui si assimila per una profonda contiguità col racconto amoroso. L’ipergrafia, il bisogno di mettere nella scrittura le emozioni, le poesie, un certo lirismo nel comportamento derivato anch’esso dalla scrittura, come a colmare con un flusso di parole la distanza con l’altro. Anche in senso grammaticale l’amore è coniugale, una coniugazione di termini. L’innamorato parla (comincia così il libro di Barthes, Frammenti di un discorso amoroso) e la parola segue dal flusso della scrittura. L’amore si muove dall’Io all’altro e nel ritaglio semantico in cui costringe la relazione, la sottrae all’intervento di qualunque altro (il nome dell’Io e dell’altro circoscritti dal segno “cuore” ha questa intenzione sacralizzante, il témenos che contiene e protegge il theos). In questo consiste la discrezione dell’amore, la sua “solitudine costitutiva”. La parola d’amore è una parola che proprio tacendo diventa eccedente. Questa parola silenziosa come quella dello scrittore, disturba perché non è funzionale, è anarchica, senza norma, sediziosa. L’innamorato si viene a trovare in una dimensione straordinaria rispetto alle comuni regole della comunicazione. Che la sua sia una scrittura straordinaria lo dimostra il bisogno di ricostruire lo scenario anche quando la narrazione viene a mancare. Narrazione e Io sono infatti continui nel discorso. L’Io ha un crollo quando perde la sua narrazione, o sono presenti buchi che devono essere riempiti ritrovando gli anelli perduti nella catena. L’assenza di storia è come un appuntamento mancato, un significante smarrito, la sovversione della successione narrativa, della logica, dell’Io, dell’ordine si riflettono nel carattere frammentato del testo scritto, che difatti anche nella forma della lettera predilige quella poetica, del verso isolato, dell’interruzione a margine. Nasce e muore ogni giorno, l’innamorato va di continuo a capo. Il lirismo dell’innamorato racconta dell’ambivalenza del linguaggio, la tendenza a coprire e scoprire; si esprime in una forma che riferisce della possibilità di bleffare con la lingua, di imbrogliare il potere, attraverso quell’altro elemento sempre presente nel discorso: la significanza, come ciò che eccede, il senso che viene incontro (le sens obvie). L’amore scritto o raccontato come metafora di tutto ciò che è eccezionale, improduttivo, non funzionale. È il corpo innamorato a creare un disturbo nell’equilibrio dei sistemi interni al discorso. I limiti del corpo sono i limiti del lingua, la sua frantumazione porta il corpo a frammentarsi fino a perdere un ordine. Nella relazione l’amante prende coscienza delle potenzialità, ma anche dei limiti del proprio corpo. Nel momento in cui sente il corpo, lo avverte nella sua fragilità come qualcosa di estraneo e non duraturo, che ha un termine. Amare significa sentire la morte sulla pelle come qualcosa di inesorabile. Il rapporto amoroso viene raccontato come una perdita di sé e una tensione verso l’altro. Gli amanti sono eccedenti rispetto all’ordine; equivoci e “transgredienti” (Bachtin). Fluiscono di continuo l’uno nell’altro come se non avessero un’identità o un corpo. Il corpo innamorato è infatti contrassegnato dall’inquietudine per l’assenza dell’altro, come un lutto che anticipa la fine della relazione; la paura dell’abbandono viene esorcizzata con la richiesta continua di rassicurazioni (“giurami che mi ami”). Per Barthes il rapporto d’amore si propone come il luogo del desiderio, come metafora dell’eccedente (Bataille, Baudrillard), del disordine, della frammentarietà. C’è in Barthes un rispetto profondo per l’incertezza. Nell’amore come nella scrittura l’Io è decentrato, perde di consistenza. Diventa una scrittura del corpo e nell’immaginario si presenta nella forma radicale del “ti amerò per tutta la vita”. La scrittura d’amore, in quanto riscrittura, esonda dall’ordine della lingua e si fa “perversa” (Barthes), instabile, porta a estraniarsi dall’appartenenza a una specie in quanto specificarsi, dal perdurare nel proprio essere nel principio di identità. Sovverte le normali regole della comunicazione. La lingua comunica (e scomunica, desacralizza) mentre la parola si muove al di là della comunicazione, non ha bisogno dell’altro. Il