SIAMO SEMPRE “IO” AL CITOFONO DI QUALCUNO

Ci sono quelli che al citofono dicono “sono Io”, rimanendo delusi quando si sentono rispondere: “Io chi?”. E in effetti il mancato riconoscimento di quel che siamo, della nostra identità suscita uno stato d’ansia e mette di malumore. Mio padre no, lui articolava. Ciao sono io. Io chi? Tuo figlio. E lui: “Quale?”. Il “quale” introduceva un decentramento tra me e lui e metteva il mio Io in un angolo. Andava anche e oltre a dire il vero. Perché (e non ho mai capito se era serio o mi prendeva in giro) quando rispondevo “Gianni!” lui incalzava: “Gianni chi?”. Tuo figlio. E così ad infinitum.

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A parte il desiderio di conferma dell’identità, per quanto precaria e fragile, nel riconoscimento (che è un conoscere di nuovo) si muove un gioco di specchi tautologico: l’io ripete se stesso e il processo si può dilatare all’infinito. Per essere riconosciuti abitiamo e abituiamo l’altro, in qualche modo lo addomestichiamo.

PER FAVORE ADDOMESTICAMI

Siamo abitati dalla lingua; la lingua si muove su due piani, quello primario si riconosce dall’uso costante di alcune parole che diventano determinanti per dare un ordine al campo più superficiale del linguaggio. Il fondo della lingua è il luogo comune su cui costruiamo una familiarità, l’abitiamo e l’abitudine diventa una regola e poi una legge, secondo un comune modo di vedere e sentire. In sostanza quando parliamo trattiamo alcune parole come cose e su quelle costruiamo le nostre certezze. E’ una manipolazione di cui si serve ampiamente la politica. La riproposizione continua crea un contenuto, rende la parola reale, la svuota dei significati caricandola di senso. Anima, Dio, famiglia, Stato sono alcune di queste parole che accentrano l’attenzione e coinvolgono le emozioni, rimandano a una condivisione profonda di contenuti. E’ per questo che parliamo di famiglia, di anima o di Stato come enti reali; trasformando le parole in cose le rendiamo solide e vere.

Nel Piccolo Principe si legge: Per favore… addomesticami… Volentieri, disse il Piccolo Principe… Che cosa bisogna fare? Bisogna essere molto pazienti, rispose la Volpe. In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guardero’ con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino… Il Piccolo Principe ritornò l’indomani. Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora, disse la Volpe. Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti. Che cos’è un rito? Disse il Piccolo Principe. Anche questa è una cosa da tempo dimenticata, disse la Volpe. E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni. Funziona così.

Le parole selezionate si ripetono e vanno ad assorbire tutta quanta la lingua, danno luogo a una ritualità. La continuità è un processo di addomesticamento profondo e radicale. Nelle televisioni e giornali è evidente la ricorrenza di alcuni termini. Extracomunitario, omosessualità, Isis, spread, famiglia, vengono proposti come universali e s’impongono nella lingua fino a modificare l’ordine mentale. E così percepiamo di essere invasi dall’uomo nero, ci nascondiamo nella famiglia quando sentiamo parlare di omosessualità, investiamo in una banca perché l’inflazione è alle porte. Diventiamo governativi e governabili davanti alla parola terrorismo. Un uomo libero padroneggia la lingua, ma il più delle volte vogliamo essere addomesticati. Qualche anno fa è stato votato il referendum sulla fecondazione assistita; pulman di cittadini con un’improbabile semantica sono corsi ad abrograre una cosa definita inseminazione eterologa. Quando viene chiamato all’ordine il popolo vota. Una folla di elettori con tanti io e nessun noi, che legifera e parla di cose che non conosce con una lingua che non padroneggia. Un popolo così che se ne fa della libertà? Vuole essere addomesticato.

Buon anno insomma; da me, dal mio io. Io chi?…

L’AMORE NEL MULINO BIANCO

La pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva; attira, corteggia, stimola l’azione e il comportamento. Il messaggio pubblicitario, breve ma ripetitivo, riproposto all’inverosimile lusinga, lambisce il desiderio, non aiuta però a conoscere. Ha una lingua elementare e emotiva, perché se il prodotto è di largo consumo deve arrivare a chiunque. Una valvola mitralica non necessita di essere pubblicizzata. Il tecnico la compra sulla base di informazioni che dettagliano l’oggetto per quello che è. Non sempre il prodotto è buono, è vero, ma a quel punto ci sono le leggi e una valvola difettosa manda il paziente al Creatore, ma il chirurgo diritto in tribunale. Tra ciò che si dice dell’oggetto e l’oggetto deve esserci una corrispondenza o quantomeno l’articolo è tenuto a rispettare i requisiti minimi di sicurezza e funzionalità. Questo per dire che ci sono prodotti che non richiedono la pubblicità perché la qualità e una buona gestione del mercato li fa vendere e altri invece, la maggioranza delle cose, in cui la qualità risulta marginale per la vendita. Ma è cosa nota, un pessimo prodotto si vende comunque, basta saperlo raccontare. Ci sono cose inutili, di cui non abbiamo bisogno, spesso dannose che vendono moltissimo. Altre più modeste nella comunicazione ma con caratteristiche superiori rimangono sullo scaffale del supermercato. La discriminante che stabilisce il successo di un prodotto è proprio la pubblicità, una buona campagna di marketing non racconta l’oggetto, lo rende desiderabile finché crea il bisogno e spesso anche una reale dipendenza. Quante volte avete sentito dire: mio figlio mangia solo i biscotti del Mulino Bianco? Ecco, non è vero; o meglio la mamma fa in modo che lo diventi. Lasciato il bambino in una foresta solo con i biscotti all’olio di palma, li mangia eccome e magari anche la confezione e la commessa che glieli ha venduti. La cui commestibilità peraltro (parlo della commessa) non è mai stata veramente provata.

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Analizziamo come esempio lo spot di Gavino Sanna: il Mulino Bianco ha acquisito credibilità, racconta una storia (il mulino, il prato, le spighe di grano) e la famiglia pur vivendo isolata, in un’abitazione medievale, in mezzo al nulla è felice perché ha tutto ciò di cui ha bisogno, i biscotti che benché riportino l’avvertenza sulla confezione “non contiene olio di palma”, sono stati  (il più delle volte) maneggiati con lardi idrogenati, edulcoranti e altro ancora; che abbiano inquinato la Salerno-Reggio nel trasporto dal mulino a casa vostra, che il grano provenga da Chernobyl passa come un peccato veniale. Le mamme sanno che l’olio di palma fa male e i pubblicitari lo ricordano loro ogni volta che possono. Non ho mai veramente capito perché non ci sia allora la scritta “non contiene uranio o acido arsenioso”. Vabbè. La pubblicità ha istruito le persone prima ancora delle università e conosciamo i danni che provoca l’olio esorcizzato con una competenza pari se non superiore a quella di un medico internista. Ma il Mulino Bianco è un marchio e un marchio dà fiducia e poi l’ha detto la televisione. Abbiamo votato un pubblicitario per vent’anni, non stiamo parlando del nulla. La pubblicità non veicola solo il consumo, in realtà fa qualcosa di più radicale, racconta l’attualità, non guarda al futuro ma al presente. Le interessano i soldi, quelli che abbiamo ora non quelli improbabili di domani. E’ così racconta storie reali più del reale stesso. Guardando Ernesto Calindri che beve il Cynar al tavolo in una strada trafficata, si capisce subito che siamo negli anni ’50 o ’60, oggi se va bene gli automobilisti ti stirano, dopo ovviamente averti fregato il digestivo. Oppure il povero Franco Cerri che ha vissuto un decennio nella lavatrice per convincerci che stare a mollo nel Bio Presto è meglio che tuffarsi nel mare dei Caraibi; oggi sarebbe un comportamento antisindacale. O ancora il gentiluomo che con una flessione sicula dice alla moglie: “Io ce l’ho profumato”, insorgerebbero le donne del mondo civile. Che dicesi civile proprio perché se anche ce l’hai profumato, non puoi comunque dirlo a nessuno e meno che mai a un esponente del sesso femminile. Per non dire di quella signora che confessava alla nipotina che Gennarino (pur gran lavoratore) non aveva il pesce come Santuzzo suo. Qua si configura proprio il reato di molestia a un minore, e non mi pare poco. Una pubblicità del genere sarebbe oggi improponibile. E’ però inutile dilungarsi, ma tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla famiglia Boccasana. chiudo questo scritto con alcune immagini promozionali, normali una volta e assolutamente inconcepibili nel nostro tempo. Per inciso, mi piacciono più di quelle attuali; hanno dell’ironia e un nobile artigianato della parola che Oliviero Toscani se lo sogna. La pasta Barilla “ditalini” non scioccava nessuno, veniva richiesta con tanta naturalezza quanto ingenuità. Come quel condomino in uno spot degli anni ’90 che sentita la vicina ricciolina e desiderata gridare  con rabbia: “Esco e vado col primo che incontro”, si fermava davanti alla porta dicendole con un sorriso alla Pozzetto/Johnny Depp: “Buonaseraaaa”. Qualunque mora dai capelli increspati e con un Diavolo per boccolo oggi gli risponderebbe: e tu, che cazzo vuoi?

