TORNATE A LEGGERE, CHÉ I SOCIAL VI FANNO MALE

Se parli male ragioni male e ti comporti peggio. La grammatica non è qualcosa di marginale, è l’ordine che diamo al pensiero. I commenti che si leggono in rete su Valentina V. * rilevano un dato statistico interessante: le costruzioni sintattiche più volente hanno una semantica prescolastica, tradiscono la sindrome da deficit fonologico e disprassia verbale ad andamento paranoide e un vocabolario che non va al di là delle cinquanta parole. Niente a che vedere con le grammatiche del quotidiano dei contadini e degli operai del dopoguerra. Quella italiana è una lingua viva, evocativa, sensibile alle flessioni territoriali; gli uomini delle campagne la modulavano con competenza e profondo rispetto per le parole. Nella lingua ordinavano il quotidiano e si davano delle regole. Mi pare invece che questa analfabetizzazione di ritorno, sgrammatica e decomposta, gutturale prima che compiuta nelle forme adulte della comunicazione, fortemente contaminata dal t9 e e da un uso disinvolto di una tecnologia che non si padroneggia sia qualcosa di profondamente diverso. Certo c’è anche chi si cimenta in sottili questioni teologiche: “Dio? Dove era in quel momento?” A cui segue la sentenza implacabile: “Dio non esiste”. Teologia negativa dunque, onore al merito. Articolare vuol dire ragionare, vedere le cose da diversi punti di vista, attingere da un dizionario disomogeneo e variegato. Qua siamo invece alla rigidità del pensiero e della lingua. Se conosci cinquanta parole vedi solo cinquanta cose e il mondo diventa infinitamente piccolo. Sempre in termini teologici c’è anche la “buonista” (la chiamano così i cattivisti): “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”. L’argomentazione è forte e meriterebbe due righe in risposta; e infatti arrivano: “Sei qualche parente x caso . La devono ammazzare a sta troia”. Argomento inconfutabile e allora si procede oltre. “Lurida troia”, “bastarda”, “In galera le faranno festa .. !!! Trasferitela a Palermo noi sappiamo cosa farne”. Qua abbiamo proprio uno spostamento verso la filosofia pratica, perché le parole non bastano più e perlamiseria la preda va data in pasto al branco: “Non ha avuto pietà per il bimbo perché dobbiamo averne noi per lei?”. Il noi fa ovviamente riferimento a un’identica percezione delle cose, allo stesso linguaggio: noi, i buoni, siamo nel giusto e perciò giustiziamo. È una questione logica: se sono nel giusto, giustizio e ‘ntuculo alla legge, la legge siamo noi. E allora il gruppo si ricompone: “io butterei ii dal balcone questa e la pena che devi pagare brutta stronza😬😬😬😬😬“, “Ma che dici … Nn capirebbe niente … deve essere bruciata viva”. La regola della comunicazione (in questa come in altre discussioni) sembra insomma consolidata: uno parte con l’aggressione e la minaccia e presto arriva un simile a dare il contributo. I simili, come i coglioni, vanno sempre in coppia e fanno gruppo. Dove c’è un gruppo ci sono tanti “simili” e nella pagina di questa signora (come anche altrove) i “simili” davvero non si contano.

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* Il fatto è noto: una giovane donna getta dal balcone il figlio e il bimbo muore. Il web si scatena, l’italiano di norma belante col padrone si mostra feroce coi disgraziati. Perché sempre disgraziati comunque sono. I commenti su Facebook nella pagina della donna sono migliaia, ho provato ad analizzarne alcuni. La regola è il punto esclamativo e qua si sprecano: come dire tiè o ‘ntuculu e più ne metti più ‘ntuculo lo prendi. L’italiano, inteso come lingua, latita (nel carattere fa invece sentire la fulgida presenza) e all’assenza del congiuntivo siamo però abituati. Il ke scritto con la k viene inteso come un rafforzativo e la x in luogo di per serve a demarcare la differenza antropologica: la lingua italiana è roba da checche intellettuali (e dunque di sinistra), noi siamo altro, nonrompetecilaminchia. I più imbestialiti invitano alla violenza (bruciamola, se ero io ti ficcavo… vabbè ci siamo capiti), altri, gli apocalittici invocano la giustizia di Dio. Io non sono pratico della materia, ma mi pare di ricordare che Dio fosse agape e misericordia. L’aggettivo puttana è la regola e vuol dire: sei un corpo sessualizzato e dedito al piacere piuttosto che all’amore. Sembra che il piacere svilisca l’amore, bah. Troia, cagna etcc. I commenti più garbati sottolineano il disagio mentale della signora e l’opinionista italiano rivela una insolita preparazione psicoanalitica. Le sentenze più violente (e questa cosa mi ha stupito) vengono dal mondo femminile (70 a 30 direi), bassa scolarizzazione, qualche nostalgico fascista. Alcuni commenti li ho trascritti fedelmente qua sotto; buona lettura.

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C’è quella che dà consigli: Troia puttana 😤 xke ucciderlo xke portarlo in grembo x 9 mesi x poi ucciderlo xkeeeee bestia bastarda devi crepare… Nessuno deve avere pietà di te merdaccia umana potevi portarlo in ospedale e rimanere anonima bastarda

Quella che era meglio se chiudevi le gambe: Solo un essere spregevole ed ignobile arriva a qst….sta piezz e puttana bucchina prima gli è piaciuto aprire le gambe…x nove mesi ha nascosto la gravidanza a tutti dicendo che nn sapeva di essere incinta….ha avuto la freddezza e la lucidità di buttarlo giù…ma che psicopatica di 💩💩💩💩 rinchiudetela in un manicomio e buttate le chiavi….

Quella che è stata in carcere: Brutta puttana di merda spero che alle vallette ti mettono subito una corda al collo dopo averti torturata bastarda che sei non meriti neanche la galera tu… meriti torture e morte… non sei una donna e neanche una mamma perche loro non fanno del male hai propi figli tu invece hai avuto il coraggio di uccidere un anima innocente 😈😈😈 crepa all inferno troia maledetta

Il mistico che invoca il giudizio divino: BRUTTA SCHIFOSA, SEI UNA VERGOGNA, MERITI DI MORIRE DOPO TANTO TANTO DOLORE!!!
DEVI SOFFRIRE….NON HO PAROLE BRUTTA TROIA!!!! GENTE COME TE NON DOVREBBE ESISTERE DIO TI DOVEVA FULMINARE PRIMA!!!

Quella di prima che è stata in carcere e ce l’ha anche con tale Mario R.: Mario R. sei un indegno e infame come XXX che di conseguenza spero che quando la mettono nel femminile delle vallette la appendono con una corda alle sbarre della cella sta puttana infame… e tu se sei il marito sotto falso profilo se…Altro…

Una signora interviene a moderare i commenti: siete solo dei meridionali.

Quello che le donne sono tutte: troia di merda….che tu possa marcire all’inferno insieme a chi ti ha aiutato.

L’esperto del sistema giudiziario: Magari la farà franca uscirà presto farà una comunità di recupero e poi libera….
Ma la gente che incontrerà povera lei meglio che si cambia i connotati

– al rogo

– bruciamola viva
(Due promani)

C’è anche chi prospetta l’eugenetica: Una persona malata di mente non dovrebbe mettere al mondo i figli

– Io penso che la colpa più grande ce l’abbia il marito

– Cosa cavolo c’entra il marito?

– il marito oltre a mettere il cazzo in culo non ha fatto nulla.
(Sillogismo perfetto)

Quella coi punti esclamativi: Sei la peggiore delle speci (e già: se specie è al singolare, il plurale dovrà essere speci)… Non so come definirti,ma sicuramente non sei una madre… Sperò tu marcisca in galera e che ti torturano fino alla fine dei tuoi giorniiiiiiiii !!!!!!!!!!!!

Quello che sei mignotta tu, tua madre e tua zia: Brutta puttana devi morire sia tu che quel figlio di puttana di tuo marito!!! Fate schifo bastardi di merda!!!! Meritate di morire torturati lentamente brutte merde indegne!!!

Grande troiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa se ti terrei nelle mie mani ti farei fare una brutta fine.