significato di una parola non è solo verbale, linguistico, ha anche componenti che derivano dalla funzione pratica, dall’uso. Una parte del significato di una parola sta nel significato che produce in combinazione con altre parole. E’ contestualizzato in un ordine sistemico di interazione, il cui significato è determinato dal codice. La parola si restringe o si dilata, svuotandosi o riempiendosi di contenuti; la grammatica ordina poi la struttura. L’uso della parola è una scelta individuale che risente delle influenze psichiche. La scelta delle parole richiama a un contenuto profondo, legato ad associazioni “inconsce”, oppure consapevoli ma isomorfiche, proprie dell’individuo prima che della collettività e non sempre spiegabili, ma mai prive di senso. Wittgenstein si concentra ad esempio nella modulazione della voce, nella pronuncia, nelle espressioni facciali che accompagnano l’attività di parlare. Saussure considerava il discorso un atto lineare, nel senso che ogni espressione si succede all’altra, non vi è mai espressione contemporanea di più elementi. Ma esistono come eccezione a questa regola i “tratti soprasegmentali”, ossia le modalità espressive che accompagnano l’atto linguistico. La dimensione soprasegmentale suggerita da Wittgenstein aggiunge uno spessore affettivo-tonale alla parola. In una scrittura attraversata dal desiderio diventano determinanti il parlare indiretto, la metafora, la metonimia, il neologismo, la parodia, l’ironia, le diverse “forme del tacere” (Bachtin), non essendo praticabili nel consueto uso della lingua. E ciò spiega il carattere frammentato, ossia la prevalenza delle parole sull’ordine del linguaggio; la parola poetica più che la prosa, l’immagine isolata, il segno elementare, la grafia fine a se stessa che ritaglia i nomi circoscrivendoli (sacralizzandoli e sacrificandoli) dal contesto in un cuore, o anche l”incisione dei nomi su un tronco. Wittgenstein vedeva il linguaggio come un esercizio di traduzione intersemiotica tra immagini mentali e affetti e parole. La relazione si delinea come un’attività traduttiva, parimenti a quella interlinguistica, caratterizzata da anisomorfismo. Un sentimento tradotto in parole e poi ritradotto in sentimento (una ritraduzione) non porta allo stesso risultato. C’è una lingua che scorre nella lingua, con significati che vanno al di là dei significati. L’amore vuole essere corrisposto, proprio perché è una corrispondenza. Una lettera d’amore racconta della disponibilità alla frantumazione della totalità. Affonda la penna nell’immaginare più che nell’immaginario, nella significanza della significazione prima che nel simbolico; è la pratica del significare che precede la comunicazione. La scrittura segnata dalla parola amore, precede il parlare ed è nella sostanza amore per l’altro. Più che un dialogo è però un monologo. Lo dimostra la prevaricazione della parola sulla lingua quando scriviamo una lettera amorosa. Saussure distingueva tra “lingua” e “parola”; la prima rappresenta il momento sociale del linguaggio ed è costituita dal codice di strutture e regole che un individuo eredita dalla comunità, senza poterle inventare o modificare. La parola è invece il momento individuale, intimo, sregolato, mutevole e creativo del linguaggio, la maniera in cui il soggetto “utilizza il codice della lingua per esprimere il proprio pensiero personale”. La lingua si giustifica nell’uso e l’uso dipende da un’abitudine che ordina dando, nella regola alle parole, un senso alle cose. A differenza dalla lingua la parola non è un elemento rigido ma in movimento; è soggetta alle modificazioni indotte dall’intervento simbolico, culturale o emotivo. Si muove nell’eccedenza (l’ampio uso del superlativo per indicare l’altro, la punteggiatura esasperata, il ricorso a nomignoli, come se la lingua non bastasse a se stessa), dove l’assenza diventa “rispondenza” prima che corrispondenza, mantiene la domanda in una tensione costante. La lingua comunica, afferisce, mentre la parola differisce (différance); è attraversata dal desiderio indipendentemente dalla comunicazione, non ha bisogno dell’altro.

Dai Frammenti  di un monologo amoroso

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