MI FAI MORIRE DAL RIDERE

riso

Gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso d’amore non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; tuttavia c’è un altro fenomeno sempre presente nelle relazioni amorose, la risata. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere, definendolo con il neologismo Marxlust. La risata come maschera o distrazione rimanda al significato del potere attraverso un meccanismo che preserva la vita privata a detrimento di quella pubblica; provoca un cortocircuito nel senso, un’assenza di significato come rimando al reale) perché le sue intenzioni primarie sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Il riso non è il motto di spirito di Freud e non serve solo per una scarica pulsionale; nasce e si risolve piuttosto nella manque-à-être, rimane nelle fenditure del significato dando accesso non tanto all’Altro grande, ma risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della relazione in quanto trabocca dal discorso e richiama all’assenza di un fondamento nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, strappandolo dall’ordine abituale lo svuotiamo di senso per consegnarlo al nulla. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. La relazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità, non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non unisce l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata sacrifica l’altro, non lo conferma: “Il riso comune … è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio; non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse … Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve” (Bataille). Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem. XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo possibile di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, eterogeneo a quello della parola. La materia della pulsione non è quella della parola; è fatta di un composto simbolico, mentre la pulsione ha una natura erogena. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse e si muovesse il senso, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: quando si parla qualcosa gode. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo si parla per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, modulazioni, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua.

FRAMMENTI 3D

Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Per quanto l’uomo neghi la natura, essa ricompare nelle deiezioni, in un gesto che non è solo negazione dialettica, perché nella risata i termini non sono superati come nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine concettuale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica (se non come motto di spirito), lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là dell’inconscio, trascina nel luogo in cui si apre una ferita che non può rimarginarsi. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia non canalizzabile. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo e attuale sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io, che è una radicale inesorabile erosione della vita. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio, rendendolo assimilabile. E’ una voce che parla dall’infinito prima che dall’inconscio. Più che Freud o Lacan è stato Nietzsche a dare una disincantata spiegazione della risata, in quanto terapia contro la veste restrittiva della moralità logica; una retrocessione dalla ragione così come scorre nel discorso. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito.

Frammenti di un monologo amoroso

 

QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO

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Più che altrove, è nel discorso amoroso che il corpo sembra perdere l’anatomia, gli organi, il nome, l’ordine, la forma. Da presenza diventa assenza, da identità differenza. Lo svuotamento consente di avvicinare l’altro, di riempire di vuoto un altro corpo parimenti assente. L’innamoramento provoca uno squilibrio dell’Io e la degenerazione del corpo. La frantumazione del corpo è però qualcosa di fecondo e produttivo; è una forma di dissimulazione prima che di dissacrazione: “Sento sgretolarsi il terreno sotto il mio pensiero e sono portato a considerare i termini che adopero senza l’appoggio del loro senso intrinseco, del loro substratum personale. Meglio ancora, il punto che sembra collegare questo substratum alla mia vita mi diventa di colpo stranamante sensibile e virtuale” (Artaud, 1966). Il pensiero si frammenta, perde di consistenza, si sgretola in una sottrazione semantica e dà luogo a un’erosione profonda dell’Io, non più in grado di controllare ciò che dice o pensa. Il linguaggio inteso come struttura organizzante è fuorviante, non appartiene al soggetto ma cospira comunque alle sue funzioni. Si presenta come la dilatazione di un corpo sotto dittatura o dettatura, dominato da una mancanza radicale. E’ il vuoto che diventa parola, non l’essere che manca a se stesso. La frattura è assoluta, diventa la regola nel discorso amoroso e l’inconcliabilità tra i corpi rimane abissale. La rivolta della carne si presenta nel corpo senza organi, mentre il desiderio scorre per le fenditure cercando di colmarla: il desiderio si ritrova in questa trazione, ed è come una domanda che cerca la risposta nel corpo dell’altro.

FRAMMENTI DI

Nella donna la domanda si avverte come silenzio, in quello che non dice, nel lasciarsi perpetuare come soggetto d’amore più che penetrare. Come una mancanza che genera un eccesso di pienezza, prima che la fame prenda nuovamente il sopravvento. Per un istante la simulazione diventa assimilazione e il senso della sazietà identità. La frattura che separa un corpo dall’altro racconta qualcosa che il soggetto non riesce a sopportare. E’ l’essere che il desiderio cerca e vuole, imbattendosi in una privazione ontologica. Non il reale o l’identità, perché sono presenti da sempre; premono e esondano dal corpo come un piacere in eccesso che i significati dell’Io non riescono ad arginare.