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Il mio preferito rimane comunque lui

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il video alla pagina

Un mio maldestro tentativo di spot pubblicitario (booktrailer)

Renato Pozzetto, i libri, l’omosessualità

L’ARCHETIPO E LA FAVOLA

LE FAVOLE DELLA PSICOANALISI

Accanto all'inconscio personale, inteso come rimosso e sede dei complessi, Jung individuava un inconscio collettivo composto da archetipi, che sono i modi con i quali funziona la psiche in profondità. Se tali funzioni (funzioni più che immagini perché precedono la loro formazione) invadono la coscienza senza un filtro possono risultare numinosi, ossia far vivere esperienze intense e significati; altrimenti danno luogo a fenomeni dissociativi e distruttivi. E' nella fiaba come nel sogno che gli archetipi irrompono e danno forma alle rappresentazioni. La fiaba (più che la favola) racconta il percorso attraverso il quale la mente giunge alla sua maturazione, liberandosi dai complessi che la mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide), attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico nelle storie o un feticcio animato nella vita del bambino) che invece di annientarla finisce per fortificarla. La sequenza è piuttosto lineare e ordinata. Nella fiaba gli eventi si dividono in quattro momenti. Il primo racconta il luogo, il tempo, i personaggi principali, l'inizio dell'azione. Il secondo la vicenda nella sua dinamica avventurosa. Il terzo la crisi, in cui il protagonista si trova di fronte a situazioni in grado di annullarlo. In ultimo la ''lisi", in cui il protagonista trionfa. Per Bettelheim il bambino non è un soggetto passivo rispetto alla storia ma partecipa attivamente con le sue emozioni e la fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in profondità. Attraverso l'identificazione con i personaggi riesce a superare le situazioni conflittuali e angoscianti; si libera dai sentimenti aggressivi e dallo stato di impotenza, in qualche modo nasce alla vita adulta. La componente trasgressiva è un elemento fondamentale nella favola come nella fiaba, ed è una tappa naturale nella crescita di un individuo. Si tratta di deviare da un sentiero segnato da istanze superegoiche non ancora assorbite dalle figure di riferimento adulte. Nell'infanzia il Super Io è debole e viene aggredito dall'Es; Pinocchio si sottrae agli ammonimenti della fata e di Geppetto, Cappuccetto Rosso a quelle della Madre. Padre e Madre non sono sufficientemente inglobati e quindi ancora inconsistenti nella mente del bambino. La trasgressione è una specie di immersione nell'inconscio personale e una protesta al mondo adulto che non riesce a integrare, nella quale percepisce i conflitti interni personificati in immagini che provocano paura e panico. Ma è anche un tentativo di liberarsi dalle catene della lingua e dalle regole come sono espresse dalla letteratura quando invadono la vita intima. Si tratta di un'esperienza intensa e paurosa e il bambino avverte i pericoli; la paura è un modo per comprendere, quel che non ha forma assume un contorno e la paura viene almeno in parte detonata. L'immersione conduce poi a un ritorno all'inconscio extrapersonale collettivo. Nel sogno come nella fiaba il bambino sperimenta la forza distruttiva o creativa degli archetipi. In Pinocchio c'è l'incontro con Mangiafuoco, poi il viaggio nel Paese dei Balocchi, viene quindi inghiottito e incorporato, si immerge nella pancia della balena. Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo, Cenerentola deve ritornare dalla matrigna. Se il bambino fa un bagno nell'inconscio personale, il contesto immaginario risulta ansioso; mentre l'immersione nell'inconscio collettivo porta in situazioni estreme, angosciose e depressive. Il limite è quello. L'ansia vissuta dal protagonista e in cui si identifica il bambino è uno stato d'animo suscitato da eventi che non riesce a integrare, prima che da draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per l'Io. Si tratta di una paura senza l'oggetto, paura della paura; quel cieco sentire che afferra Pinocchio (che infatti è pieno di presentimenti negativi) prima di partire per il paese dei Balocchi, o quello che prende Biancaneve quando si avventura nel bosco. Nella sua profondità la paura è attesa e l'attesa è uno dei modi in cui si presenta l'angoscia. L'incomprensibilità che sta nel fondo scaturisce da stati d'animo ambivalenti; è un elemento fondamentale, nella narrazione tanto nella psiche, quanto da presentarsi praticamente in tutti i racconti per l'infanzia, ma anche nella mitologia e in buona parte della letteratura. Nell'immersione i protagonisti incontrano figure fantastiche che sono elementi interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze con cui viene in contatto: i complessi dell'inconscio personale e gli archetipi dell'inconscio collettivo. Il Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super Io, ma la voce della coscienza in conflitto con i desideri del butattino; il Gatto e la Volpe (l'ultima in particolare, sotto la quale si nasconde la strega, come avverte Von Franz) immagini archetipiche dell'ipocrisia, dell'astuzia e della cattiveria. In Hansel e Gretel i genitori sono figure divoratrici; le sorellastre di Cenerentola, l'Ombra che viene proiettata dalla sfera inconscia. In Cappuccetto Rosso il lupo è l'archetipo della malvagità e incarna l'immagine distruttiva o autodistruttiva. Il pericolo reale non è l'aggressione del Lupo, ma la personalità del bambino che può soccombere, divorata dall'inafferrabilità di fenomeni contrastanti o fagocitata dalla personalità degli adulti, diventando ritorsione e autodistruzione. La repressione diventa perversione, poi masochismo o sadismo a secondo delle situazioni. Si tratta di una trasformazione radicale del protagonista del racconto, non sempre lineare e ordinata come analogamente accade nel sogno. Il Brutto anatroccolo diventa un cigno, Pinocchio un bambino, Cenerentola e Biancaneve principesse. The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, A. Knopf 1976 (tradotto in italiano con il titolo Il mondo incantato), di Bettelheim è il libro da cui partire per una lettura psicoanalitica delle fiabe. L'autore sottolinea che le versioni originali delle favole, in cui erano ancora presenti gli elementi crudi e violenti, permettevano ai bambini di rappresentare i conflitti con maggior intensità. Le interpretazioni, che risalgono alla prima topica freudiana risultano certamente schematiche, ma di un certo interesse rimangono le considerazioni sulla coppia narratore e ascoltatore. Per Bettelheim: “Il processo inizia con la resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il ragazzo ha realmente trovato se stesso, ha raggiunto l’indipendenza psicologica e la maturità morale e non vede più l’altro sesso come minaccioso o demoniaco, ma è capace di entrar e in relazione con esso”. Emblematica è la storia di Rapunzel dei fratelli Grimm. In Raperonzolo si legge che la maga rinchiude la bambina (Raperonzolo appunto) nella torre quando aveva poco più di dieci anni. Difficile non rinvenire nella vicenda il paradigma di un’adolescente e di una madre gelosa che ostacola la crescita della figlia. Così scrive lo studioso austriaco: “Un bambino di cinque anni ricavò una rassicurazione completamente diversa da questa storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a lui per la maggior parte della giornata, sarebbe dovuta andare in ospedale perché gravemente ammalata … chiese che gli fosse letta la fiaba di Rapunzel. In quel momento critico della sua vita ... [prese conforto dal] fatto che Rapunzel trovò i mezzi per sfuggire alla difficile situazione nel proprio corpo, ovvero con le trecce che il principe usò per arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il proprio corpo possa fornire a una persona il sistema per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel suo corpo la fonte della sua sicurezza”. Semplificando, così come fanno le favole, i problemi fondamentali si presentano in modo chiaro e conciso, comprensibile al linguaggio infantile. Ed è forse questo il loro carattere deleterio; non c'è sforzo o articolazione nella comprensione, creano dicotomie rigide su base emotiva e non secondo ragione. La ragione subentra posteriormente quando è oramai contaminata dalla morale. I caratteri dei personaggi sono nettamente spiegati, il dualismo bene-male pone il problema morale e richiede uno sforzo affinché possa essere superato. Non più secondo ragione però, ma sulla base di una tensione interna; la paura domina nella scena e muove organizzandola la psiche del fanciullo. La regola è salvarsi la vita, la comprensione dei fenomeni non può che essere subordinata e successiva. Per quanto l’eroe risulti come esempio al bambino, permettendogli di identificarsi in un personaggio positivo affrontando e vincendo prove pericolose, la morale compensata con la lotta e la vittoria tende a prevalere sul principio di ragione e ancor di più sul contenuto letterario. Ed è questo il limite della favola, la comprensione morale si sovrappone a ogni altra. La paura assorbe il campo e non lascia spazio ad altre considerazioni oltre quelle brutalmente contingenti. I personaggi delle fiabe non sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso tempo, come invece accade nella realtà. La scelta è obbligata, fa in modo che non si possa articolare il racconto e il lieto fine è pressoché scontato; ragione per cui risultano dannose per la crescita, in quanto limitano fortemente il campo dell'esperienza e delle emozioni. Pur precisando che per Bettelheim “Il succo di queste fiabe non è propriamente morale, ma piuttosto la fiducia di poter riuscire”. Raperonzolo è una fiaba europea, pubblicata dai fratelli Grimm nella raccolta (Kinder und Hausmärchen, 1812-1822). Il nome della protagonista dipende dal fatto che quando la madre era rimasta incinta venne presa dal desiderio di mangiare i raperonzoli che crescevano nell'orto della vicina, la strega Gothel. La vicenda può essere ricondotta alla figura mitologica di Danae. Ne Lo cunto de li cunti (1634), noto come Pentamerone, di Giambattista Basile si trova la fiaba Petrosinella, che narra una storia simile. Basile racconta di una donna gravida che desidera il prezzemolo (da cui deriva il nome di Petrosinella, nel dialetto campano) che si trova nel giardino di un’orchessa. Il mostro la cattura e in cambio della vita ottiene la promessa della bambina una volta nata. Tutto questo avviene ovviamente con un linguaggio elementare ma profondo, non sempre accessibile alla coscienza vigile; si tratta di una simbolizzazione. Per l’analisi delle fiabe da un punto di vista psicoanalitico, a parte il libro di Bruno Bettelheim, risultano esaustive anche alcune pagine di Melanie Klein e di Erich Fromm. Di particolare interesse sono le considerazioni della Klein in merito alla posizione depressiva e schizoparanoide: i personaggi non sono buoni e cattivi nello stesso tempo; è l'ambiguità a provocare uno sforzo di comprensione e uno scollamento della personalità. La polarità del carattere permette al bambino di comprendere la differenza tra un modo e l'altro, ma disturba il suo campo cognitivo. Il bambino si identifica facilmente con i personaggi che suscitano la sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua volta di essere buono. Nell'identificazione la domanda che si pone non è “desidero essere buono?” ma “chi voglio essere?”. Non è la virtù a fare buoni ma l'imitazione di un eroe con i caratteri della bontà; diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che di norma manca al bambino. Proiettando se stesso nel personaggio il meccanismo dell'interiorizzazione completa la formazione della sua personalità. La simbolizzazione è necessaria come mediazione con in linguaggio cosciente e la rappresentazione è una forma di simbolizzazione necessaria alla comunicazione con la parte in Ombra della personalità. Non va interpretato al bambino il significato della storia: “E’ sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio, e questo è particolarmente vero nel caso del bambino”. La mamma non deve mostrare al bambino che conosce i suoi pensieri intimi; la spiegazione distrugge l'incanto, trascina nella realtà e non permette di fantasticare. La fantasia è una forma di libertà, anche dei pensieri. L'antropologo russo Vladimir Propp nel suo saggio Morfologia della fiaba (1966) ritiene che tutte le fiabe presentino elementi comuni, ovvero una stessa struttura che ritrova al suo interno i medesimi personaggi che ricoprono le stesse funzioni in relazione allo sviluppo della storia. In particolare la fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la rottura dell'equilibrio (avventura) seguita dalle peripezie del personaggio principale, per giungere a un ristabilimento dell'equilibrio (conclusione). Questo schema universale fa da cornice al processo di simbolizzazione all'interno della fiaba perché il contesto stesso della fiaba è simbolico: il simbolo viene rinforzato dalla struttura della fabula proprio perché è comune in tutte le fiabe. Attraverso la via dell'immaginario, favole e fiabe accomunano civiltà e culture lontane, dimostrando come in esse sono assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli archetipi di quello collettivo. 