Che Dio ti fulmini

Un ardito posta la foto del duce; la didascalia dice: ecco chi ci vorrebbe per salvare questo schifo di paese.(se non ricordo male nell’ultima guerra i morti sono stati 50 milioni, ma non si può pretendere di più)

Quella che la tortura non basta: SE TI AVREI TRA LE MIE MANI TI INFLIGGEREI TALMENTE DI QUELLE COLTELLATE CHE NON HAI IDEA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! MA SENZA FARTI MORIRE!!!!!!!! TI FAREI SOFFRIRE TANTO FINO AGLI ULTIMI TUOI 10 RESPIRI….. POI TI DAREI FUOCO LENTAMENTE!!!!!!! UNA MORTE LENTA ED AGONIZZANTE!!!!!!! E POI TI SQUAGLIEREI NELL’ACIDO!!!!!!!!!!! PER ELIMINARE DALLA TERRA OGNI TUO RESIDUO INUTILE SUPERFLUO! CHE TU PUOI MARCIRE NELLE FIAMME DELL’INFERNO!!!!….. E TUTTO IL TEMPO CHE PURTROPPO RESTERAI SULLA TERRA, DIO TI PUNIRÀ!!!!!…. STANNE CERTA!!!!!! MI AUGURO SOLO CHE TU POSSA FARE UNA LENTA E BRUTTA FINE DATO CHE NON TE LA POSSO FAR FARE IO!!!!!!!!!!

– Purtroppo la giustizia Italiana fà questo , non ce da meravigliarsi se tra un mese o domani anche è agli arresti domiciliari ..

Mario R. (quello con cui ce l’ha la signora che è stata in carcere):
Se ci fosse giustizia in italia le teste di cazzo che stanno qua a commentare non avrebbero diritto di voto

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Ma il commento più bello a mio parere è l’ultimo e lo condivido:

“Io spero che mettano tutti voi in manicomio”.

L’IMPIEGATO ARISTOTELICO

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I funzionari statali sono aristotelici e forse vanno pure oltre. Non si limitano al principio di non contraddizione e di identità, la relazione che dispongono tra il prima e il dopo è più simile al principio di individuazione che a qualcosa interno alla persona o a un corpo che è in continuo divenire e mai interamente definibile, neanche nel nome. Ma col nome ci rendono individui e individuabili, ed è questo che interessa allo Stato. Chiamano generalità la nostra essenza (οὐσία) o carattere anagrafico e noi dobbiamo fornirle quando sono richieste; ma è una qualità vuota di senso perché non ci definisce sostanzialmente e non costituisce quello che siamo, se non di lato; e tuttavia paternità, luogo di nascita e residenza servono a collocarci in uno spazio e nel tempo e tanto basta. Lo Stato idealista (ogni Stato lo è) non riconosce la categoria del singolo e del diverso, la dissolve in un’universalità che precede dando consistenza giuridica al particolare. Che in sostanza vuol dire doveri prima ancora che diritti. La specie o il genere vengono prima dell’individuo e si sostituiscono ai suoi bisogni, anche sui documenti dove quello che realmente siamo caratterizzandoci è alla voce segni particolari. Particolari, come qualcosa di accidentale e marginale, utili però a distinguere nello specifico una persona dall’altra e dunque comunque sostanziali. Giustificano con l’universalità del diritto le infinite articolazioni dei doveri. Lo dico perché ero all’anagrafe comunale e l’impiegato pretendeva le mie generalità; nome, cognome e luogo di nascita per intenderci. Come se in quelle parole ci fosse l’identità o il senso della mia vita. Io ho provato a spiegare che non sono identico, che sono e non sono, che entriamo e non entriamo due volte nello stesso ufficio comunale. Confondeva il nome con l’essenza (τί ᾖν εἶναι), che nel linguaggio aristotelico significa “ciò per cui una certa cosa è quello che è e non un’altra”. La parola essenza indica ciò che determina l’oggetto o l’individuo e corrisponde alla visione ideale della realtà determinata dalle categorie mentali; che a quanto pare non sono particolarmente articolate nei funzionari dello stato. L’impiegato chiedeva di identificarmi col particolare e dunque con quel che c’è di accidentale e contingente in me, ma che contrassegnava come qualcosa di determinante, immutabile, di significativo per distinguermi all’interno della specie o nel gruppo. E meno male che il manipolatore di paradossi sono io, più contraddittorio di così non poteva essere. Voleva l’essenza e cercavo di fargli capire che sono assenza; e questa cosa non l’ho veramente capita, pur non essendo digiuno di filosofia e teologia. Poi mi è venuto in mente Duns Scoto e ho recepito che il burocrate mi stava sostanziando teologicamente, prima che giuricamente o con categorie antropologiche. Il ragionamento sottostante doveva essere più o meno questo: le cose sono uniche e particolari nelle loro caratteristiche individuali e tuttavia hanno una natura condivisa. Piero e Luigi hanno qualcosa in comune che li distingue da tutti gli altri del gruppo, da un cane o una scarpa; ciò che li apparenta è la natura umana. Ma allora perché Piero e Luigi sono diversi se la loro essenza è la medesima e se condividono la stessa forma? Non è per la forma che si distinguono e neppure per la materia, che non è (sempre secondo la definizione aristotelica) “privazione” e “passività”, ma essa stessa è attività e si delinea secondo una specifica individualità. L’ecceità (o haecceitas) propriamente, che è la concreta individuale differenza che permette di distinguere una cosa dall’altra e per la quale ogni essere individuale è unico e originale: “La causa, non della singolarità in genere, ma di questa singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa (haec determinate)”; (D.Scoto, Opus oxoniense, II, distinctio 3, Questioni 2-4).

L’ufficiale allo sportello voleva dotarmi di una carta di identità e con la parola identità intendeva qualcosa che non cambia, di continuativo secondo appunto il prima e il poi, di sostanziale e che non muta nel tempo. Ho provato a contestare, l’identità mi sta stretta; ci ho messo tanto a perderla e che fa, me la ritrova un miope funzionario comunale? Gli ho chiesto piuttosto di appuntare sul documento che sono un essere in transizione, assente più che essente; in divenire se preferiva, incerto, instabile cercando una parola appropriata che fosse assimilabile dal suo stomaco peripatetico. Ma niente, non ha voluto sentire ragioni; non mi aspettavo che avesse letto Eraclito, quello non aveva neanche visto il film “L’attimo fuggente”. Funziona così in questo Paese, invece di leggere il libro i miei connazionali aspettano che esca il film. Ho rinunciato a discutere e alla sua domanda perentoria: “Lei chi è?” non ho potuto che rispondere con nome e cognome e mi sono appunto identificato (nella sostanza vuol dire che mi sono reso identico a me stesso e con quel che si aspettava lo stato per bocca dell’impiegato). Mi ha dato del polemico, ed era inutile spiegargli che la parola polemos richiama a un’armonia profonda, a una radicale e incomprensibile per lui unità dei contrari. Mi sono limitato a farfugliare il Frammento 53 di Eraclito: “Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι …” (“Polemos è padre di tutte le cose…”). Voleva il mio nome, solo quello e nient’altro; come il Diavolo quando chiede l’anima, il resto non gli interessava. Perché l’anima è quella, presente, non diviene e non cambia. E’ la misura del tempo secondo memoria, intelligenza e volontà, come diceva Agostino. Facoltà che rimandano appunto a qualcosa di immobile e che rimane inalterato. Tre vite ma una vita sola, un solo spirito, una sola essenza. La memoria soprattutto in cui risiederebbe (per il funzionario agostiniano) la sostanza di quel che sono e che mi specifica come questo e non un’altra persona; ciò che nella mia memoria non ricordo, non può far parte di me o della mia identità: “Quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza” (La Trinità, XI, 11-17). Avevo insomma davanti un raffinato teologo e non ci capivamo, la filosofia è un’altra cosa. Io ero Skoteinòs, oscuro per la sua logica lineare che non gli faceva concepire il panta rei (lo dico a chi non ha visto il film, “tutto scorre” secondo la formula lessicale di Simplicio in Phys., 1313, 11, rileggendo il frammento 91 di Eraclito) e quello non seguiva il mio ragionare, che alla fine era meno paradossale del suo. Avete mai parlato con un hegeliano? Spiegateglielo se ci riuscite che il divenire non è una progressiva presa di coscienza dell’assoluto, racchiuso nei limiti antitetici, quanto piuttosto risiede nella modulazione di un’identica sostanza (“Tutte le cose sono Uno e l’Uno tutte le cose”).