Da Frammenti

MARISA … FACCE TOCCA’ LA SISA

Io e Anna Maria ce semo visti il film Straziami ma di baci saziami. Stemo ancora ridenno e mo ve lo raccontemo. Anna è marchiggiana doc (o marchisciana) e io ce sto a provà a scriverce, ché a me quella lingua me piace tanto.

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Di Anna Maria

L’hai visto il film sennò na che l’hai da vedè, che poi ce famo na recensione pari pari a linguaggio. L’ho visto sì, me pare perfetto e preciso,  se mischia er romano co la marchiggiana. Marchiggiano voi dì,  linguaggio s’è mica femmina. Linguaggio  eh appunto, na sta attenti proprio co questo caro mio che a fraintenne ce vole n’attimo,  me vorrai mica fa  confonne e famme fa  un miscuglio gay, eh no, de romanzo popolare se tratta e qui se sa, voce de popolo voce de Dio, na sta alla verità come menzogna detta, se po’ mica pervertì la perversione,  certe cose se fanno ma nun se dicono insomma, non ce impicciamo eh, restamo in superficie pe la cosa lì, come se chiama mannaggia… quella  che fa filà tutto liscio mentre dentro te rodi er fergato… il quieto vivere ecco! Vedi che bella parola, mica come quelle che me suggerisci tu, che poi te fai nemici, che secondo me te amano e te fanno bannà pe avette tutto per sé, e che ce vole a capì, oggi ce semo quasi e ancora se fa gli gnorri. E pe tornà ai giorni nostri mo’ tu t’hai da vedè Closer, come che è, naltro film, naltra lingua, sempre lo stesso minestrò travestito da minestra, dove  appunto, ce se scambia le donne, ma quarcosa nun torna, e chi nun torna è l’omo pe l’omo capisci? Ma torniamo nelle grazie del Signore, a sapè quale, perché poi tornacce se sa come se fa, l’importante è che nun se ne accorga delle tante pen.. azz  no! pene non se po’ dì, sia mai lor signori fiutassero quarcosa, pasciò ecco, pe niente!!!  ma quanto ce piace la pasciò, sai quella che ce scusa e ce fa fa le cose più insensate, ieri come oggi,  non come quelle de ieri, ma sempre insensate so, se va avanti insomma perché come se dice correa l’anno… e pe tornà da dove siamo partiti appunto,  quel che correa nella storia de sto film qua era il 1969 e semo a Roma, e se stanno a celebrà la Giornata folcloristica nazionale. Ecco che a un certo punto, nun te scocca il córpo de furmine tra un certo Marino e Marisa, e basta poco eh, du parole, perché lui romano de Roma se trasferisca da lei marchiggiana de le Marche.

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Eccoli dunque, che carini che so, e pure ingenui però, fanno na tenerezza…  e certi giri ce stanno pure, come l’ostacolo che non po’ mancà. Prima er padre de lei se oppone, ma la divina provvidenza che ce sta a fa? Appunto, e siccome Dio vede e provvede, quando se deve ripiglià sti due giovani che pare proprio che se vogliono suicidà, se riprende er… no siamo nelle Marche e se dice “lo” vecchio, ecco,  ma non è che poi tutto po’ andà liscio come l’olio, e come se dice  lo diavolo ce mette lo zampino, certo che se tirava via questo invece del vecchio,  cioè tutto lo diavolo eh, no solo lo zampino come al solito, ma se sa,  quei due glie piace giocà a rimpiattino co noi, e i tifosi de parte se ne accorgono mica, e procedono, pe modo de dì, verso un altro ostacolo. Eh sì, quello delle malelingue, ce n’è sempre una, che invaghita de Marino, glie fa crede che la sua Marisa mica se l’è tanto pura, qui mi sa so sforato co lo dialetto, facciamo che sia della malalingua via! E se torna a Roma, oh yea,  questo deve esse no strascico de Closer, perché Marisa sconvolta qua se trasferisce, e così Marino dietro pe tornà da do era partito. E ne passa de tempo prima che i due se rincontrano, e quanno succede,  l’amore se riaccenne sì,  ma che te pareva, ecco  nartro ostacolo, un certo Umberto sarto sordomuto che Marisa s’è sposato.  Staorda però, perché è proprio vero che chi te toglie da l’impicci te c’ha messo, o pe nun da la soddisfazione a due creature umane de risolvelo da loro,  perché pure il libero arbitrio, qui ar contrario, se dice ma nun se da, e se fa pe niente, dunque e pe questo a venì,  decisi gli amanti a  toglie de mezzo Umberto,  il cosiddetto terzo incomodo, che poi fa comodo, da qui i sensi de corpa che poi so de indecisiò, mettono in atto de fa saltà la cucina e co questa pe  aria il povero sarto,  ma questo che te fa? invece de morì  s’è preso solo un forte shock,  e non te racquista udito e parola? perdendo de diritto la moglie però, eh sì, perché mo’ cià da scioglie er voto, come desiderio della madre,  e se deve da fa frate cappuccino, e  così… glie tocca pure da benedì  “er” e “lo” matrimonio de Marino e Marisa.