Quando si parla di favole e fiabe è anche inevitabile il confronto col mito, ma i processi identificativi risultano più complicati: se il mito, come la fiaba, può rappresentare un conflitto interiore in forma simbolica e suggerire la soluzione, presenta la storia in una forma colta spesso inaccessibile alla lingua e alla fantasia del bambino. Da un punto di vista propriamente psicoanalitico i miti sono collegati alle richieste del Super Io e raccontano il conflitto con le esigenze dell’Es e quelle di autoconservazione dell’Io. Sono rappresentazioni distanti e ricordano il rigore della censura o dell’imperativo morale. La favola, diversamente dal mito, non pone richieste, non produce un senso di inferiorità, stimola anzi una certa reazione. Attraverso esempi tratti dalla letteratura popolare, Bettelheim dimostra come il messaggio di queste storie domestiche aiuti a superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di grandi. Ed è per questo che risultano convincenti. Il pensiero del bambino è animistico (picchia la sedia su cui ha sbattuto, parla con la bambola); non ci stupiamo che il vento e gli animali parlino, o che un uomo si trasformi in un asino, poiché la separazione tra organico e inorganico non è ancora definita come nel mondo degli adulti. Le fiabe evocano situazioni che permettono al bambino di affrontare ed elaborare le reali difficoltà della propria esistenza; sono utili perché aiutano a tradurre in immagini visive gli stati interiori, danno un volto a quel che non ce l’ha. La fiaba intrattiene però il bambino, lo afferra come i gendarmi delle storie e lo costringe a riconoscersi in un contesto elaborato da un mondo adulto. Favole e fiabe sono scritte dai grandi e l’inconciliabilità con il mondo dei bambini è evidente, non possono che esercitare una qualche violenza. Doverosa certo, ma incontestabile. Il processo evolutivo del bambino inizia con la resistenza ai genitori e con il timore di crescere, e termina quando ha realmente trovato se stesso raggiungendo la stabilità psicologica e la maturità morale. Questi racconti danno voce a problemi umani rilevanti (il bisogno d’amore, il sentirsi inadeguati, l’angoscia dell’abbandono, la paura della morte), scarnificando le situazioni, separando il bene dal male distinguono in modo chiaro quel che nella realtà è confuso e parlano al bambino dei problemi che lui stesso avverte come angoscianti e ne prospettano le soluzioni. Soluzioni adulte naturalmente. Le storie accettano a livello della consapevolezza le pressioni dell’Es, e indicano i modi per soddisfare il piacere in accordo con le esigenze dell’Io e le intransigenze del Super Io. Il bambino ha bisogno “di ricevere suggerimenti in forma simbolica riguardo al modo di affrontare questi problemi”. Diversamente, quando i contenuti nascosti vengono negati, se non hanno accesso alla coscienza, oppure se vengono controllati o oppressi, la personalità subisce un danno. Il piacere ha una sua legittimità riconosciuta anche dagli adulti, incistare la dinamica Io-Es vuol dire produrre una personalità sofferente e problematica; le fiabe offrono una via di fuga all’adulto che le racconta e una certa soddisfazione al bambino che le ascolta. E’ fondamentale che un parte del sottosuolo possa affiorare alla coscienza e venga rielaborata attraverso l’immaginazione, perdendo parte della sua pericolosità. Bettelheim era critico sul fatto che al bambino debbano essere presentati soltanto le realtà positive. Il bambino non è un extraterrestre, deve fare i conti anche con la propria parte oscura, l’Ombra, con l’aggressività, l’odio, l’ansia, la rabbia maturando il coraggio per affrontare le difficoltà. Le difficoltà spesso le creano più o meno consapevolmente gli adulti, e una di queste è la sessualità.