Nella domanda “ma lei chi è?” non c’era solo l’ordine di un pubblico ufficiale che chiedeva di identificarmi, di rendermi identico a me stessso; c’era piuttosto la richiesta di adeguarmi all’idea universale, di riconoscermi nel genere di uomo che lo stato e il dipendente comunale avevano in mente. La carta di identità altro non fa che annullare la categoria del diverso, dissolve le alterità nell’identità. Inutile spiegargli che le cose vengono prima, mentre le parole e le idee sono mero flatus vocis; se non aveva visto il film con Robin Williams di certo non aveva letto Roscellino o Abelardo. La mia identità, il mio nome doveva essere in re o ante rem; ma io ho non ho mai assorbito quella forma di egocentrismo e non prevarico le cose; potevo parlargli di post rem, che è forse là che si trova quello che conta. Ma ho desistito, alle sue orecchie che sapevano di incenso e logica aristotelica poteva anche sembrare una cosa sconcia. In pratica, dietro quel “chi è” c’era la volontà di sostanziarmi e il discorso era profondamente teologico. Il termine essere si predica univocamente, nello stesso significato, sia delle cose create e finite, sia dell’essere increato e infinito, cioè in sostanza Dio nelle sue funzioni. Così ragionano i teologi. Ciò non significa che l’essere sia il genere più ampio che al suo interno contiene tanto Dio quanto le cose: si tratta piuttosto della determinazione comune a tutto ciò che esiste. L’essere è il primo oggetto dell’intelletto e tramite la sua azione è possibile conoscere il resto. E’ una bella idea l’ontologia, ma la vita è un’altra cosa. Rimango fermo sulle mie posizioni, gli universali sono cose da aristocratici, la realtà è fatta da enti individuali, da assenza più che da presenza, dal nulla prima che dall’essere.

RICETTARIO FILOS

Nel nome è presente il principio di individuazione, come ciò che permette ad un’individualità di presentarsi come tale; ovvero e in termini aristotelici, come sostanza singola o prima. Rimuove la tensione originaria verso il non essere che pure è sempre presente; svolge un ruolo di rilievo nel rapporto che sussiste tra forma, materia e categoria. Come ho detto si può far risalire tale principio (che con mille buone ragioni Schopenhauer identifica con quello di ragione) ad Aristotele. Il peripatetico affermava infatti che la sostanza dotata di esistenza (dunque individuabile) è solo ed esclusivamente quella singola, o sostanza prima, ossia l’individuo composto dall’unione di forma (categoria universale) e materia (che conferisce le caratteristiche individuali). Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham sono andati però oltre. Il primo avendo una concezione realista degli universali proponeva una mediazione tra materia e forma che consentisse il sussistere della sostanza singola; la quale consisteva di una proprietà (ecceità) che doveva sommarsi alla quidditas e alla materia. Ockham sostenne più direttamente l’inutilità del principio di individuazione in quanto, da convinto nominalista, considerava l’universale come pura determinazione concettuale, mentre le uniche realtà esistenti sarebbero quelle individuali. Ma allo stato e ai suoi dipendenti a quanto pare piacciono più le parole di Tommaso, che distingueva la persona dalla natura umana: la persona è il soggetto che agisce concretamente, mentre la natura è ciò che permette alla persona di agire; ciò che caratterizza la personalità o la sostanza della persona sarebbe insomma tale sussistenza, mentre l’attività intellettuale e della volontà appartiene alla natura o essenza spirituale. Sempre secondo l’Aquinate la persona è il sussistere di una individualità umana nella sua concretezza, mentre la natura è ciò per cui una persona è un essere umano; la natura individuale si delinea come ciò per cui una persona possiede proprietà e accidenti in modo unico e irripetibile. L’identità della persona è radicata nella natura e per attuarsi deve essere sussistente e spirituale; per essere un esistente concreto, e non rimanere a livello di definizione astratta, la natura umana deve perpetuarsi in una sostanza, diventando sostanza prima. Dal momento che il soggetto sussistente è il supposito, la persona umana può essere definita anche “supposito di natura razionale”. Essendo pura forma, l’anima non è l’essere come Dio, ma ha l’essere. Non è puro essere, ma è un essere-questo, limitato e causato; eppure possiede l’essere in modo tanto immediato e diretto da trasmetterlo al corpo. Per questo Tommaso definisce l’anima spirituale “la forma sostanziale del corpo” (Summa, I, 76, 1). Come si vede sempre di idealismo parliamo, accade ogni volta che vogliamo dare un ordine logico al mondo; la pulsione al paralogismo pare incontenibile. Non diverso è il concetto di Aufhebung, che per quanto introduca un elemento vivo all’interno della rigidità dialettica, implica la tensione dei contrari, da superare però al culmine del processo la contraddizione conservandola migliorata. Tale trazione nel discorso filosofico si adatta alle intenzioni di Hegel: nel processo di sublimazione un termine o concetto è al tempo stesso conservato e modificato attraverso l’interazione con un altro termine o concetto. La sublimazione si presenta come il motore della dialettica stessa. I concetti “essere” e “nulla” sono entrambi preservati e modificati attraverso la sublimazione per dare luogo al concetto del “divenire”. Parimenti la “determinatezza”, o “qualità” e il “numero” o “quantità”, sono preservate e sublimate nel concetto di “misura”.

Il principio di individuazione non è insomma distante da quello di ragione. Se è possibile individuarsi, non è a causa della collocazione del tempo secondo il prima e il poi, ma per una particolare tensione ebbra di attualità. Ciò che è immediato è senz’altro vero, perché è conosciuto senza la mediazione intellettuale; in questo senso Nietzsche parla di conoscenza tragica contrapponendola alla conoscenza ideale, che con la logica ha legittimato la menzogna. Il principio di individuazione, in quanto artefatto, non può costituirsi come verità proprio perché non coincide con la realtà, ma con l’immagine di un sogno. L’impiegato chiedeva in sostanza di adeguarmi al suo sogno e alla mistificazione operata dallo Stato, pallido surrogato di quel che è vero. Ma io sono un ente reale, non onirico, assente e non essente, attuale ma non presente, al di là di quella cosa che chiamano identità e che è solo la scoria di ciò che l’impiegato appunta nel documento secondo una successione del tempo. Qualcuno la chiama coscienza, altri con un eccesso di romanticismo coscienza infelice; ma allo stato e ai suoi funzionari non interessa la prima e chiudono gli occhi davanti all’ultima. Tutto scorre e l’Io diviene, ma non la rigidità filosofica dello stato e dei suoi funzionari.

TI REGALERO’ UNA ROSA, ANZI UN ROSATELLUM

Rosa Tellum e Lele Ttore

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L’orgia: cinque voti, tutti con la fiducia e il Pd (con Alternativa-Popolare, Forza Italia, Lega Nord, ALA-Scelta Civica, Verdini) si è fatto la sua Legge, il Rosatellum. Il perché lo sappiamo, c’è beppelasgualdrina che fa incetta di elettori. Col sistema delle alleanze (o orge di circoscrizione) un partito col 15% dei voti potrà avere più seggi di uno che ne ha il 30%. Il Parlamento dei nominati ha approvato il profluvio elettorale; la rappresentanza non conta e Il Pd farebbe prima a trasferire la Camera da letto a Rignano. Napolitano orgasma: voto sì per salvaguardare la stabilità. E se lo dice lui, ex fascista che ha mantenuto il Paese nel torbido, dobbiamo credergli. Altrove li avrebbero linciati, ma fortuna loro l’Italia è un Paese pacifico, che gioca a calcio, è di Casa a Pound e pensa alla figa.

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Un grillino per la testa: facciamo una simulazione, perché coi numeri si capisce meglio e arrotondiamo a 600 i seggi. Voti: M5s 28%, Pd 26%, Fi 17%, Lega 15%, Fdi 4% …
-300 seggi uninominali vengono così suddivisi: M5s 50, Pd (e alleati) 180 , Fi (e alleati) 30, Lega-Fdi 32 …
-300 seggi proporzionali: M5s 98, Pd 91 , Fi 59, Lega 52 …
-Seggi totali: M5s 148, Pd 271, Fi 89, Lega-Fdi 82 …

Il Pd (giusto per fare un esempio) con il 26% dei voti prenderà il 45% dei seggi. Ma possono anche verificarsi risultati sconcertanti; non è da escludere che un partito con il 29% o anche meno (ad esempio il Pd) si assicuri il 54% degli scanni. La chiamano Democrazia questa e per celebrarla hanno infatti la D cucita nel décolleté.

Rosa Tellum ha tradito Lele Tttore: la x sulla scheda non va al candidato scelto e il partito di maggioranza benedetto dalle urne avrà una manciata di parlamentari, gli onorevoli continuerà a sceglierli la Casta. Casta fino a un certo punto, Sfacciata piuttosto. L’ammucchiata è fatta da questi qua e il partito di governo (il Pd ad esempio) Marcia in prima linea su Roma.