MARISA … FACCE TOCCA’ LA SISA

Di Giancarlo Buonofiglio

Dopo quello che ha scritto Anna me tocca parlà in marchiggiano pure a me. E mo ce provo, guarda un po’. E voio dì ‘na cosa, che a me Balestrini Marino me piace. Pure Marisa di Giovanni però, che lavora in fabbrica e fa i pantaloni da omo. Il film di Dino Risi è la storia di du giovani vittime dell’egoismo del mondo e della scarsa comprenzione che c’ha per noi giovani. Come quella tra Lara, Živago e Viktor Komarovskij, ma il protagonista è l’amore, quello della canzone Nell’Immensità e nel senso che non esiste nulla all’infuori di esso. Con Marisa che fronda: musicabilmente me piace, ma le parole no. Sono scritte per chi si ama, come me e te. Tante grazie, e io sarei nullità? Nullità intesa in confronto all’immensità dell’infinito. Non me convince pe niente, il nostro amore è lui l’immensità, nullità semmai sarà tutto il resto. In senso che non esiste altro all’infuori di esso, del nostro amore? E’, vidente. Può darsi, del resto è un concetto presente anche nella canzone C’è una casa bianca che.

Marino (‘ntelligente, struito, che trovò di collocare il suo lavoro a Sacrofante) a un scerto punto va a cercà la fidanzata fuggita a Roma, dopo averla ‘ngiustamente accusata di essere andata pe l’alberghi co Scortichini Guido Komarovskij (che se tu sei il Gigante di Rodi io non so il nanetto de Biancaneve; ‘n campana). Fa il cameriere ma finisce in disgrazia e si butta nel Tevere. Prima però cerca conforto nel Telefono Amico:

– Psichiatra: Chi è Marisa?
– Marino: Eh… è la mia fid…
– Psichiatra: No, Marisa è la mamma!
– Marino: La mamma?
– Psichiatra: Il bisogno della mamma che lei probabilmente avrà perduto giovanissima…
– Marino: 86 anni
– Psichiatra: Ecco, vede?

Mo me tocca però che ve spiego il titolo mio: Marino comincia a strillà Marisa, Marisa… e uno che c’aveva le recchie comme lu somaru, gli risponne: facce toccà la sisa. Poco gentili questi romani; ma nelle Marche c’erano l’etruschi e apposta je l’hanno date. A me le sise me piacciono, pe carità, ma non ne parlamo che il discorso è troppo spregiudicante. ‘Ntanto Marisa s’è sposata con Umberto Ciceri, sarto sordomuto che ordina il caffè fischiando e cucina come nonna quando te tocca la panza e dice: viè qua, che te la riempio. So corna e Marino se gioca i numeri (fanno 58 e chissà poi perché); la vita è pur sempre una roda che gira e li sordi e l’anni non se rifiuteno mai. Torna ricco e spietato a riprendersi i ricordi, il sapore dei baci, un disco per l’estate, le domeniche a Macerata e la prima frase che mi scambiasti: gradisce una gomma alla licurizia? No, grazie annerisce i denti. Marisa cede (la musica è finita, gli amici se ne vanno, impossibile resistere al melodramma) e come nei romanzi d’amore progettano l’inzano gesto, liberarsi del sor Ciceri (ma il rimorso arriva subito: il nostro amore ce stava portando su una brutta china, come tante volte si legge sulla cronaca degli amanti diabolici).