Se è evidente la presenza di contenuti sessuali nella storia, le interpretazioni spesso discordano. Alcuni autori si sono spinti fino a rinvenire nei racconti la prostituzione. La fiaba potrebbe essere intesa come un'esortazione a non esercitare la professione. Il tema della ragazza nel bosco in molte culutre viene associato alla prostituzione; nella Francia del XVII secolo la mantellina rossa era veniva indossata dalle meretrici e le lupae dell'antichità dovevano portare un drappo rosso. Il rosso rappresenterebbe le mestruazioni e l'ingresso nella pubertà (simboleggiata dalla foresta) mentre il lupo, l'uomo era visto come l'aggressore da cui guardarsi. Ma, pur non mancando l'erotismo nelle storie popolari, sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano, frutto come si vede di una certa morbosità e di un gretto intellettualismo da parte degli adulti. 
Un aspetto invece interessante è l'antropofagia. La fiaba ha originenel contesto europeo piegato dalle carestie, durante le quali non erano infrequenti i casi di cannibalismo (emblematiche sono la carestia del X secolo e la grande carestia del 1315-1317). Soprattutto nelle versioni più antiche delle fiabe la figura antropofaga prendeva laforma di un'orchessa, un mostro femminile, piuttosto che da un lupo (di sesso maschile, la cui antropofagia era riconosciuta come un fatto ordinario) e ciò induce a pensare come questi racconti si siano modificati per rispondere alle diverse esigenze educative. 
Per concludere. La fiaba è un racconto mitico costituito da immagini e personaggi archetipici. Jung scrive che le fiabe consentono di studiare l'anatomia della psiche meglio delle discipline scientifiche, in quanto presentano in forma pura i processi dell'inconscio collettivo e riproducono modelli del comportamento archetipico (von Franz, 1996). Occorre mettere da parte la cultura per ascoltare ciò che il simbolo. Marie-Louise von Franz ha dedicato parte del suo lavoro proprio all'interpretazione psicologica della favola. Sottolineava che tutte le fiabe descrivano il Sé, l'archetipo fondamentale della psiche. Nel libro Le fiabe del lieto fine; psicologia delle storie di redenzione (2004) la von Franz analizza il lieto fine a partire dalla trasformazione e la liberazione in quanto possibilità di arrivare al Sé. Le fiabe caratterizzano non solo l'equilibrio di un individuo, ma offrono anche un metodo terapeutico. Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello, per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell'inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz, 2009). Ciò vuol dire che la fiabe presentano gli archetipi nella forma genuina e pura, offrendoci un alfabeto e un metodo per comprendere i processi della psiche collettiva. Mentre nei miti, o in qualunque altro materiale letterario più elaborato, rinveniamo i modelli della psiche umana rivestiti di elementi culturali, nelle fiabe l'invadenza culturale è presente in misura limitata; riflettono più direttamente i modelli profondi della psiche. La ragione di un'interpretazione psicologica delle favole, per la von Franz consiste nell'effetto rigenerante, nella reazione emotiva, in quell'incomprensibile equilibrio che producono: “L'interpretazione psicologica è il nostro modo di raccontare storie; avvertiamo ancora lo stesso bisogno, aspiriamo ancora al rinnovamento che scaturisce dalla comprensione delle immagini archetipiche”. E aggiunge con autocritica: “Sappiamo bene che l'interpretazione è il nostro mito” (von Franz, 1996). Nel suo libro Le fiabe interpretate, l’autrice schematizzava le fasi per una corretta interpretazione, con una tecnica che ricorda quella strutturalista: introduzione (c'era una volta; la formula indica una collocazione fuori dallo spazio e dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e perciò comune, collettivo); personaggi (numerare i personaggi all'inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico); esposizione (l'inizio del problema, la crisi e le difficoltà che caratterizzano la fiaba); avventura e lisi (l'avventura, che può articolarsi in varie peripezie fino a giungere al vertice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, l'esito finale; il racconto termina poi in tragedia o si conclude felicemente”). In ultimo ci sono le formule conclusive, “rite de sortie”, così dette per non rimanereancorati all'universo infantile dell'inconscio collettivo. Una caratteristica della fiaba che non ritroviamo in altri generi come miti e leggende, è che la conclusione può anche essere ambigua, ossia una conclusione positiva sottolineata da un commento negativo del narratore. Fiaba, sogno e gioco sono l'espressione del processo di simbolizzazione e dell’interazione del bambino con l’ambiente  circostante.  Il  problema  rimane  quello di non farsi sequestrare dal racconto (Barthes) e di svincolarsi dalla lingua. La letteratura prende il sopravvento fornendo le regole dei comportamenti adulti. Può anche essere qualcosa di positivo, nel caso l'identificazione avvenga con l'eroe buono, ma il pericolo è di ritrovarsi imprigionati in un ruolo, peraltro legato ai modelli simbolici dell'infanzia. Si è detto della componente sessuale nella favole, il ruolo impedisce la consapevolezza dei comportamenti e limita la circolazione del desiderio. Biancaneve, Cenerentola, Pinocchio desiderano e sono in cerca del piacere. Nella lingua di un bambino, fatta di metafore e metonimie, è più che evidente e il rischio è quello di circoscrivere tale fondamentale processo di crescita e di equilibrio della psiche all'interno di quel contesto semantico che chiamiamo favola. La trasgressione, la disubbidienza sono un modo per svincolare il desiderio dai binari del linguaggio e dalla narrazione. Si converrà che per il bambino che ascolta il racconto rimangono la parte più eccitante, quella che viene percepita con maggiore intensità e partecipazione. Non c'è analogia tra fiaba, favola e sogno, sul piano linguistico e simbolico rappresentano esperienze comuni. Peirce distingueva tra tre generi di segno: quello "iconico" (che rimanda al suo referente; ad esempio il disegno di un cane), quello "indessicale" (che ha una relazione di causa col referente; le nuvole come segno della pioggia), e quello "simbolico" (che non ha nessuna relazione col referente). Favole, sogno e gioco dimostrano l'arbitrarietà del segno e la convenzionalità delle proposizioni. Imbrigliato nella lingua il desiderio non è più libero di circolare alla ricerca della realtà svincolata da una narrazione; produce allora una rappresentazione o una pantomima sulla spinta di un'esigenza morale. Metafora e metonimia precedono però non solo la lingua ordinata in un sistema semantico, ma la morale stessa. Jakobson partendo dalla distinzione tra dimensione verticale e orizzontale del linguaggio (che si collega a quella tra langue e parole), parlava di una sistematizzazione del linguaggio sull'asse sintagmatico o su quello paradigmatico. L'asse sintagmatico è quello sul quale gli elementi della lingua si dispongono in una linea; quello paradigmatico è il ricettacolo dal quale si attingono gli elementi da sistemare sull'asse sintagmatico. Ad esempio, nell'enunciato Il cane morde il gatto, ogni parola è disposta sintagmaticamente lungo l'asse orizzontale, ma posso attingere paradigmaticamente dal genere dei nomi per sostituire a "gatto" o a "cane" altre parole e ottenere una frase diversa: "il papà morde il panino". Per Jakobson, questa distinzione sui due assi corrisponde alla distinzione tra metafora e metonimia. La metafora presenta la sostituzione di qualcosa sull'asse paradigmatico; la metonimia su quello sintagmatico. Da questo punto di vista, la favole e la fiaba (come il sogno) sono un lingua onirica che si costruisce sulle sostituzioni continue tra i due assi, giocando con metafore e metonimie. Il contenuto morale afferra il linguaggio in una sedimentazione, elaborando i termini lo irrigidisce in una catena semantica che impedisce il passaggio dall'asse paradigmatico a quello sintagmatico. E ciò in sostanza vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l'ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l'immaginazione. Dominato o domato dalla morale il desiderio conduce, come in una favola, prima o poi a dominare quello dell'altro.

PER ME BIANCANEVE

 

QUANDO IL DITO INDICA LA LUNA, LO STOLTO VEDE LA MUTANDINA DI BIANCANEVE

ANDO IL DITO INDICA LA LUNA, LO STOLTO VEDE LA MUTANDINA DI BIANCANEVE

Lo dico perché qualcuno non ha digerito quel “BIANCANEVE GLIELA DAVA”, il mio libro ovviamente senza averlo letto.

QUANDO IL DITO INDICA LA LUNA, LO STOLTO VEDE LA MUTANDINA DI BIANCANEVE

Lo dico perché qualcuno non ha digerito quel “BIANCANEVE GLIELA DAVA”, il mio libro ovviamente senza averlo letto. Ma il torpore intellettuale porta al facile giudizio: si ferma al titolo, la lettura è troppo faticosa. L’impossibile ma verosimile (ed è verosimile proprio in quanto è più vicino alla favola) che tanto piace ai moralisti della lettura, si sostituisce alla verità. Vogliono le favole e c’è sempre uno pronto a raccontarle. I bambini (quelli con cui si riempiono la bocca di belle parole) li fanno stuprare da una lingua che li svuota in profondità; e questo invece è legittimo e si può fare. Destrutturare (che brutta parola) le favole vuol dire restituire alle cose una dignità, spogliandole dalle parole e dai luoghi comuni. Scrivere della vita è un esercizio immorale, lo so, ma vuol dire anche prendersi cura della verità nella maniera giusta, senza sovrastrutture culturali e veli di ipocrisia.

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LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Se chiudi gli occhi davanti a un delitto, anche piccolo,
la tua incuria si chiama complicità.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Se l’hai sognato in qualche modo l’hai fatto.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Chiamiamo onestà l’inadeguatezza a compiere
un’azione. Non sempre è un’azione malvagia, ma ci
attribuiamo comunque un merito. Questa
inadeguatezza troppe volte viene considerata una
virtù; può allora sedimentare diventando una regola.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
L’acume è articolazione. L’articolazione è la
comprensione del potrebbe essere delle cose, il
possibile che va al di là delle certezze. Nei bambini il
possibile diventa probabile ed è questa la magia
dell’infanzia. Gli adulti sono incapaci di
un’articolazione, raccolgono le diversità nell’identità,
l’alterità nel logos, si muovono in un universo (che
vuol dire in un verso solo) non più in grado di andare
alle cose stesse. Se a quel che compriamo togliamo ciò
che lo ha reso appetibile, il valore emozionale, non
rimane che il valore monetario. Il quanto l’hai pagato
subentra sul perché l’hai acquistato. E a quel punto
hai perso la magia dell’oggetto e il piacere reale di
possederlo. La proprietà diventa identità e l’identico
come categoria ontologica assorbe appunto
l’articolazione (il diverso) senza risolverla in altro.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
I bambini non credono alle favole, Il fantastico che
avvolge il mondo dell’infanzia non è uno scollamento
con la realtà, tutt’altro. L’età adulta inizia con la
delusione che subentra dove prima c’era l’illusione,
porta a un distacco con quel che è reale e riempie il
campo di fantasmi.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Un uomo entra nell’età adulta quando non è più in
grado di comprendere la realtà e comincia a credere
alle favole.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Ogni uomo con una verità è no schiavo.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Chiamiamo consumo l’ansia per qualcosa che manca
e proprietà l’angoscia di perderla.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
La tirannia comincia dando un senso morale alle
cose.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
A quel che non ha nome diamo il volto di un Dio.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Non andare in cerca della verità se non sei disposto
ad accettare ciò che non ti piace.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Una parola che non viene detta diventa un proiettile e
finisce in una pistola.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Quando sei in lotta con te stesso, prima o poi un
nemico lo trovi. Vale anche per gli stati e i governi.