Cielo, mio marito! Dal Pc al pc: i rivoluzionari ai tempi dei social, col maglioncino in cashmere e l’azienda o la banca di papà, quelli con la h aspirata, gli occhi blu e il make-up alla moda, che demoliscono lo stato sociale, scrivendo però tweet insanguinati da un fervore sedizioso che li porta a fare le barricate anche con tre punti esclamativi. Ai tempi dei social la rivoluzione si fa così, avendo cura di non sgualcire l’abito di Gaultier. Il popolo reazionario assiste desolato alla strategia eversiva della pasionaria Serracchiani e del compagno Orfini, pronti a scendere sul web con post appassionati e declamatori. Disposti a sacrificare anche la Vuitton per preservare la libertà del popolo. Quella che segue è una lista dei diritti per i quali i giacobini del Pd si sono battuti per tutti noi: Jobs act, voucher, articolo 18 cancellato, Banca Etruria, Mps, Buona Scuola, 203 prestazioni sanitarie diventate a pagamento, anticoncezionali in fascia C, esproprio della casa dopo 7 rate, disoccupazione 11,4%, disoccupazione giovanile 37,9%, inps +5%, Rai lottizzata e giornalisti epurati, legge bavaglio sulle interecettazioni, sconti e condoni milardari al gioco d’azzardo, F35, trivelle, il Ponte. Un po’ di massoneria, Benigni, quello che misonosbagliatoladivinacommedianonèlapiùbelladelmondo, la Salerno-Reggio Calabria (e un uomo in grado di dire che l’ha terminata è davvero capace di tutto). E troppe ancora ce n’è. Ma qua mi fermo per decoro, per sopraggiunta acidità di stomaco, perché la legge elettorale (voluta ad esempio dall’attuale classe dirigente del Pd) è una sgualdrina mariola e senza scrupoli ed è inutile aggiungere altro.

FACEBOOK censura le idee e spilla soldi con la pubblicità

“Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.” RedBavon

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L’articolo censurato (foto di RedBavon)

Di Giancarlo Buonofiglio

FACEBOOK, la cloaca del pensiero che latita, dell’insulto con rutto libero, della morale delle mutande madide di polluzioni, il coacervo del razzismo e del fascismo de noartri, il social che oscura i seni ma non rimuove post omofobi e minacce di morte l’ha fatto ancora. Questa volta ha censurato l’articolo scritto con RedBavon e Cuoreruotante sulla Commedia Sexy perché “contiene evidenti contenuti pornografici”. Avevo pubblicato il documento su Morelli e anche quello è stato cancellato per le medesime inemendabili ragioni. Ora tutto si può imputare allo psichiatra, ma non che abbia la faccia da culo. Quel social è un’accozzaglia di rigurgiti intestinali, tollerati fino a quando non esprimono un’idea; le fotografie sono la sottana dietro alla quale si nasconde una censura che non ha il coraggio per dichiararsi tale. Perché di quello si tratta. E per quanto riguarda il nudo: non ho mai capito il criterio col quale la comunità dei neuroassenti discrimini le immagini. L’esposizione della carne non manca, pur ritagliata in alcune parti. Il seno è tollerato, il capezzolo no. Il fondoschiena si può esporre; a quanto pare non ha una definizione oscena e non disturba il comune sentire. E’ interessante questa attenzione al ritaglio da macelleria; per metonimia la parte prende a significare il tutto e il corpo sezionato si presenta come il simulacro di significati che non ha. A vederla così sembra che l’interesse pornografico vesta il corpo piuttosto che spogliarlo con un abito di contenuti che ha la consistenza e la realtà dei fantasmi che affollano una mente malata.

Non c’è che un modo per ricostruire un minimo di diritto e se non li tocchi nel portafoglio questi non capiscono: EVITARE DI PAGARE LE INSERZIONI A FACEBOOK. (Che oltrettutto servono quanto una scatola di preservativi in un ospizio di centenari*.) L’azienda americana non è un social, ma un contenitore di avventori a cui il ZuckerMastrota della comunicazione propone tra i ciaone e le foto dell’amatriciana pentole e coperchi. Se gli articoli vengono generosamente ricondivisi, Facebook al di là dei contenuti li cancella perché a quel punto bisogna pagare (ti condividono? Dacce e sordi, che si capisce meglio); se i post (li chiama così con un neologismo di dubbio gusto) sono al di là della media intellettuale bovina blocca l’account. Di calcio puoi parlare, un’idea non la devi proporre (altrimenti è appunto pòrne.) Non ho mai postato un nudo e mi contestano infatti la pornografia. Questa volta è toccata a me, ma è una cosa che riguarda tutti; e se oggi censurano il mio pensiero domani toccherà al vostro.

[*A breve il mio articolo sull’inutilità delle inserzioni a pagamento su Facebook]

Seguono i commenti di Redbavon e Cuoreruotante.

Santissimo Zuckerberg! Scusa la volgarità!

“Scusa la volgarità? E perché? “
“Quello ogni cosa è peccato! È capace, vede il punto esclamativo … cos’è ‘sta cosa; l’uomo con il puntino sotto, è peccato, noi ci mettiamo con le spalle al sicuro. Scusa le volgarità…”
(cit. dalla lettera a Savonarola di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”)

di RedBavon

La censura di Facebook si è abbattuta sulla bacheca di Giancarlo e ha eliminato il post che indirizzava all’insano contenuto pubblicato in terra di WordPress, frutto della spremitura di tastiere di Cuoreruotante, Giancarlo e me. Motivazione: “contenuto pornografico”.

La motivazione fa ridere per almeno tre ragioni:

  1. Non è un articolo ma un link al post su WordPress e le righe di presentazione scritte da Giancarlo sono tutto fuorché “pornografiche”. Abbiamo le prove: l’immagine del post di Giancarlo è sopravvissuta nella mia bacheca. (NdA: Giancà due sono le cose: hai una “reputation” sotto lo sporco delle suole delle scarpe oppure, come direbbe il Marchese del Grillo, io non sono “un cazzo”.).
  2. La commedia sexy all’italiana è classificata come sotto-genere della commedia all’italiana e non nel genere “hardcore” o “XXX. Solo per adulti”.
  3. Non è necessario nemmeno scomodare il gotha della critica cinematografica, ma è sufficiente avere visto qualche film per capire che qualche tetta e culo al vento non fanno “pornografia”: basta fare una passeggiata sulla battigia d’estate, assistere in TV a un qualsiasi show di varietà o passare davanti a un cartellone pubblicitario.

Dall’autorevole Treccani la definizione di “pornografia”: trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, video ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.

Se ne desume che lo scultorio posteriore della Cassini o il giunonico seno della Fenech siano ritenuti dai moderatori di Facebook come “osceni” e che lo scopo del nostro articolo fosse di “stimolare eroticamente il lettore.”.

Chiunque abbia letto anche solo le righe di Cuoreruotante, che apre il trittico di contributi, può comprendere che il moderatore, fan di Tomas de Torquemada, è fuori come una fioriera sul balcone  del decimo piano oppure ha molti più problemi di noi tre con la lingua di Dante.

Gli altri due contributi sono scritti da due autori maschi e, dato il tema, il moderatore potrebbe attendersi, come minimo sindacale, almeno della “pruderie”: a parte un lessico più libertino e qualche fotogramma che esalta le decantate doti delle attrici, si tratta di un tributo a un genere che ha fatto storia nel nostro cinema e, stilisticamente, è un divertissement (il mio) e un piccolo saggio (quello di Giancarlo).

Con i suoi due miliardi di utenti (fonte Ansa.it 28 giugno 2017), è chiaro che Facebook  è di fronte a una sfida senza precedenti e, comunque, di portata titanica. La società di Mark Zuckerberg, quasi senza accorgersene e nonostante una folta schiera di detrattori e concorrenti, è diventata tra i messa media l’organizzazione più grande e a più ampia diffusione nel mondo.

Due miliardi di individui compresi nell’ampio spettro di varia umanità anche avariata con le loro capacità di intrattenere, informare, emozionare, meravigliare, rattristare, disgustare, annoiare, terrorizzare.

Si stima che il Community Operations Team, la squadra di moderatori di Facebook, forte di 4.500 operatori, per lo più sotto pagati (leggi Underpaid and overburdened: the life of a Facebook moderator – The Guardian, 25 maggio 2017), deve prendere visione di oltre 100 milioni di contenuti ogni mese; ciò significa che ogni moderatore ha mediamente un carico giornaliero di 741 post e, calcolando 8 ore lavorative, ha meno di un minuto per singolo contenuto. In questo minuto scarso deve farsi un’idea e sentenziare sulla conformità ai “Community Standards”, ovvero le regole auto-definite dalla società.

Mark Zuckerberg ha dichiarato che intende rafforzare il Community Operations Team con altre 3.000 risorse; applicando lo stesso calcolo a un numero di contenuti costante (in realtà sono in aumento vista la tendenza alla crescita di nuovi iscritti), il moderatore avrebbe finalmente poco più di minuto per esaminare un singolo contenuto. A leggere certe esternazioni di politici italiani in un minuto io ho problemi a capirli nel loro italiano, che quando va bene è in “politichese”. Di sicuro non ho le caratteristiche adatte per candidarmi a uno dei tremila nuovi posti di lavoro per il Community Operations Team.