Umberto Ciceri, all’apparenza omo mite e marito premuroso ma violento tra le lenzola: come si chiama uno (domanna Marisa) che nell’intimità picchia la moglie? E che ne so, nervoso? Ma no, è un vizio, una perversità. Ma allora è un notanaso… un nasochista ! Ma il film va visto tutto, che qua con le parole ce famo notte.

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Marisa, facce toccà la sisa

Ora noi facciamo fatica a capire, ma anche quello era un modo per fare la corte. L’uomo era omo e pertanto malandrino, anche con le parole. Per quanto sgradevole, l’approccio urlato veniva comunque digerito in un mondo che parlava una lingua povera, contadina, almaccata dai fotoromanzi e dalle epiche del cinematografo, svincolata dai fasti grammaticali (che sono roba da signori). Ma è possibile che in tre mesi di questa schermaglia neanche un bacio? Tempo al tempo, Casanuovo. Una sintassi affrancata dalla scola, che si capisce meglio. Il sintagma percorreva la catena dei significanti e per metonimia la “sisa” prima che una metafora sessuale catturava il fotogramma della femmina (il profumo della tua pelle me fa ‘mpazzì… voglio ‘nfangà, voglio ‘nfangà). Storicizzandola anche. Corposa, materna, sostanziosa (ti mangerei; fallo… fallo). Perché la fame era fame e pure quello era un modo per saziarsi. Almeno l’occhi, come direbbe Marino. La lingua rurale tracciava la passione tra Marino e Marisa collocando la donna in un ambiente domestico e riproduttivo (Marisa mia, mia… mia… no sono la signora Ciceri; sempre di qualcuno ‘nzomma era). All’interno di un contesto familiare (ingenuo e immacolato: me so comportato sempre da gentilomo), il corpo femminile veniva abitato da significati che andavano al di là delle parole, diventando un modo per dare voce prima che ai ruoli tra maschio e femmina (so mai venuta qualche volta con te? Non ce sei venuta ma ce potevi venì, perché io so ‘n cavaliere e non ho ‘nsistito), a una narrazione romanzosentimentale come nel libro (o meglio nel film con Omar Sharif) di Pasternak, che ordinava la scena muovendo da un desiderio che pure c’era (hai voluto solo il mio corpo, non avrai la mia anima). Perché sempre di sceneggiata e di letteratura comunque si trattava.

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Pe concludere: Straziami ma di baci saziami racconta le peripezie di du giovani innamorati, de sor Ciceri e del fantasma della gelosia che ha i muscoli di Scortichini Guido. Se ride e se piagne nel film, però se ride de più. E tu Anna cara, te la si fatta ‘na risata con me?

Link

Film completo su Youtube

Nell’immensità

Telefono amico

Regia: Dino Risi
Interpreti: Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Pamela Tiffin, Gigi Ballista, Moira Orfei, Ettore Garofolo
Durata: 100’
Origine: Italia/Francia, 1968
Genere: Commedia

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FRA CASSO E SORA GINA

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FRA CASSO
Due sfere in basso, il corpo snello o grasso, l’asta come una bandiera, il baffo adorna la figura intera. In punta si trova una cappella, dimora dei santi e dei dannati, a ricordar che siamo condannati a ricercare l’anima gemella. L’umore entra nei corpi cavernosi, dall’albuginea ai vicoli arteriosi, sfidando il peso grave, la carne morta, cercando la durezza che conforta. Il maschio adulto è legato alle catene di una rigidità che a volte non mantiene; e quando accade è una disfatta in terra, come il soldato che ha perso la sua guerra. E a nulla vale l’uman conforto di una femmina che dice: è un bel rapporto; ché lo sappiamo e si trova nelle cose: lo stelo del virgulto si spinge nelle rose. A mio parere, è un argomento antico, non puoi deporre l’arma e combattere col dito. Perdonate la scostumatezza, ma gli uomini son forti dell”unica certezza: dal re al nobile al villan fottuto, voglion sentirsi dire che hanno goduto.