LE MASSIME DEL GRILLO PARLANTE
Sai come nascono le bugie? La parola si accosta alla
cosa e la lambisce finché riesce a dominarla. Gli
uomini non amano la verità ma sono affascinati da
chi gliela racconta. Con le parole appunto. E’ un falso
problema quello delle bugie (falso anche
giuridicamente); continua pure a raccontarle,
Pinocchio, ma fai in modo che diventino una verità.
Essere burattini vuol dire amare le cose tanto da
restituirle alla verità.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Giudicare è vedere un prima e un dopo tra due cose o
tra una parola e la cosa. Giudicare è anche costruire
un’identità o una differenza tra cose e cose e parole e
cose. E’ prevalso il principio di identità; l’alterità è
stata bandita nel nome del principio di ragione. E
così a quel che non c’è, in virtù della relazione, è stato
dato il carattere dell’esistenza. La diversità ha magari
pure una consistenza (ontologica). ma in quanto
negazione di ciò che esiste ed è reale. La verità si è
appropriata di quello spazio vuoto tra la parola e la
cosa ed ha contaminato tutte le articolazioni del
sapere, a cominciare dalla scienza. La giustizia ha poi
fatto il suo corso e ha chiamato la diversità malattia.
“Ma allora io sono diverso? No, Pinocchio, sono loro
ad essere uguali”.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Se c’è la parola esiste anche la cosa. Niente di più
sbagliato (e di irritante). Tra la parola e la cosa c’è
uno spazio vuoto ed è in quel vuoto che nascono i
mostri. La comprensione non è una relazione (ante, in
re o post rem); la relazione diventa abitudine, poi
idea e ideologia. E’ piuttosto una mano che afferra la
cosa e appunto solo così com-prende. Le mani non
creano fantasmi, non ne hanno bisogno per spiegare
le cose. Al primo di questi fantasmi abbiamo dato il
nome di Dio.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Non fidarti delle parole, anche quando sembrano
buone e gentili. Le parole fanno vedere quel che non
c’è, creano favole, riempiono una mancanza. La
quantità delle parole è inversamente proporzionale
alla presenza della cosa. Come nella pubblicità: se
non c’è il prodotto, te lo racconto. I mostri
cominciamo là. Col bisogno di una relazione tra la
parola e la cosa e con quella fragilità che porta a
concentrarsi più sulla parola che sulla cosa.

LE SENTENZE DEL GRILLO PARLANTE
Per quanto tu possa leggere, imparare e istruirti
quell’abbraccio continuerà a mancarti. Ed è inutile
che lo cerchi tra le pagine di un libro, nessuno ti
stringerà mai tanto forte come chi ti vuol bene. Non
te lo racconto l’amore, non capiresti.

**********

Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani

NELLO STORE DELLA MONDADORI alla pagina  Giancarlo Buonofiglio

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IL GATTO E LA VOLPE

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
La prima volta vi truffiamo, poi c’è un concorso di
colpa.
LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
La vostra paura è la nostra ricchezza.

 

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Vi forniamo continuamente risposte, in modo che non
dobbiate farvi domande.

 
LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Chiamate virtù quel che alimenta il nostro vizio.
LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Non ci sono mai abbastanza ladri in un popolo che
vive di favole.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Abbiamo cominciato con tre monete. C’era un
burattino, lo abbiamo convinto a sotterrarle in un
posto sicuro che le avrebbe moltiplicate. Ha
funzionato e abbiamo creato una holding,
Promettiamo interessi e le monete continuano a
sparire. Vogliono un’illusione e noi gliela forniamo; le
abbiamo dato il nome di una banca.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Portiamo la gente a odiare gli oppressi e a difendere
gli oppressori, creiamo un disturbo mentre un nostro
complice ruba. Diffondiamo la confusione per
mestiere. E’ correità ma la chiamano giornalismo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Tiriamo fuori dalla testa della gente i mostri e glieli
rivendiamo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
il nostro compito è di alimentare le paura e
l’ignoranza. La prima rende docili e l’altra svuota.
Insieme generano una metafisica e a quel punto quando
mettiamo le mani in tasca a qualcuno non solo non se
ne accorge ma ci ringrazia pure.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Siamo esperti nella contraffazione, Abbiamo
cominciato da ragazzi cambiando l’etichetta sulle
bottiglie. Versavamo il Tavernello nei fiaschi del
Chianti e i commenti di elogio da parte degli esperti
del gusto non mancavano mai. Poi siamo passati ai
libri e sul lavoro abbiamo fatto qualcosa di simile.
Volevano la biografia non il prodotto e ogni giorno
gliela vendevamo. Il verosimile diventava la verità e il
cambio dell’etichetta era la cosa in sé. Non può
esserci contraffazione se un palato è abituato al gusto.
Dove c’è un alcolista c’è sempre una verità.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Ci chiedono cosa faremo da grandi, mai cosa saremo.
I bambini hanno un filo diretto con la favola, e infatti
rispondono l’astronauta. Vuol dire che vogliono
sognare ed essere felici. Non rispondono
praticamente mai: vendere salumi. Questa
ostinazione a non essere un salumiere lo stato la
chiama infanzia.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
E’ meraviglioso svegliarsi tra le braccia di qualcuno
che ci ha rubato solo il cuore.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Ci sono più fessi che posti di lavoro. E’ normale che la
gente si adegui, è un fatto statistico. Il problema non è
colpire chi si adegua, ma ridurre il numero dei fessi.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Il principe deve essere temuto ma non odiato.
L’equilibrio tra la paura e l’odio genera un ordine
che mantiene il popolo in tensione. Senza quella
tensione non si alzerebbe per produrre, privato del
timore si spingerebbe oltre. Chiamiamo quella
tensione etica e l’ordine diritto.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Il potere non vuole un popolo ingenuo, desidera
piuttosto la sua insensibilità. Come quando sfili a uno
il portafoglio: non t’importa del suo giudizio, ti
preoccupa la sua prontezza di riflessi. All’assenza di
questa reattività abbiamo dato il nome di morale.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Il potere si esercita nei momenti di distrazione. A
questa distrazione abbiamo dato il nome di
democrazia.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Diamo un senso alle cose quando non ne conosciamo
la ragione. Le valutiamo e per valutarle attacchiamo
loro il cartellino del prezzo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Quel che non ha valore ha sempre un prezzo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Tutto ha un prezzo. Quel che non ce l’ha costa
comunque un sacco di soldi.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Ogni mattina un cretino e un furbo si svegliano. Se si
incontrano, l’affare è fatto.

 

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PERCHE’ E’ PERICOLOSO RACCONTARE AI BAMBINI LE FAVOLE

Il contenuto morale della favola afferra il linguaggio, irrigidendolo in una catena semantica. E ciò vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato
dalla morale il desiderio conduce prima o poi a dominare quello dell’altro

“Il contenuto morale della favola afferra il linguaggio, irrigidendolo in una catena semantica. E ciò vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato dalla morale il desiderio conduce prima o poi a dominare quello dell’altro”.

SITO WEB DEL LIBRO Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani (tutto quello che non vi dicono sulle favole)

http://permebiancaneveglieladavaai7nani.jimdo.com/

LE FAVOLE E LA PSICOANALISI
Accanto all’inconscio personale, inteso come rimosso
e sede dei complessi, Jung individuava un inconscio
collettivo composto da archetipi, che sono i modi con
i quali funziona la psiche in profondità. Se tali
funzioni (funzioni più che immagini perché
precedono la loro formazione) invadono la coscienza
senza un filtro possono risultare numinosi, ossia far
vivere esperienze intense e significati; altrimenti
danno luogo a fenomeni dissociativi e distruttivi. E’
nella fiaba come nel sogno che gli archetipi
irrompono e danno forma alle rappresentazioni. La
fiaba (più che la favola) racconta il percorso
attraverso il quale la mente giunge alla sua
maturazione, liberandosi dai complessi che la
mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide),
attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico
nelle storie o un feticcio animato nella vita del
bambino) che invece di annientarla finisce per
fortificarla. La sequenza è piuttosto lineare e
ordinata. Nella fiaba gli eventi si dividono in quattro
momenti. Il primo racconta il luogo, il tempo, i
personaggi principali, l’inizio dell’azione. Il secondo
la vicenda nella sua dinamica avventurosa. Il terzo la
crisi, in cui il protagonista si trova di fronte a
situazioni in grado di annullarlo. In ultimo la ”lisi”,
in cui il protagonista trionfa. Per Bettelheim il
bambino non è un soggetto passivo rispetto alla storia
ma partecipa attivamente con le sue emozioni e la
fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in
profondità. Attraverso l’identificazione con i
personaggi riesce a superare le situazioni conflittuali
e angoscianti; si libera dai sentimenti aggressivi e
dallo stato di impotenza, in qualche modo nasce alla
vita adulta. La componente trasgressiva è un
elemento fondamentale nella favola come nella fiaba,
ed è una tappa naturale nella crescita di un
individuo. Si tratta di deviare da un sentiero segnato
da istanze superegoiche non ancora assorbite dalle
figure di riferimento adulte. Nell’infanzia il Super Io
è debole e viene aggredito dall’Es; Pinocchio si
sottrae agli ammonimenti della fata e di Geppetto,
Cappuccetto Rosso a quelle della Madre. Padre e
Madre non sono sufficientemente inglobati e quindi
ancora inconsistenti nella mente del bambino. La
trasgressione è una specie di immersione
nell’inconscio personale e una protesta al mondo
adulto che non riesce a integrare, nella quale
percepisce i conflitti interni personificati in immagini
che provocano paura e panico. Ma è anche un
tentativo di liberarsi dalle catene della lingua e dalle
regole come sono espresse dalla letteratura quando
invadono la vita intima. Si tratta di un’esperienza
intensa e paurosa e il bambino avverte i pericoli; la
paura è un modo per comprendere, quel che non ha
forma assume un contorno e la paura viene almeno in
parte detonata. L’immersione conduce poi a un
ritorno all’inconscio extrapersonale collettivo. Nel
sogno come nella fiaba il bambino sperimenta la
forza distruttiva o creativa degli archetipi. In
Pinocchio c’è l’incontro con Mangiafuoco, poi il
viaggio nel Paese dei Balocchi, viene quindi
inghiottito e incorporato, si immerge nella pancia
della balena. Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo,
Cenerentola deve ritornare dalla matrigna. Se il
bambino fa un bagno nell’inconscio personale, il
contesto immaginario risulta ansioso; mentre
l’immersione nell’inconscio collettivo porta in
situazioni estreme, angosciose e depressive. Il limite è
quello. L’ansia vissuta dal protagonista e in cui si
identifica il bambino è uno stato d’animo suscitato da
eventi che non riesce a integrare, prima che da
draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per
l’Io. Si tratta di una paura senza l’oggetto, paura
della paura; quel cieco sentire che afferra Pinocchio
(che infatti è pieno di presentimenti negativi) prima
di partire per il paese dei Balocchi, o quello che
prende Biancaneve quando si avventura nel bosco.
Nella sua profondità la paura è attesa e l’attesa è uno
dei modi in cui si presenta l’angoscia.
L’incomprensibilità che sta nel fondo scaturisce da
stati d’animo ambivalenti; è un elemento
fondamentale, nella narrazione tanto nella psiche,
quanto da presentarsi praticamente in tutti i racconti
per l’infanzia, ma anche nella mitologia e in buona
parte della letteratura. Nell’immersione i protagonisti
incontrano figure fantastiche che sono elementi
interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze
con cui viene in contatto: i complessi dell’inconscio
personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo. Il
Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super
Io, ma la voce della coscienza in conflitto con i
desideri del butattino; il Gatto e la Volpe (l’ultima in
particolare, sotto la quale si nasconde la strega, come
avverte Von Franz) immagini archetipiche
dell’ipocrisia, dell’astuzia e della cattiveria. In Hansel
e Gretel i genitori sono figure divoratrici; le
sorellastre di Cenerentola, l’Ombra che viene
proiettata dalla sfera inconscia. In Cappuccetto
Rosso il lupo è l’archetipo della malvagità e incarna
l’immagine distruttiva o autodistruttiva. Il pericolo
reale non è l’aggressione del Lupo, ma la personalità
del bambino che può soccombere, divorata
dall’inafferrabilità di fenomeni contrastanti o
fagocitata dalla personalità degli adulti, diventando
ritorsione e autodistruzione. La repressione diventa
perversione, poi masochismo o sadismo a secondo
delle situazioni. Si tratta di una trasformazione
radicale del protagonista del racconto, non sempre
lineare e ordinata come analogamente accade nel
sogno. Il Brutto anatroccolo diventa un cigno,
Pinocchio un bambino, Cenerentola e Biancaneve
principesse. The Uses of Enchantment. The Meaning
and Importance of Fairy Tales, A. Knopf 1976
(tradotto in italiano con il titolo Il mondo incantato),
di Bettelheim è il libro da cui partire per una lettura
psicoanalitica delle fiabe. L’autore sottolinea che le
versioni originali delle favole, in cui erano ancora
presenti gli elementi crudi e violenti, permettevano ai
bambini di rappresentare i conflitti con maggior
intensità. Le interpretazioni, che risalgono alla prima
topica freudiana risultano certamente schematiche,
ma di un certo interesse rimangono le considerazioni
sulla coppia narratore e ascoltatore. Per Bettelheim:
“Il processo inizia con la resistenza ai genitori e con
la paura di crescere e termina quando il ragazzo ha
realmente trovato se stesso, ha raggiunto
l’indipendenza psicologica e la maturità morale e non
vede più l’altro sesso come minaccioso o demoniaco,
ma è capace di entrar e in relazione con esso”.
Emblematica è la storia di Rapunzel dei fratelli
Grimm. In Raperonzolo si legge che la maga
rinchiude la bambina (Raperonzolo appunto) nella
torre quando aveva poco più di dieci anni. Difficile
non rinvenire nella vicenda il paradigma di
un’adolescente e di una madre gelosa che ostacola la
crescita della figlia. Così scrive lo studioso austriaco:
“Un bambino di cinque anni ricavò una
rassicurazione completamente diversa da questa
storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a
lui per la maggior parte della giornata, sarebbe
dovuta andare in ospedale perché gravemente
ammalata … chiese che gli fosse letta la fiaba di
Rapunzel. In quel momento critico della sua vita …
[prese conforto dal] fatto che Rapunzel trovò i mezzi
per sfuggire alla difficile situazione nel proprio corpo,
ovvero con le trecce che il principe usò per
arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il
proprio corpo possa fornire a una persona il sistema
per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in
caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel
suo corpo la fonte della sua sicurezza”.
Semplificando, così come fanno le favole, i problemi
fondamentali si presentano in modo chiaro e conciso,
comprensibile al linguaggio infantile. Ed è forse
questo il loro carattere deleterio; non c’è sforzo o
articolazione nella comprensione, creano dicotomie
rigide su base emotiva e non secondo ragione. La
ragione subentra posteriormente quando è oramai
contaminata dalla morale. I caratteri dei personaggi
sono nettamente spiegati, il dualismo bene-male pone
il problema morale e richiede uno sforzo affinché
possa essere superato. Non più secondo ragione però,
ma sulla base di una tensione interna; la paura
domina nella scena e muove organizzandola la psiche
del fanciullo. La regola è salvarsi la vita, la
comprensione dei fenomeni non può che essere
subordinata e successiva. Per quanto l’eroe risulti
come esempio al bambino, permettendogli di
identificarsi in un personaggio positivo affrontando e
vincendo prove pericolose, la morale compensata con
la lotta e la vittoria tende a prevalere sul principio di
ragione e ancor di più sul contenuto letterario. Ed è
questo il limite della favola, la comprensione morale
si sovrappone a ogni altra. La paura assorbe il campo
e non lascia spazio ad altre considerazioni oltre quelle
brutalmente contingenti. I personaggi delle fiabe non
sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso
tempo, come invece accade nella realtà. La scelta è
obbligata, fa in modo che non si possa articolare il
racconto e il lieto fine è pressoché scontato; ragione
per cui risultano dannose per la crescita, in quanto
limitano fortemente il campo dell’esperienza e delle
emozioni. Pur precisando che per Bettelheim “Il
succo di queste fiabe non è propriamente morale, ma
piuttosto la fiducia di poter riuscire”. Raperonzolo è
una fiaba europea, pubblicata dai fratelli Grimm
nella raccolta (Kinder und Hausmärchen, 1812-
1822). Il nome della protagonista dipende dal fatto
che quando la madre era rimasta incinta venne presa
dal desiderio di mangiare i raperonzoli che
crescevano nell’orto della vicina, la strega Gothel. La
vicenda può essere ricondotta alla figura mitologica
di Danae. Ne Lo cunto de li cunti (1634), noto come
Pentamerone, di Giambattista Basile si trova la fiaba
Petrosinella, che narra una storia simile. Basile
racconta di una donna gravida che desidera il
prezzemolo (da cui deriva il nome di Petrosinella, nel
dialetto campano) che si trova nel giardino di
un’orchessa. Il mostro la cattura e in cambio della
vita ottiene la promessa della bambina una volta
nata. Tutto questo avviene ovviamente con un
linguaggio elementare ma profondo, non sempre
accessibile alla coscienza vigile; si tratta di una
simbolizzazione. Per l’analisi delle fiabe da un punto
di vista psicoanalitico, a parte il libro di Bruno
Bettelheim, risultano esaustive anche alcune pagine
di Melanie Klein e di Erich Fromm. Di particolare
interesse sono le considerazioni della Klein in merito
alla posizione depressiva e schizoparanoide: i
personaggi non sono buoni e cattivi nello stesso
tempo; è l’ambiguità a provocare uno sforzo di
comprensione e uno scollamento della personalità. La
polarità del carattere permette al bambino di
comprendere la differenza tra un modo e l’altro, ma
disturba il suo campo cognitivo. Il bambino si
identifica facilmente con i personaggi che suscitano la
sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua
volta di essere buono. Nell’identificazione la
domanda che si pone non è “desidero essere buono?”
ma “chi voglio essere?”. Non è la virtù a fare buoni
ma l’imitazione di un eroe con i caratteri della bontà;
diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che
di norma manca al bambino. Proiettando se stesso
nel personaggio il meccanismo dell’interiorizzazione
completa la formazione della sua personalità. La
simbolizzazione è necessaria come mediazione con in
linguaggio cosciente e la rappresentazione è una
forma di simbolizzazione necessaria alla
comunicazione con la parte in Ombra della
personalità. Non va interpretato al bambino il
significato della storia: “E’ sempre un atto di
invadenza interpretare i pensieri inconsci di una
persona, per rendere conscio ciò che desidera
mantenere preconscio, e questo è particolarmente
vero nel caso del bambino”. La mamma non deve
mostrare al bambino che conosce i suoi pensieri
intimi; la spiegazione distrugge l’incanto, trascina
nella realtà e non permette di fantasticare. La
fantasia è una forma di libertà, anche dei pensieri.
L’antropologo russo Vladimir Propp nel suo saggio
Morfologia della fiaba (1966) ritiene che tutte le fiabe
presentino elementi comuni, ovvero una stessa
struttura che ritrova al suo interno i medesimi
personaggi che ricoprono le stesse funzioni in
relazione allo sviluppo della storia. In particolare la
fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la
rottura dell’equilibrio (avventura) seguita dalle
peripezie del personaggio principale, per giungere a
un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione).
Questo schema universale fa da cornice al processo di
simbolizzazione all’interno della fiaba perché il
contesto stesso della fiaba è simbolico: il simbolo
viene rinforzato dalla struttura della fabula proprio
perché è comune in tutte le fiabe. Attraverso la via
dell’immaginario, favole e fiabe accomunano civiltà e
culture lontane, dimostrando come in esse sono
assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli
archetipi di quello collettivo.
Quando si parla di favole e fiabe è anche inevitabile il
confronto col mito, ma i processi identificativi
risultano più complicati: se il mito, come la fiaba, può
rappresentare un conflitto interiore in forma
simbolica e suggerire la soluzione, presenta la storia
in una forma colta spesso inaccessibile alla lingua e
alla fantasia del bambino. Da un punto di vista
propriamente psicoanalitico i miti sono collegati alle
richieste del Super Io e raccontano il conflitto con le
esigenze dell’Es e quelle di autoconservazione dell’Io.
Sono rappresentazioni distanti e ricordano il rigore
della censura o dell’imperativo morale. La favola,
diversamente dal mito, non pone richieste, non
produce un senso di inferiorità, stimola anzi una
certa reazione. Attraverso esempi tratti dalla
letteratura popolare, Bettelheim dimostra come il
messaggio di queste storie domestiche aiuti a
superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di
grandi. Ed è per questo che risultano convincenti. Il
pensiero del bambino è animistico (picchia la sedia su
cui ha sbattuto, parla con la bambola); non ci
stupiamo che il vento e gli animali parlino, o che un
uomo si trasformi in un asino, poiché la separazione
tra organico e inorganico non è ancora definita come
nel mondo degli adulti. Le fiabe evocano situazioni
che permettono al bambino di affrontare ed
elaborare le reali difficoltà della propria esistenza;
sono utili perché aiutano a tradurre in immagini
visive gli stati interiori, danno un volto a quel che non
ce l’ha. La fiaba intrattiene però il bambino, lo
afferra come i gendarmi delle storie e lo costringe a
riconoscersi in un contesto elaborato da un mondo
adulto. Favole e fiabe sono scritte dai grandi e
l’inconciliabilità con il mondo dei bambini è evidente,
non possono che esercitare una qualche violenza.
Doverosa certo, ma incontestabile. Il processo
evolutivo del bambino inizia con la resistenza ai
genitori e con il timore di crescere, e termina quando
ha realmente trovato se stesso raggiungendo la
stabilità psicologica e la maturità morale. Questi
racconti danno voce a problemi umani rilevanti (il
bisogno d’amore, il sentirsi inadeguati, l’angoscia
dell’abbandono, la paura della morte), scarnificando
le situazioni, separando il bene dal male distinguono
in modo chiaro quel che nella realtà è confuso e
parlano al bambino dei problemi che lui stesso
avverte come angoscianti e ne prospettano le
soluzioni. Soluzioni adulte naturalmente. Le storie
accettano a livello della consapevolezza le pressioni
dell’Es, e indicano i modi per soddisfare il piacere in
accordo con le esigenze dell’Io e le intransigenze del
Super Io. Il bambino ha bisogno “di ricevere
suggerimenti in forma simbolica riguardo al modo di
affrontare questi problemi”. Diversamente, quando i
contenuti nascosti vengono negati, se non hanno
accesso alla coscienza, oppure se vengono controllati
o oppressi, la personalità subisce un danno. Il piacere
ha una sua legittimità riconosciuta anche dagli adulti,
incistare la dinamica Io-Es vuol dire produrre una
personalità sofferente e problematica; le fiabe offrono
una via di fuga all’adulto che le racconta e una certa
soddisfazione al bambino che le ascolta. E’
fondamentale che un parte del sottosuolo possa
affiorare alla coscienza e venga rielaborata
attraverso l’immaginazione, perdendo parte della sua
pericolosità. Bettelheim era critico sul fatto che al
bambino debbano essere presentati soltanto le realtà
positive. Il bambino non è un extraterrestre, deve
fare i conti anche con la propria parte oscura,
l’Ombra, con l’aggressività, l’odio, l’ansia, la rabbia
maturando il coraggio per affrontare le difficoltà. Le
difficoltà spesso le creano più o meno
consapevolmente gli adulti, e una di queste è la
sessualità.
Se è evidente la presenza di contenuti sessuali nella
storia, le interpretazioni spesso discordano. Alcuni
autori si sono spinti fino a rinvenire nei racconti la
prostituzione. La fiaba potrebbe essere intesa come
un’esortazione a non esercitare la professione. Il tema
della ragazza nel bosco in molte culture viene
associato alla prostituzione; nella Francia del XVII
secolo la mantellina rossa era veniva indossata dalle
meretrici e le lupae dell’antichità dovevano portare
un drappo rosso. Il rosso rappresenterebbe le
mestruazioni e l’ingresso nella pubertà
(simboleggiata dalla foresta) mentre il lupo, l’uomo
era visto come l’aggressore da cui guardarsi. Ma, pur
non mancando l’erotismo nelle storie popolari, sono
considerazioni che lasciano il tempo che trovano,
frutto come si vede di una certa morbosità e di un
gretto intellettualismo da parte degli adulti.
Un aspetto invece interessante è l’antropofagia. La
fiaba ha origine nel contesto europeo piegato dalle
carestie, durante le quali non erano infrequenti i casi
di cannibalismo (emblematiche sono la carestia del X
secolo e la grande carestia del 1315-1317).
Soprattutto nelle versioni più antiche delle fiabe la
figura antropofaga prendeva la forma di
un’orchessa, un mostro femminile, piuttosto che da
un lupo (di sesso maschile, la cui antropofagia era
riconosciuta come un fatto ordinario) e ciò induce a
pensare come questi racconti si siano modificati per
rispondere alle diverse esigenze educative.
Per concludere. La fiaba è un racconto mitico
costituito da immagini e personaggi archetipici. Jung
scrive che le fiabe consentono di studiare l’anatomia
della psiche meglio delle discipline scientifiche, in
quanto presentano in forma pura i processi
dell’inconscio collettivo e riproducono modelli del
comportamento archetipico (von Franz, 1996).
Occorre mettere da parte la cultura per ascoltare ciò
che il simbolo. Marie-Louise von Franz ha dedicato
parte del suo lavoro proprio all’interpretazione
psicologica della favola. Sottolineava che tutte le fiabe
descrivano il Sé, l’archetipo fondamentale della
psiche. Nel libro Le fiabe del lieto fine; psicologia
delle storie di redenzione (2004) la von Franz
analizza il lieto fine a partire dalla trasformazione e
la liberazione in quanto possibilità di arrivare al Sé.
Le fiabe caratterizzano non solo l’equilibrio di un
individuo, ma offrono anche un metodo terapeutico.
Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la
psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della
superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno
strato della vita psichica dove gli eventi scorrono
proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si
sviluppano a partire da tale livello, per poi
ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio
e trasformarsi in fiabe” (von Franz, 2009). Ciò vuol
dire che la fiabe presentano gli archetipi nella forma
genuina e pura, offrendoci un alfabeto e un metodo
per comprendere i processi della psiche collettiva.
Mentre nei miti, o in qualunque altro materiale
letterario più elaborato, rinveniamo i modelli della
psiche umana rivestiti di elementi culturali, nelle
fiabe l’invadenza culturale è presente in misura
limitata; riflettono più direttamente i modelli
profondi della psiche. La ragione di
un’interpretazione psicologica delle favole, per la von
Franz consiste nell’effetto rigenerante, nella reazione
emotiva, in quell’incomprensibile equilibrio che
producono: “L’interpretazione psicologica è il nostro
modo di raccontare storie; avvertiamo ancora lo
stesso bisogno, aspiriamo ancora al rinnovamento
che scaturisce dalla comprensione delle immagini
archetipiche”. E aggiunge con autocritica:
“Sappiamo bene che l’interpretazione è il nostro
mito” (von Franz, 1996). Nel suo libro Le fiabe
interpretate, l’autrice schematizzava le fasi per una
corretta interpretazione, con una tecnica che ricorda
quella strutturalista: introduzione (c’era una volta; la
formula indica una collocazione fuori dallo spazio e
dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e
perciò comune, collettivo); personaggi (numerare i
personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per
cogliere un elemento archetipico); esposizione
(l’inizio del problema, la crisi e le difficoltà che
caratterizzano la fiaba); avventura e lisi (l’avventura,
che può articolarsi in varie peripezie fino a giungere
al vertice della tensione dopo la quale “avviene una
lisi o una catastrofe, una soluzione positiva o
negativa, l’esito finale; il racconto termina poi in
tragedia o si conclude felicemente”). In ultimo ci sono
le formule conclusive, “rite de sortie”, così dette per
non rimanereancorati all’universo infantile
dell’inconscio collettivo. Una caratteristica della fiaba
che non ritroviamo in altri generi come miti e
leggende, è che la conclusione può anche essere
ambigua, ossia una conclusione positiva sottolineata
da un commento negativo del narratore. Fiaba, sogno
e gioco sono l’espressione del processo di
simbolizzazione e dell’interazione del bambino con
l’ambiente circostante. Il problema rimane quello di
non farsi sequestrare dal racconto (Barthes) e di
svincolarsi dalla lingua. La letteratura prende il
sopravvento fornendo le regole dei comportamenti
adulti. Può anche essere qualcosa di positivo, nel caso
l’identificazione avvenga con l’eroe buono, ma il
pericolo è di ritrovarsi imprigionati in un ruolo,
peraltro legato ai modelli simbolici dell’infanzia. Si è
detto della componente sessuale nella favole, il ruolo
impedisce la consapevolezza dei comportamenti e
limita la circolazione del desiderio. Biancaneve,
Cenerentola, Pinocchio desiderano e sono in cerca del
piacere. Nella lingua di un bambino, fatta di metafore
e metonimie, è più che evidente e il rischio è quello di
circoscrivere tale fondamentale processo di crescita e
di equilibrio della psiche all’interno di quel contesto
semantico che chiamiamo favola. La trasgressione, la
disubbidienza sono un modo per svincolare il
desiderio dai binari del linguaggio e dalla narrazione.
Si converrà che per il bambino che ascolta il racconto
rimangono la parte più eccitante, quella che viene
percepita con maggiore intensità e partecipazione.
Non c’è analogia tra fiaba, favola e sogno, sul piano
linguistico e simbolico rappresentano esperienze
comuni. Peirce distingueva tra tre generi di segno:
quello “iconico” (che rimanda al suo referente; ad
esempio il disegno di un cane), quello “indessicale”
(che ha una relazione di causa col referente; le nuvole
come segno della pioggia), e quello “simbolico” (che
non ha nessuna relazione col referente). Favole, sogno
e gioco dimostrano l’arbitrarietà del segno e la
convenzionalità delle proposizioni. Imbrigliato nella
lingua il desiderio non è più libero di circolare alla
ricerca della realtà svincolata da una narrazione;
produce allora una rappresentazione o una
pantomima sulla spinta di un’esigenza morale.
Metafora e metonimia precedono però non solo la
lingua ordinata in un sistema semantico, ma la
morale stessa. Jakobson partendo dalla distinzione
tra dimensione verticale e orizzontale del linguaggio
(che si collega a quella tra langue e parole), parlava
di una sistematizzazione del linguaggio sull’asse
sintagmatico o su quello paradigmatico. L’asse
sintagmatico è quello sul quale gli elementi della
lingua si dispongono in una linea; quello
paradigmatico è il ricettacolo dal quale si attingono
gli elementi da sistemare sull’asse sintagmatico. Ad
esempio, nell’enunciato Il cane morde il gatto, ogni
parola è disposta sintagmaticamente lungo l’asse
orizzontale, ma posso attingere paradigmaticamente
dal genere dei nomi per sostituire a “gatto” o a
“cane” altre parole e ottenere una frase diversa: “il
papà morde il panino”. Per Jakobson, questa
distinzione sui due assi corrisponde alla distinzione
tra metafora e metonimia. La metafora presenta la
sostituzione di qualcosa sull’asse paradigmatico; la
metonimia su quello sintagmatico. Da questo punto
di vista, la favole e la fiaba (come il sogno) sono un
lingua onirica che si costruisce sulle sostituzioni
continue tra i due assi, giocando con metafore e
metonimie. Il contenuto morale afferra il linguaggio
in una sedimentazione, elaborando i termini lo
irrigidisce in una catena semantica che impedisce il
passaggio dall’asse paradigmatico a quello
sintagmatico. E ciò in sostanza vuol dire che il
sentiero del bambino è dal principio segnato secondo
l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel
che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere
sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato o domato
dalla morale il desiderio conduce, come in una favola,
prima o poi a dominare quello dell’altro.

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LA PRINCIPESSA SUL PISELLO

LA PRINCIPESSA SUL PISELLO
C’era una volta un principe che voleva sposare una
principessa, ma ne voleva una vera, di sangue blu.
Comincia così la favola di Andersen; non mi pare che
l’autore intendesse suscitare niente di morboso con
l’immagine del pisello, eppure la storia ha acquisito
una buona popolarità grazie al titolo, ed è oramai un
luogo comune quello che dice: “sei come la
principessa sulla leguminosa”. Per un certo riguardo
che si porta alle fanciulle, che sempre e comunque
vivono in una fiaba, al limite esercitano una pressione
sul baccello; sono i principi a stare sul cazzo. Ma va
bene così. La regina per verificare che la ragazza sia
davvero di sangue blu, che fa? La fa dormire su venti
materassi in fondo ai quali ha sistemato il legume; e
si sa che le la fanciulle di nobili natali, abituate come
sono a mille comodità, giammai dormirebbero con un
fastidio simile. Al mattino la ragazza si alza dolorante
e assonnata, lamentando di non avere chiuso occhio.
Il principe è quindi sicuro del blasone e tutti vissero
felici e contenti. Tirando le somme: i principi cercano
sempre delle principesse, ma non mi pare di vedere in
giro tutti questi blasonati. Ma funziona così, ed è per
questo che le favole piacciono tanto: uno sciagurato
può assimilarsi all’erede delle fiabe e parimenti le
ragazze del popolo desiderano almeno un giorno da
favola. La vita è però un’altra cosa; il principe rivela
le origini popolari e presto la principessa sul pisello
comincia a stargli sul cazzo.

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Biancaneve e i sette vizi capitali

Ci raccontano favole e crediamo a tutto. Quello che non dicono è che Biancaneve gliela dava ai sette nani

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Per me Biancaneve… GRATIS OGGI

Essere recensiti così è tremendamente bello. Grazie, Roberta Gabrielli

(Quando è il libro a fare disonore alla recensione)

“La fiaba è un non luogo d’incanto, sospeso tra il “c’era una volta” e il “vissero felici e contenti”. Un racconto che, attraverso la parola, organizza il desiderio ed ancor più la paura dello stesso, in un misero quadro morale.
Non c’è incanto nella fiaba, non c’è speranza. Tutto ha il suo prezzo, compresa la magia. Un prezzo necessario che l’adulto paga per poter credere che ogni sua pulsione possa essere nobilitata attraverso l’arrivo d’un blasonato assente, a cambiare sorti grame di giovani ambiziose pulzella che, spacciandosi per indifese tutto cuore e poco cervello, arrivano sempre e non senza un sacrificio (prezzo) ad ottenere quel lieto fine che la fiaba lascia immobile, congelato in due uniche parole: “felici e contenti”.
Cosa vi sia oltre non è dato sapere.
Ipotizziamo ancora qualche orco, qualche lesto e nobilitato ladro, qualche anarchico di legno piegato dall’altisonanza della parola bontà o ancora travestiti che ingannano con vecchie scorze di pelle umana o asinina, mentre i lupi continuano a mangiare nonne e insidiare nipoti in un’ebrezza orgiastica che appunto viene mascherata da appetito gastrico.
La fiaba non porta con sé l’intento catartico ma un abile camouflage. Diventa il blando anestetico che dòma il nervo scoperto del bambino curioso. E guai a non saper somministrare la medicina. L’adulto sa che dietro ogni angolo è in agguato il solito pifferaio, così come è determinato a far credere che ogni sogno naturale sia, dopotutto, una scoria di cui bisogna liberarsi per vivere secondo morale.
Ecco allora che, rivisitando chi di sogni si intendeva, possiamo giocare con la parola e convincerci che per certo “i sogni son deleteri, per la felicità”. Di Roberta Gabrielli.

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