La prima reazione quando Giancarlo mi ha comunicato della censura del nostro post non è stata esattamente compita, mi sono lasciato andare a strali dall‘educato “bacchettoni” al – Parental advisory. Explicit Content – “cazzoni“. Interloquire con chi ha deciso di censurare è impossibile perché la piattaforma è “social” fino a un certo punto; diventa “asociale” se vuoi rivolgerti alla società che la amministra. Mi sovviene nuovamente la famosa frase del Marchese del Grillo: “Ah… mi dispiace. Ma io so’ io… e voi non siete un cazzo!“.

Facebook non ha politiche trasparenti, sopratutto nell’applicazione. La prova è nei numerosi e grossolani errori in sono incorsi.

Gli abbagli clamorosi nell’applicazione della censura per i soli contenuti “sessualmente espliciti” si sprecano.

Lo scorso marzo Facebook blocca una pubblicità. Se il moderatore avesse avuto un po‘ più di tempo si sarebbe accorto che la pubblicità era una collezione di opere d’arte e che l’immagine ritenuta offensiva fosse il dipinto “Women Lovers” di Charles Blackman. Giudicate voi l‘”oscenità”:

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Women Lovers

A settembre dell’anno scorso la toppa più clamorosa:

una delle foto più iconiche mai scattate, nota come “Napalm girl”, che valse il premio Pulitzer al fotografo, Nick Ut, cade sotto la sciagurata mannaia della censura Facebook. Kim Phuk, la bimba all’epoca ritratta nella foto, fece sapere che era rattristata da tale notizia. La foto viene ripristinata dopo la prevedibile e legittima gogna mediatica. Una figura barbina per Facebook tanto che Zuckerberg cita tale macroscopico errore nel suo discorso-manifesto “Building Global Community” pubblicato a febbraio, ne trae spunto per dedicare un capitolo intero e circa un migliaio di parole sul tema “Inclusive Community”.

Zuckerberg è ancora lì sul suo dorato piedistallo, il post citato nel momento in cui scrivo “piace” a 100.597 utenti, ha 14.940 condivisioni e conta 7.000 commenti.

Ho i miei dubbi che il moderatore che ha censurato “Napalm girl” lavori ancora per Facebook.

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Napalm girl

Secondo Zuckerberg, Facebook sarà un social network con sempre maggiore enfasi sui rapporti umani, promuovendone le interconnessioni. Tale dichiarazione è stridente, se non contraddittoria, con quanto invece succede ogni giorno sulla piattaforma: linguaggio violento, discriminatorio, cyber-bullismo, un campionario male assortito di crudeltà, frustrazione e miseria (dis)umana.

Al di là del linguaggio violento (il pistolotto sull’ “Online Disinhibition Effect” ve lo tiro un’altra volta), la vera questione è se gli utenti siano in sintonia con l’”ambiente” in cui interagiscono, se si sentano a proprio agio nel perimetro fissato dalle regole auto-definite dalla società, dichiarate in modo generico e applicate, come da esempi riportati decisamente più famosi del nostro, con una buona dose di arbitrarietà.

I sacrosanti e tanto cari principi di libertà di pensiero ed espressione su cui Internet è fondata vengono lanciati fuori dalla finestra quando non coincidono con gli interessi del “business”.

La censura è già un’espressione di controllo su una società che è reputata non in grado di auto-selezionare i contenuti adatti e pertanto ha bisogno di un organo di controllo super partes. E sappiamo quanto “super partes” sia vuoto di significato quando vi sono altissimi interessi economici e politici in gioco. Ogni riferimento all'”idolatria del denaro”(cit. Papa Francesco) del capitalismo selvaggio nonché alla censura fascista, nazista, comunista e di qualsiasi regime totalitario odierno è puramente voluto.

Nella fattispecie, i rischi di una censura applicata da un controllo privato ad opera di una società multinazionale sono già sotto gli occhi del cittadino, anche non utente social network: si pensi a quanto è stato riportato sull’influenza delle “fake news” durante la recente campagna elettorale statunitense e delle cosiddette “filter bubble”, cioè il tracciamento del comportamento online dell’utente con lo scopo di offrire contenuti coerenti con le sue preferenze.

Nessuno conosce gli algoritmi e le esatte politiche di Facebook (ma neanche di Google): non temo il rischio d’imbattermi in un contenuto non adatto se non addirittura “osceno”, perché così – fattane esperienza – la prossima volta saprò evitarlo. Ciò che temo è che non saprò mai ciò che è stato cancellato arbitrariamente da Facebook o da Google e considerato “non adatto” per me.

Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.

Se i moderatori di Facebook continuano in questa applicazione arbitraria di regole auto-definite dalla multinazionale di cui sono dipendenti, il rischio è che diventino dei moderni inquisitori.

È inutile negarlo: “Facebook is the king of the social media” (cit. Forbes, 23 marzo 2017). Facebook deve perciò ammettere che gioca un ruolo importantissimo per come decine di milioni di persone vedono il mondo intorno, per come comunicano. Pertanto, è responsabilità di Facebook attuare politiche sempre più trasparenti, con l’obiettivo di specificare il “perché” e il “come” prendono le decisioni se un contenuto è da cancellare e non deve essere visto da altre persone.

L’attuazione di linee guida dettagliate e trasparenti è anche un modo per l’utente per capire il proprio “perimetro” e dove ha sbagliato se il suo contenuto è stato eliminato. Nel nostro piccolo caso, l’evidenza è che la commedia sexy all’italiana e ciò che abbiamo scritto non è un contenuto né “sessualmente offensivo” né tantomeno “osceno”. Perché allora è stato eliminato?

È anche vero che se l’utente conoscesse nel dettaglio le “regole del gioco” potrebbe decidere di non essere più parte di quella “comunità” perché non le condivide e non si sente a proprio agio. Ciò chiaramente stride contro la carta-obiettivo che Zuckerberg ha estratto dal mazzo: “Conquista le due Americhe, Africa, Asia, Europa e un quinto continente a tua scelta”

Firmato:

Tre persone, tre personcine, noi siamo tre personcine per bene che non farebbero male nemmeno a una mosca…

Caro Facebook …

Di Cuoreruotante

Sono Cuoreruotante. L’articolo che avete ingiustamente censurato porta anche la mia firma. Mi metto per un attimo nei panni di una persona ignorante, leggasi “colei che ignora”, e, cerco, sforzandomi, anche da ignorante, di estrapolare qualcosa di pornografico nell’articolo che abbiamo scritto. Non ci riesco. Abbasso l’asticella delle mie pretese, ancora nulla di vagamente pornografico. Mi ricordo di essere ignorante, allora vado a cercare il significato della parola “pornografia”. Da Wikipedia: La pornografia (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento” e quindi letteralmente “scrivere riguardo” o “disegnare” prostitute) è la raffigurazione esplicita di soggetti erotici e sessuali in genere ritenuti osceni ed effettuata in diverse forme: letteraria, pittorica, cinematografica e fotografica. Bene, ho capito e rileggo. Niente, non abbiamo scritto di prostitute o prostituzione, di atti osceni o indecenti.
Abbiamo dato risalto, con parole semplici e forbite, ad un genere di film prettamente comico, ma ad alto contenuto culturale. Non ci sono termini volgari, immorali o, vagamente, riconducibili ad essi.
Esistono gruppi su Facebook che inneggiano realmente alla prostituzione, che offendono (eufemismo) donne, bambini e chi non la pensa come loro. Trovo ingiustificato il vostro comportamento con la censura dell’articolo e il blocco dell’account di Giancarlo Buonofiglio. Vi invito a spiegarmelo, vi ricordo che io sono ignorante. Grazie

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PSICHIATRIA E FELLATIO

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Se rinasco voglio essere lui. Voglio indossare il dolcevita sotto la giacca, fare le pose come un divo degli anni ’50, andare da Costanzo a profondere sapienza. Solo a Raffaele Morelli è permesso di dichiarare che in ogni donna ci sia una prostituta senza subire il linciaggio dell’ideologia femminista (nevroticamente per il Jungdenoartri) intollerante a certe anapodittiche verità. La tesi dello pissichiatra non è nuova, Mussolini ne aveva una simile: in tutte le donne (tutte: anche mamma e sorella, i tambù sono cose da popolino zotico e ignorante) c’è una prostituta e l’uomo di potere è un dominatore fisiologicamente predisposto all’esercizio della potestà. Quest’uomo è credibile, sta in televisione, scrive cose nobili e profondissime (“Sono frequenti i casi in cui l’impotenza si risolve nell’attimo magico dell’incontro con una nuova partner; infatti è spesso un episodio trasgressivo, è il magnetismo a cui non ci si può sottrarre, che trascinano un uomo e una donna in un letto senza sapere perché e senza preoccuparsi del dopo”, minchia, roba da Uccelli di Rovo). Anche chiudendo un occhio (anzi due) e assumendo una bella dose di Malox su una storia millenaria del diritto che ha dato ai ruoli sociali prima che sessuali una connotazione più equilibrata, la parola prostituire è radicale e inadeguata se contestualizzata ad minchiam in uno scenario nel quale il numero dei dominatori (o maiali) cresce a detrimento dei diritti del lavoro e della dignità delle donne. Non c’è un concorso di colpa quando è presente una tale disparità di forza, per quanto inconscia o inconsapevole: si chiama abuso, di potere appunto. Almeno nel nostro Ordinamento, ma l’etimo non è cosa da pissichiatri rizosomatici. Nella realizzazione del Sé c’è insomma anche questo per Morelli. Risultato: Marì, si ‘na zoccol. E chi lo dice? Chiddu, u prufissuri. Dice che u pumpino mu po fari; tra trent’anni ti riconcili con il tuo Sé e diventi più forte, una donna realizzata. In sostanza: se suchi ti realizzi, tesi affascinante.