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SORA GINA
Dice che noi femmine siamo sprovvedute, vittime del piacer e di virtù perdute; eppure non sa il maschio nostrano che anche a noi piace l’amor e lo facciamo. Diversa è nostra natura questo è certo, come la foresta con il deserto; e mo vi racconto com’è il piacer nostro, con qualche esempio ve lo dimostro:
A noi piace quando ci toccate, le carezze non lesinate.
Non siate avari con le parole, ti amo, cuore mio, luce e sole.
Se volete scaldare quella cosa, trattatela con garbo, come una rosa.
Non correte subito al boschetto, indugiate piuttosto sopra al petto.
Le spalle, il collo, i fianchi e non andate avanti: finché non sentite che son cose gradite.
baci non devono mancare, ma senza esagerare; perché son belli i tocchi di un poeta, ma tra le lenzuola preferiam l’atleta.
Ricordate che il sesso è allegria, prima di tutto ci vuole fantasia. Lo sapeva pure il Padreterno che mise il Paradiso dentro all’Inferno, collocando ciò che dà diletto proprio là, vicino al gabinetto.

FACEBOOK censura le idee e spilla soldi con la pubblicità

“Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.” RedBavon

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L’articolo censurato (foto di RedBavon)

Di Giancarlo Buonofiglio

FACEBOOK, la cloaca del pensiero che latita, dell’insulto con rutto libero, della morale delle mutande madide di polluzioni, il coacervo del razzismo e del fascismo de noartri, il social che oscura i seni ma non rimuove post omofobi e minacce di morte l’ha fatto ancora. Questa volta ha censurato l’articolo scritto con RedBavon e Cuoreruotante sulla Commedia Sexy perché “contiene evidenti contenuti pornografici”. Avevo pubblicato il documento su Morelli e anche quello è stato cancellato per le medesime inemendabili ragioni. Ora tutto si può imputare allo psichiatra, ma non che abbia la faccia da culo. Quel social è un’accozzaglia di rigurgiti intestinali, tollerati fino a quando non esprimono un’idea; le fotografie sono la sottana dietro alla quale si nasconde una censura che non ha il coraggio per dichiararsi tale. Perché di quello si tratta. E per quanto riguarda il nudo: non ho mai capito il criterio col quale la comunità dei neuroassenti discrimini le immagini. L’esposizione della carne non manca, pur ritagliata in alcune parti. Il seno è tollerato, il capezzolo no. Il fondoschiena si può esporre; a quanto pare non ha una definizione oscena e non disturba il comune sentire. E’ interessante questa attenzione al ritaglio da macelleria; per metonimia la parte prende a significare il tutto e il corpo sezionato si presenta come il simulacro di significati che non ha. A vederla così sembra che l’interesse pornografico vesta il corpo piuttosto che spogliarlo con un abito di contenuti che ha la consistenza e la realtà dei fantasmi che affollano una mente malata.

Non c’è che un modo per ricostruire un minimo di diritto e se non li tocchi nel portafoglio questi non capiscono: EVITARE DI PAGARE LE INSERZIONI A FACEBOOK. (Che oltrettutto servono quanto una scatola di preservativi in un ospizio di centenari*.) L’azienda americana non è un social, ma un contenitore di avventori a cui il ZuckerMastrota della comunicazione propone tra i ciaone e le foto dell’amatriciana pentole e coperchi. Se gli articoli vengono generosamente ricondivisi, Facebook al di là dei contenuti li cancella perché a quel punto bisogna pagare (ti condividono? Dacce e sordi, che si capisce meglio); se i post (li chiama così con un neologismo di dubbio gusto) sono al di là della media intellettuale bovina blocca l’account. Di calcio puoi parlare, un’idea non la devi proporre (altrimenti è appunto pòrne.) Non ho mai postato un nudo e mi contestano infatti la pornografia. Questa volta è toccata a me, ma è una cosa che riguarda tutti; e se oggi censurano il mio pensiero domani toccherà al vostro.

[*A breve il mio articolo sull’inutilità delle inserzioni a pagamento su Facebook]

Seguono i commenti di Redbavon e Cuoreruotante.

Santissimo Zuckerberg! Scusa la volgarità!

“Scusa la volgarità? E perché? “
“Quello ogni cosa è peccato! È capace, vede il punto esclamativo … cos’è ‘sta cosa; l’uomo con il puntino sotto, è peccato, noi ci mettiamo con le spalle al sicuro. Scusa le volgarità…”
(cit. dalla lettera a Savonarola di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”)

di RedBavon

La censura di Facebook si è abbattuta sulla bacheca di Giancarlo e ha eliminato il post che indirizzava all’insano contenuto pubblicato in terra di WordPress, frutto della spremitura di tastiere di Cuoreruotante, Giancarlo e me. Motivazione: “contenuto pornografico”.

La motivazione fa ridere per almeno tre ragioni:

  1. Non è un articolo ma un link al post su WordPress e le righe di presentazione scritte da Giancarlo sono tutto fuorché “pornografiche”. Abbiamo le prove: l’immagine del post di Giancarlo è sopravvissuta nella mia bacheca. (NdA: Giancà due sono le cose: hai una “reputation” sotto lo sporco delle suole delle scarpe oppure, come direbbe il Marchese del Grillo, io non sono “un cazzo”.).
  2. La commedia sexy all’italiana è classificata come sotto-genere della commedia all’italiana e non nel genere “hardcore” o “XXX. Solo per adulti”.
  3. Non è necessario nemmeno scomodare il gotha della critica cinematografica, ma è sufficiente avere visto qualche film per capire che qualche tetta e culo al vento non fanno “pornografia”: basta fare una passeggiata sulla battigia d’estate, assistere in TV a un qualsiasi show di varietà o passare davanti a un cartellone pubblicitario.

Dall’autorevole Treccani la definizione di “pornografia”: trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, video ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.

Se ne desume che lo scultorio posteriore della Cassini o il giunonico seno della Fenech siano ritenuti dai moderatori di Facebook come “osceni” e che lo scopo del nostro articolo fosse di “stimolare eroticamente il lettore.”.

Chiunque abbia letto anche solo le righe di Cuoreruotante, che apre il trittico di contributi, può comprendere che il moderatore, fan di Tomas de Torquemada, è fuori come una fioriera sul balcone  del decimo piano oppure ha molti più problemi di noi tre con la lingua di Dante.

Gli altri due contributi sono scritti da due autori maschi e, dato il tema, il moderatore potrebbe attendersi, come minimo sindacale, almeno della “pruderie”: a parte un lessico più libertino e qualche fotogramma che esalta le decantate doti delle attrici, si tratta di un tributo a un genere che ha fatto storia nel nostro cinema e, stilisticamente, è un divertissement (il mio) e un piccolo saggio (quello di Giancarlo).

Con i suoi due miliardi di utenti (fonte Ansa.it 28 giugno 2017), è chiaro che Facebook  è di fronte a una sfida senza precedenti e, comunque, di portata titanica. La società di Mark Zuckerberg, quasi senza accorgersene e nonostante una folta schiera di detrattori e concorrenti, è diventata tra i messa media l’organizzazione più grande e a più ampia diffusione nel mondo.

Due miliardi di individui compresi nell’ampio spettro di varia umanità anche avariata con le loro capacità di intrattenere, informare, emozionare, meravigliare, rattristare, disgustare, annoiare, terrorizzare.

Si stima che il Community Operations Team, la squadra di moderatori di Facebook, forte di 4.500 operatori, per lo più sotto pagati (leggi Underpaid and overburdened: the life of a Facebook moderator – The Guardian, 25 maggio 2017), deve prendere visione di oltre 100 milioni di contenuti ogni mese; ciò significa che ogni moderatore ha mediamente un carico giornaliero di 741 post e, calcolando 8 ore lavorative, ha meno di un minuto per singolo contenuto. In questo minuto scarso deve farsi un’idea e sentenziare sulla conformità ai “Community Standards”, ovvero le regole auto-definite dalla società.

Mark Zuckerberg ha dichiarato che intende rafforzare il Community Operations Team con altre 3.000 risorse; applicando lo stesso calcolo a un numero di contenuti costante (in realtà sono in aumento vista la tendenza alla crescita di nuovi iscritti), il moderatore avrebbe finalmente poco più di minuto per esaminare un singolo contenuto. A leggere certe esternazioni di politici italiani in un minuto io ho problemi a capirli nel loro italiano, che quando va bene è in “politichese”. Di sicuro non ho le caratteristiche adatte per candidarmi a uno dei tremila nuovi posti di lavoro per il Community Operations Team.

La prima reazione quando Giancarlo mi ha comunicato della censura del nostro post non è stata esattamente compita, mi sono lasciato andare a strali dall‘educato “bacchettoni” al – Parental advisory. Explicit Content – “cazzoni“. Interloquire con chi ha deciso di censurare è impossibile perché la piattaforma è “social” fino a un certo punto; diventa “asociale” se vuoi rivolgerti alla società che la amministra. Mi sovviene nuovamente la famosa frase del Marchese del Grillo: “Ah… mi dispiace. Ma io so’ io… e voi non siete un cazzo!“.

Facebook non ha politiche trasparenti, sopratutto nell’applicazione. La prova è nei numerosi e grossolani errori in sono incorsi.

Gli abbagli clamorosi nell’applicazione della censura per i soli contenuti “sessualmente espliciti” si sprecano.

Lo scorso marzo Facebook blocca una pubblicità. Se il moderatore avesse avuto un po‘ più di tempo si sarebbe accorto che la pubblicità era una collezione di opere d’arte e che l’immagine ritenuta offensiva fosse il dipinto “Women Lovers” di Charles Blackman. Giudicate voi l‘”oscenità”:

02_Women Lovers by Charles Blackman (1)
Women Lovers

A settembre dell’anno scorso la toppa più clamorosa:

una delle foto più iconiche mai scattate, nota come “Napalm girl”, che valse il premio Pulitzer al fotografo, Nick Ut, cade sotto la sciagurata mannaia della censura Facebook. Kim Phuk, la bimba all’epoca ritratta nella foto, fece sapere che era rattristata da tale notizia. La foto viene ripristinata dopo la prevedibile e legittima gogna mediatica. Una figura barbina per Facebook tanto che Zuckerberg cita tale macroscopico errore nel suo discorso-manifesto “Building Global Community” pubblicato a febbraio, ne trae spunto per dedicare un capitolo intero e circa un migliaio di parole sul tema “Inclusive Community”.

Zuckerberg è ancora lì sul suo dorato piedistallo, il post citato nel momento in cui scrivo “piace” a 100.597 utenti, ha 14.940 condivisioni e conta 7.000 commenti.

Ho i miei dubbi che il moderatore che ha censurato “Napalm girl” lavori ancora per Facebook.

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Napalm girl

Secondo Zuckerberg, Facebook sarà un social network con sempre maggiore enfasi sui rapporti umani, promuovendone le interconnessioni. Tale dichiarazione è stridente, se non contraddittoria, con quanto invece succede ogni giorno sulla piattaforma: linguaggio violento, discriminatorio, cyber-bullismo, un campionario male assortito di crudeltà, frustrazione e miseria (dis)umana.

Al di là del linguaggio violento (il pistolotto sull’ “Online Disinhibition Effect” ve lo tiro un’altra volta), la vera questione è se gli utenti siano in sintonia con l’”ambiente” in cui interagiscono, se si sentano a proprio agio nel perimetro fissato dalle regole auto-definite dalla società, dichiarate in modo generico e applicate, come da esempi riportati decisamente più famosi del nostro, con una buona dose di arbitrarietà.

I sacrosanti e tanto cari principi di libertà di pensiero ed espressione su cui Internet è fondata vengono lanciati fuori dalla finestra quando non coincidono con gli interessi del “business”.

La censura è già un’espressione di controllo su una società che è reputata non in grado di auto-selezionare i contenuti adatti e pertanto ha bisogno di un organo di controllo super partes. E sappiamo quanto “super partes” sia vuoto di significato quando vi sono altissimi interessi economici e politici in gioco. Ogni riferimento all'”idolatria del denaro”(cit. Papa Francesco) del capitalismo selvaggio nonché alla censura fascista, nazista, comunista e di qualsiasi regime totalitario odierno è puramente voluto.

Nella fattispecie, i rischi di una censura applicata da un controllo privato ad opera di una società multinazionale sono già sotto gli occhi del cittadino, anche non utente social network: si pensi a quanto è stato riportato sull’influenza delle “fake news” durante la recente campagna elettorale statunitense e delle cosiddette “filter bubble”, cioè il tracciamento del comportamento online dell’utente con lo scopo di offrire contenuti coerenti con le sue preferenze.

Nessuno conosce gli algoritmi e le esatte politiche di Facebook (ma neanche di Google): non temo il rischio d’imbattermi in un contenuto non adatto se non addirittura “osceno”, perché così – fattane esperienza – la prossima volta saprò evitarlo. Ciò che temo è che non saprò mai ciò che è stato cancellato arbitrariamente da Facebook o da Google e considerato “non adatto” per me.

Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.

Se i moderatori di Facebook continuano in questa applicazione arbitraria di regole auto-definite dalla multinazionale di cui sono dipendenti, il rischio è che diventino dei moderni inquisitori.

È inutile negarlo: “Facebook is the king of the social media” (cit. Forbes, 23 marzo 2017). Facebook deve perciò ammettere che gioca un ruolo importantissimo per come decine di milioni di persone vedono il mondo intorno, per come comunicano. Pertanto, è responsabilità di Facebook attuare politiche sempre più trasparenti, con l’obiettivo di specificare il “perché” e il “come” prendono le decisioni se un contenuto è da cancellare e non deve essere visto da altre persone.

L’attuazione di linee guida dettagliate e trasparenti è anche un modo per l’utente per capire il proprio “perimetro” e dove ha sbagliato se il suo contenuto è stato eliminato. Nel nostro piccolo caso, l’evidenza è che la commedia sexy all’italiana e ciò che abbiamo scritto non è un contenuto né “sessualmente offensivo” né tantomeno “osceno”. Perché allora è stato eliminato?

È anche vero che se l’utente conoscesse nel dettaglio le “regole del gioco” potrebbe decidere di non essere più parte di quella “comunità” perché non le condivide e non si sente a proprio agio. Ciò chiaramente stride contro la carta-obiettivo che Zuckerberg ha estratto dal mazzo: “Conquista le due Americhe, Africa, Asia, Europa e un quinto continente a tua scelta”

Firmato:

Tre persone, tre personcine, noi siamo tre personcine per bene che non farebbero male nemmeno a una mosca…

Caro Facebook …

Di Cuoreruotante

Sono Cuoreruotante. L’articolo che avete ingiustamente censurato porta anche la mia firma. Mi metto per un attimo nei panni di una persona ignorante, leggasi “colei che ignora”, e, cerco, sforzandomi, anche da ignorante, di estrapolare qualcosa di pornografico nell’articolo che abbiamo scritto. Non ci riesco. Abbasso l’asticella delle mie pretese, ancora nulla di vagamente pornografico. Mi ricordo di essere ignorante, allora vado a cercare il significato della parola “pornografia”. Da Wikipedia: La pornografia (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento” e quindi letteralmente “scrivere riguardo” o “disegnare” prostitute) è la raffigurazione esplicita di soggetti erotici e sessuali in genere ritenuti osceni ed effettuata in diverse forme: letteraria, pittorica, cinematografica e fotografica. Bene, ho capito e rileggo. Niente, non abbiamo scritto di prostitute o prostituzione, di atti osceni o indecenti.
Abbiamo dato risalto, con parole semplici e forbite, ad un genere di film prettamente comico, ma ad alto contenuto culturale. Non ci sono termini volgari, immorali o, vagamente, riconducibili ad essi.
Esistono gruppi su Facebook che inneggiano realmente alla prostituzione, che offendono (eufemismo) donne, bambini e chi non la pensa come loro. Trovo ingiustificato il vostro comportamento con la censura dell’articolo e il blocco dell’account di Giancarlo Buonofiglio. Vi invito a spiegarmelo, vi ricordo che io sono ignorante. Grazie

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Classe mista di commedia sexy all’italiana

Due blogger infoiati e una gentil donzella a discorrere di film che hanno fatto la fortuna degli oculisti di tutta Italia… (Ogni refuso è puramente dovuto a decimi mancanti e ostinazione a non portare gli occhiali). Con Cuoreruotante, RedBavon, G.Buonofiglio.

PARTE PRIMA

Il ruolo della donna nella commedia sexy all’italiana

di Cuoreruotante

Mi è stato chiesto, senza alcuna forzatura, di scrivere un articolo insieme ai due mostri sacri di WordPress. