Quando il corpo viene privato del piacere non rimane che la ritorsione; la pulsione diventa repulsione e implode come può. Il Super-Io (passatemi la parola) gode dei suoi onanismi mentre il confine col delirio di onnipotenza si assottiglia fino a scomparire. Chi giudica è un Dio senza coscienza, ma anche senza attributi. Perché è facile sentenziare dal pulpito della verità. L’uomo sano nel dubbio si astiene; nei deliri il giudizio si deforma invece nell’astinenza e la continenza non ha a che fare con la morale. Perché la vita si fa e quel che rimane è al di là del bene e del male; come i sogni che sono una didascalia erotica. Il desiderio parla e l’Io giudica e censura per lo più nell’altro, perché è più semplice spostare altrove il piacere piuttosto che riconoscerlo in casa propria. In Italia in particolare puliamo le scale del condominio, ma viviamo con l’immondizia nell’appartamento.
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L’universale femminile è un’idea e un’ideologia; io conosco questa o quella donna, con un nome e una vita unica, irripetibile e particolare. Il resto sono solo parole. Ma i problemi cominciano nel linguaggio; l’universale è flatus vocis, spoglia le cose dell’identità e a quel punto è facile prevaricare sul diritto, che è ciò che fa di una cosa (o una persona) quello che è. Non meravigliamoci quando si ripetono i delitti di violenza sessuale o domestica e ci scappa il morto; chi violenta o uccide riversa odio nel femminile e in quel che rappresenta in una cultura forgiata nel delirio di onnipotenza. Il sesso, l’assoluto sessuale che per metonimia rappresenta la femmina (come quando diciamo che le donne sono tutte puttane) è la manifestazione della degenerazione di un linguaggio paranoico incapace di relazionarsi con le articolazioni della vita, di dialogare col desiderio. Le quali tutte sono specifiche e individuali. Aggettivare è oggettivare; il giudizio è il tribunale che assolve la coscienza, la svuota rendendola libera di consumare anche una/la donna come un oggetto.
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Porno casalingo, l’uomo pubblica il video in rete e la ragazza si uccide. Qualche idiota derubrica la responsabilità dell’accaduto alla leggerezza della fanciulla, seguono commenti indignati tutti quanti condivisibili e nulla si può aggiungere. Resta un fatto: il giudizio ha un tono assoluto quando si parla di una donna, generalizza a partire da un universale. Il concetto di donna, l’idea della donna, il ruolo femminile prevalica sul nome e sulla specificità delle cose che sono sempre e comunque individuali. L’uomo ha una connotazione politica esclusiva, particolare, rimane una presenza ontologicamente riconoscibile nel diritto e nella morale. Non viene praticamente mai privato del nome anche quando è oggetto di insulti o infamia; nessuno dice: gli uomini sono tutti (l’aggettivo è poi accidentale), come accade per le donne. E’ un problema di natura semantica prima ancora che storica e culturale; si comincia ad uccidere con le parole, che non sono innocenti come una pistola scarica. Ogni volta che pronunciamo “le donne” la carichiamo; capita che i proiettili manchino dell’esplosivo, altre però come è avvenuto per Tiziana Cantone spara e ammazza. In rete rimangono i giudizi, giustamente di riprovazione, il nome continua però a non contare. Quella giovane vita se n’è andata così, vittima delle parole; come una cosa tra le cose, una tra le tante che consumiamo ogni giorno.
Da Gli italiani il sesso lo fanno poco e male
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