LE TETTE DI FOUCAULT

The Danish Girl è un film del 2015 diretto da Tom Hooper, adattato al romanzo La danese (The Danish Girl) di David Ebershoff e ispirato alle vite dei pittori Lili Elbe e  Einar (Gerda) Wegener. La storia è questa: Einar accetta di posare in abiti femminili per la moglie e capisce d vivere in un corpo che non è il suo; poco alla volta abbandona i caratteri maschili per diventare Lili Elbe, assorbito nella sua identità di donna. 

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The Danish Girl prima che un racconto dell’omosessualità o travestitismo, è una profonda delicata plastica analisi della sessualità ben contestualizzata nella Copenaghen degli anni venti.  La trama è quella, ma va davvero oltre e racconta dell’identità di genere in termini sorprendentemente attuali. Nel film Einar viene ospedalizzato, il corpo sottoposto a terapie brutali, coartato e violato nell’intimità.

La storia si presta a diverse interpretazioni, voglio però soffermarmi su una in particolare, l’identità. Non ci pensiamo, ma è manipolando il corpo che abusiamo della volontà svuotandola di una consistenza giuridica. Siamo corpo e il corpo ha una collocazione politica, anche nel carattere sessuale. La politica evita accuratamente di rivolgersi a noi in quanto carne, perché la carne è rivoluzionaria, libera, è istintivamente rivolta al godimento, non la controlli con le idee, va nutrita ogni giorno, riscaldata in una casa, se la sfianchi di lavoro deperisce, privata dei bisogni primari muore. Può esserci una sola politica ed è quella che si prende cura del corpo, l’anima esula dalle competenze dello Stato. Il corpo desidera, vuole, spera, è attuale e mai declinabile al futuro; l’attualità è possibilità e divenire, non c’è nulla di più eversivo del qui-ora. Poiché lo squilibrio in una struttura sociale comincia riconoscendo l’instabilità, a uomini e donne in transizione da un genere all’altro viene tolto ogni elementare diritto. Lo Stato impone l’identità (anche quella sessuale) e la certifica con una carta con la quale legittima la contraffazione dell’Io; pretende la sua reificazione chiedendo a ognuno di diventare identico a se stesso. Lo squilibrio a quel punto diventa endemico, a cominciare da quello mentale che si riverbera in quello sessuale. 

Nel film Danish Girl le autorità cercano di riportare Einar nella normalità. Normare è controllare, come nominare è identificare; l’identificazione è già uno degli aspetti della normalizzazione, con la quale si chiede a un individuo di diventare identico a se stesso. L’identità è una tautologia che conferma nel singolo il carattere universale dello Stato. Quel che c’è al di là, l’alterità, è qualcosa di patologico e di deviato, di difforme. Il diverso o la deformità come categoria antropologica non è assorbibile dal conformismo sociale così com’è espresso dalla moderna società tecnologica. Collocare la reazione (o alterità) altrove, nei luoghi della perversione vuol dire mantenere inalterato l’ordine, dare una regola e imporre di rispettarla. Sistemarla in una dialettica di opposizione che separa nettamente giusto e sbagliato, normale e anormale, il bene dal male. Un potere di questa natura non può che invadere ogni aspetto della sessualità, del corpo, dei sentimenti e della società nella quale sono collocati. Foucault è stato molto chiaro denunciando il potere e i suoi travestimenti: le relazioni di potere sono immanenti, non una sovrastruttura che esercita da un tribunale il ruolo della censura. I rapporti di forza, multiformi e instabili, si muovono dal basso per poi diffondersi attraversando tutta quanta l’esperienza sociale senza individuarsi in maniera assoluta. Le articolazioni del potere nelle società moderne sono il punto di partenza da cui procedere alla definizione delle modalità con cui tali intrecci producono i discorsi sul sesso. Al centro del discorso-potere si trova il corpo, in qualità di oggetto di sapere che ha assorbito i rapporti e i conflitti di classe. Quello della sessualità si è formato partendo da un meccanismo già in movimento, l’alleanza, all’interno della quale il potere continua a presentarsi nella forma canonica del diritto. Con la nascita delle tecniche di confessione, ossia con lo sviluppo di nuovi discorsi che avevano come oggetto non più i rapporti legittimi o illegittimi discriminati in base al diritto, ma il corpo nella sua espressione erotica, si sono generati nuovi argomenti che dalla famiglia sono poi fluiti nella pedagogia, nella sessuologia, nella psicoanalisi. Mentre in precedenza nel meccanismo dell’alleanza, la famiglia era il luogo dei rapporti coniugali conformi e conformanti, il dispositivo più recente ne ha fatto il luogo in cui dal principio si esprime la sessualità; quello degli affetti e dei sentimenti e per tale ragione secondo Foucault la famiglia nasce come una struttura incestuosa. Per contenere la degenerazione dell’incesto agisce in essa il discorso-potere, che argina la disinvoltura del più recente meccanismo della comunicazione che stimola invece la sessualità all’interno del gruppo familiare. Le nuove tecnologie allentano la morsa morale all’interno del contesto domestico e per scongiurarne l’effetto con un doppio binario comunicativo la ritraducono nella forma del diritto.  Alle strategie di controllo istituzionale corrispondono altrettante figure antropologiche, divenute oggetto del sapere: la donna isterica, il bambino onanista, la coppia maltusiana, l’uomo perverso a cui si affiancano le specifiche tecnologie di intervento e le relative figure professionali (il sessuologo, lo psicanalista, l’assistente sociale, il pedagogo e altre ancora dall’economista al giurista). Il potere-sapere nasce in un preciso periodo storico e con finalità ben demarcate. L’origine si trova nelle classi borghesi emergenti e in quelle aristocratiche del XVIII secolo, dilatandosi all’esterno della famiglia e intervenendo sulle perversioni e le sessualità eterogenee generate in una società che ne stimolava la proliferazione, per poi controllarle con l’apparato delle alleanze. Fino al XIX secolo le fasce popolari non interessavano al dispositivo di sessualità; la famiglia e l’obbligo morale alla fecondità esercitavano dalle mura domestiche il controllo; il corpo proletario solo successivamente è stato identificato con il sesso, come un nuovo regime di segni che ne ha ridisegnato i contorni cancellando quelli prodotti dalla fatica, dalla cattiva alimentazione, dalla povertà. Nella cura che la borghesia ha avuto del proprio corpo Foucault individua gli stessi metodi di cui la nobiltà si era servita per marcare e conservare la differenza di casta. Mentre per affermare la singolarità del proprio corpo le classi nobiliari avevano inventato il concetto del “sangue blu”, la borghesia ha cominciato a guardare alla discendenza e alla salute dell’organismo. Oggi è più che mai evidente che il sesso abbia sostituito il sangue; la prole vigorosa e il benessere del corpo dipendono da una sessualità ordinata, di cui il meccanismo di potere-sapere si prende cura.

Marcuse si è spinto anche oltre. La repressione (perché di questo si tratta) non è un fatto costitutivo della civiltà umana o un fenomeno storico, ma la conseguenza a una specifica organizzazione sociale. Un particolare aspetto della repressione è quello che chiama “addizionale” e si fonda sul principio di prestazione; tale forma repressiva è diversificata sulla base del lavoro che svolgono i singoli individui. Produrre la repressione addizionale è compito della struttura familiare patriarcale e monogamica, dell’industria culturale di massa e soprattutto della divisione gerarchica del lavoro. In quest’ordine di idee la società è determinata a diventare totalitaria, ossia a rendere impossibile ogni opposizione. L’apparato produttivo ha raggiunto un tale livello di sviluppo, da rendere disponibili le risorse necessarie a soddisfare i bisogni umani, ma la società totalitaria crea sempre nuovi bisogni falsi e artificiosi alimentando il desiderio per impedire l’emancipazione degli individui. In L’uomo a una dimensione sottolinea l’attuale impossibilità della liberazione, perché la società industriale avanzata si conforma in maniera sempre più totalitaria, unidimensionale. La stessa tecnologia si configura come uno strumento per istituire nuove forme di controllo e di coesione sociale, il più delle volte piacevoli e quindi maggiormente efficaci. Questo vuol dire che è proprio l’innalzamento del tenore di vita, dovuto ai progressi tecnici raggiunti, a diventare veicolo di repressione: genera infatti il bisogno ossessivo di produrre e consumare e abbassa la soglia di resistenza al sistema. Marcuse parla di desublimazione e tolleranza repressiva; grazie all’estensione in massa di valori culturali, che vengono appiattiti sull’ordine esistente, si verifica anche una concessione di libertà apparenti che non danneggiano gli interessi dominanti ma garantiscono e rafforzano la continuità della repressione. Nelle democrazie moderne la tolleranza coincide con il permissivismo, perché viene concesso sulla base dell’idea che nessuno sia in possesso della verità e che pertanto il soggetto delle scelte deve essere la collettività, che si suppone composta di individui capaci di scegliere liberamente. In realtà la società produce l’effetto contrario, un generale conformismo. Anche il pensiero corrispondente a questa situazione è una unidimensionale, modellato sulla realtà esistente e incapace di opposizione e critica. Più che alla classe lavoratrice, che appare sempre più integrata nel sistema e da cui tende ad assorbire i valori, Marcuse guarda agli studenti e ai gruppi marginali come i neri, i guerriglieri del terzo mondo, gli emarginati e il sottoproletariato delle periferie, le prostitute, i disadattati come a potenziali soggetti rivoluzionari. La diagnosi della società tecnologica che Marcuse ha delineato è più pessimistica di quella di Foucault ma inappuntabile. Tutti i luoghi alternativi, tutte le forme di opposizione, tutte le dimensioni diverse da quella della tecnologia sono stati conquistati dalla finta democrazia della società industriale: l’uomo, la società e la cultura sono ridotti all’unica dimensione che condiziona nel profondo bisogni e desideri. Nessuno è svincolato da questa non-libertà, tutte le classi, compresa quella operaia, sono ormai assorbite dal sistema; solo fuori del sistema si può ancora trovare qualche potenziale rivoluzionario (“Al di sotto della base popolare conservatrice”), tra gli emarginati, i reietti, gli stranieri, gli sfruttati, i disoccupati. Tra coloro che non sono integrabili in un’identità storica e politica; come Lili Elbe, le transessuali nella più radicale tra le alterità, quella sessuale. 

Da Gli italiani

STORIE DI ORDINARIA FOLLIA

Quante piccole improbabili identità. L’identità presuppone un Io sempre uguale a se stesso. Ma io non sono sempre uguale, io divengo” (da Memorie di uno smemorato). Credo sia questo il problema, scrivendo una storia reiteriamo un’identità e vuol dire che ripetiamo noi stessi all’inverosimile. Non credo riguardi solo gli scrittori, ognuno più o meno consapevolmente cerca di dare un ordine alle cose, ma è appunto un ordine e vincola il comportamento. Come i bambini che imparano a leggere seguendo col dito le parole. Queste piccole storie paradossali vanno nella direzione opposta, fanno perdere la traccia all’Io tautologico e lo rendono irrintracciabile. Ci hanno insegnato che cercarsi è un bene, ed è vero. Però  perdersi a volte è meglio.

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L’AMORE SEDIZIOSO

Scendiamo a fare la rivoluzione. Non so, non posso far tardi. E’ una cosa lunga? Domani mi alzo presto, lavoro. Prendi le ferie. Sì e che dico, mi assento un paio di giorni perché vado a fare la rivoluzione? Facciamo così, tu vai poi ti raggiungo un’oretta, dico ai miei che ho l’aperivoluzione. Dopocena è pesante però. Perché? Non so, certe cose si fanno a stomaco vuoto. Tu non hai mangiato? No e ho perso anche il lavoro. Ma i tuoi che dicono? Coglione, scendi a fare la rivoluzione.

L’ALBERO DELLE IDEE

Sto piantando un’idea. Che fai? Scavo nella terra, ci metto un’idea dentro, la copro con foglie, terra e rami secchi. E poi? Aspetto che cresca l’albero delle idee. Quanto ci vuole? Dipende dall’idea, se è buona germoglia in fretta. Posso aspettare con te, voglio vedere se funziona. Certo. A proposito, ho avuto un’idea… Te l’avevo detto che funzionava.

RACCONTAMI UNA BUGIA

Invento bugie. Perché? Sono un uomo libero. E gli uomini liberi dicono le bugie? La verità vincola il comportamento; le bugie sono parole. Sì, ma la realtà è un’altra cosa. Davvero mi stai parlando della realtà? Certo. E come lo fai? Con le parole. E cosa sono le parole? Bugie. Appunto.

RELAZIONI

Non predico mai. In che senso? Le cose, mi interessano solo quelle. Ma le cose fanno pur sempre qualcosa. Non mi occupo di relazioni, quel che fanno tra il prima e il poi è affare loro. E poi non ho l’indole dell’indovino, non predìco e questo fa la logica. Che fa la logica? Copula. Allora è una peripatetica. Esatto.

AMARE

Io ti amare. Ma sei sgrammaticato. La sintassi del cuore, caro mio, si declina solo all’infinito. Però parli come un migrante. E chi non lo è. Cosa? Un naufrago a mare.

PER UN PELO

Buon giorno, sono il pelo nell’uovo. Chi? Sono quello che c’è in ogni cosa. Io conosco il pelo sullo stomaco, il pelo sulla lingua, quello che vince ma per un pelo. Tu che specie di pelo sei? Una specie rara, rendo le cose imperfette. E cosa le rende imperfette? Il pelo. Se non ci fossi io le cose non esisterebbero. Ma va là. Tu conosci cose perfette? Ora che ci penso no, come mai? Perché c’è sempre qualcosa nell’uovo. E cosa? Il pelo. Sì, ma concretamente che fai? Lo vedi che cerchi il pelo nell’uovo?

LA MAMMA DEI CRETINI

Toc toc. Chi è? Sono la mamma dei cretini. E li viene a cercare qua? I nostri figli vanno a scuola assieme, pensavo che forse erano passati. Lei quanti figli ha? Quattro. E dove sono? Sa che non lo so? Mi hanno detto: mamma, andiamo a giocare e non sono ancora rientrati. E lei gliel’ha permesso? Come vede sono incinta. Aspetti, telefono a Carla, magari sono là. Drinnn. Pronto Carla? Sto cercando quei cretini dei miei figli. E li vieni a cercare qua? I nostri figli vanno a scuola assieme, pensavo che forse…

LA GALLINA CHE NESSUNO VOLEVA MANGIARE

Salve, sono la gallina che nessuno vuole domani. Lei mi mangerebbe? Guardi ho la frittata sul fuoco, ripassi domani. All’indomani. Buon giorno, sono la gallina di ieri che nessuno vuole domani. Mi mangia per favore? E perché non l’ho mangiata ieri? Non so, aveva la frittata sul fuoco, quella fatta con l’uovo di oggi che è meglio della gallina di domani. Caro, chi è? La gallina di domani, dice che devo mangiarla oggi. Ma poi le uova vanno a male, la mangiamo domani. Ma l’uovo di ieri è la gallina di oggi, perché mi mangiate domani? Domani sarò vecchia e non potrò fare le uova. Non si preoccupi, gallina vecchia fa buon brodo. A proposito caro dille se mi fa un uovo, che lo metto nel brodo di domani. E se si schiude? Aspettiamo che diventi una gallina e la mangiamo domani. Ho capito, ripasso. Ma non le ho detto quando. Vediamo se indovino, domani? Come ha fatto? Lasci stare, la mamma dei cretini è sempre incinta. E che fa? Cucina le uova.

L FENOMENOLOGO DELLA PORTA ACCANTO

Ciao, sono il tuo nuovo vicino e vedo le cose al rovescio. Scusa? Mi chiamo Rosario, ho fin troppi anni, non ho una donna dai tempi del liceo, sono complicato dicono, bevo per dimenticare ma tanto ricordo benissimo, ho una laurea in antropofilopsicoonomatosofia e non so com’è ma vedo le cose al rovescio. Senti, ho appena visto il film di Moretti, faccio cose, incontro gente… cerca di essere chiaro. Hai presente il paginone delle riviste per uomini? Sì. Io sono quello che lo ruota, lo guarda, lo rigira e alla fine lo rovescia. Ho cominciato così e poi è diventata un’abitudine. E cosa vedi? Le cose al rovescio. Ma perché? I luoghi comuni mi stanno stetti. Sì, ma che fai di concreto? Mi complico la vita. Mi sembra pochino. Complico anche quella degli altri.

AH, L’AMOUR

Dicono: baciami stupido, ma poi si lamentano se non trovano un uomo intelligente; l’amore è una magia e si meravigliano quando lui o lei scompaiono; morirei per te e non muoiono mai. I più arditi arrivano a promesse solenni: ti amerò per tutta la vita (credibile solo se hai 90 anni), mi fai impazzire (e qualche volta succede, quando prendiamo coscienza che è meglio un tso di certe relazioni), ho avuto un colpo di fulmine (belle parole, ma prova a mettere le dita nella presa della corrente e ne riparliamo), l’amore è essere cretini insieme. Ed è vero, solo che eravamo cretini pure prima. Ti sarò fedele con un po’ di pudore non lo diciamo più, ma sottoscriviamo un contratto che impegna finché morte non ci separi. Dopo no, la vita basta e avanza. Il problema è che l’amore è un’esasperazione e con le parole è facile drammatizzare al punto da farne una storia (ho una storia, quante volte lo abbiamo detto?) Perché così si comporta, l’amore fa scrivere storie anche a chi non le sa raccontare. E se in quel delirio vince chi fugge, a quel punto non importa davvero quando nessuno ci corre dietro.

L’ETICA DI LUCIGNOLO

Sai come nascono le bugie? La parola si accosta alla cosa e la lambisce finché riesce a dominarla. Gli adulti non amano la verità ma sono affascinati da chi gliela racconta. E’ un falso problema quello delle bugie; continua pure a raccontarle Pinocchio, ma fai in modo che diventino una verità. Essere burattini vuol dire amare le cose tanto da restituirle alla verità.

IL PAESE DEI TRONISTI

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La modernità tecnologica ha reso possibile qualcosa che le vecchie generazioni non conoscevano, la popolarità. Se un uomo ordinario acquisiva notorietà normalmente era per un fatto grave di cronaca; la celebrità rimaneva una prerogativa aristocratica e al di là di una discendenza fortunata coincideva con qualche virtù. Essere riconosciuti voleva dire emergere per qualità, impegno, sagacia, attitudine; comportava una dote che altri non avevano. La comunicazione di massa ha appiattito le differenze, omologato i linguaggi, livellato al basso le abilità. Anche l’istruzione di Stato ha contribuito alla spersonalizzazione sulla base di un astratto principio di uguaglianza che ha finito per mortificare la qualità. La popolarità ha dato l’opportunità all’ultimo disperato di affiorare all’interno di una massa di individui senza nome. I linguaggi della comunicazione, conformati quel tanto che basta a raggiungere il maggior numero di persone, tendono a una lingua media e mediocre che deve indurre a consumare prima che a conoscere o raccontare. In economia si dice che la richiesta muove l’offerta e un popolo educato dalla televisione di Stato, dall’istruzione di Stato, dalla lingua dello Stato (di questo Stato) non è in grado di discriminare tra un prodotto che ha valore e l’altro. Emergono i mediocri, i miserabili, i nullafacenti e i nullaesistenti; non meraviglia che politici e imprenditori di dubbio gusto abbiano l’approvazione e un seguito popolare. Personalmente non li distinguo dai tronisti della De Filippi, ma è un problema mio. Se la richiesta è quella, l’offerta non può che compiacerla. La mediocrità dell’informazione e delle derrate culturali, l’inefficienza di chi ha un incarico pubblico dipendono dalla contrazione del livello di coscienza, di erudizione, di lungimiranza di un popolo che ha perso le radici della civiltà inseguendo il sogno della celebrità. Un sogno appunto in cui anche il più inetto tra gli individui possa identificarsi, annullare le alterità e ottenere il successo fino a credersi stocazzo; costringendo a un’emigrazione che l’Italia non conosceva, quella che porta all’espatrio uomini e donne che parlano di cultura, di scienza, di diritto in paesi nei quali essere famosi è magari bello, ma conoscere, elaborare idee, innovazioni, scoperte è comunque meglio. Ci siamo adagiati nella banalità della lingua e siamo contenti così, con quattro soldi tra mani e il desiderio di spenderli nei luoghi del piacere, che sono poi il cimitero della nostra coscienza.

FELICISSIMA SERA, A TUTTE ‘STI SIGNURE ‘NCRAVATTATE

Il segno che eccede a se stesso porta sempre in un altrove, apre un passaggio, lascia tracce che riconducono all’origine, alla terra. Al di là di ogni regola formale, non solo il desiderio invade la scena come qualcosa di determinante, ma pare dominarla.

merola

Secondo Freud è la ripetizione e non solo il gesto mancato, l’atto privo di significato, il lapsus a intervenire disturbando la scena: “Vi è poi un’altra serie di esperienze che ci permettono anch’esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di caso.” Il lapsus è un segno non capito che porta al di là e racconta dell’Altro; scompagina e riordina i termini della relazione, crea una tensione nel principio di identità. E’ un gesto involontario che media tra termini altrimenti inconciliabili. La ripetizione ripropone la continua replicazione del qui e ora, l’univocità e l’immodificabilità dell’essere, che circoscrive evitando la frammentazione, riordina quello che accade, compone un’identità. In essa s’inserisce un altro termine, il perturbante, il vuoto, l’ombra. E infatti all’interno dell’ordine e delle regole, sopraggiunge inaspettato lo straniero. Non bussa, non chiede permesso, irrompe dicendo: “Aggio araputa ‘a porta e so’ trasuto cca”. Come appunta J. Baudrillard: “Nell’indeterminazione il soggetto non è né l’uno né l’altro, resta semplicemente lo stesso.” Ecco che compare la ripetizione, il sempre uguale a se stesso, che è uno dei nomi del principio di identità che nega l’alterità. Non c’è bisogno di spostare il discorso sul piano patologico dell’ossessivo, la ripetizione è la regola stessa del vivere (“Seguire una regola è analogo a ubbidire a un comando”, Wittgenstein). Ma non c’è regola senza disordine e non c’è ordine senza caos. Il desiderio spaventa perché è l’informe che non ha nome. Si presenta sempre e comunque nella vita e ancora di più nello scenario amoroso: “Stasera miezo a st’uommene aligante abballa un contadino zappatore”. Il contadino zappatore fa irruzione tra i signori, col suo linguaggio povero, malvestito, è l’uomo della terra. Lo straniero appunto, l’Altro che viene da un altro mondo. E’ il desiderio perturbante che arriva dallo spaesamento, dalla mancanza di un territorio senza confini certi. Crea disagio perché nell’informe il territorio non può delimitare in modo stabile il proprio perimetro culturale, linguistico, sociale. Parla e di cose comuni ma stravolge il discorso. Se Deleuze si richiama a Klossowski e a Blanchot lo fa per chiarire il passaggio dell’inconfessabilità come l’eccedenza possibile in un’epoca nella quale il segno diventa un simbolo mercificato. Il segno che eccede a se stesso porta sempre in un altrove, apre un passaggio, lascia tracce che riconducono all’origine, alla terra. Al di là di ogni regola formale, non solo il desiderio invade la scena come qualcosa di determinante, ma pare dominarla. Tanto da arrivare a dire: “I’ songo ‘o pate e nun mme po’ caccia’ … si zappo ‘a terra e chesto te fa onore; addenocchiate e vaseme ‘sti mmane”. Giusto per riportare all’ordine il discorso e far capire chi comanda.

(dai Frammenti di un monologo amoroso)

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Non chiamatelo capitalismo, è odio di classe

Questo neoliberismo è una schifezza. Si tratta di un capitalismo becero, che sfrutta e mortifica; si prende non più il futuro ma il presente, la dignità di uomini e donne. E’ odio di classe. L’attuale classe dirigente si è collocata nella dialettica padrone-servo e agisce con una ferocia che non si vedeva da tempo; è il proletariato che fatica a capire. Quella che stiamo vivendo è un’epoca selvaggia; ha incarognito i cittadini mettendoli l’uno contro l’altro. C’è un solo debito pubblico e ha il nome di questa gente e finché continuerà a avvelenare i palazzi del potere pagheremo loro interessi sempre più alti. Ma siamo distratti da altro, chi ha la responsabilità dell’informazione tace, gli intellettuali salgono sul palco dei partiti, la figa e il calcio sono comunque assicurati e allora va bene.

cap

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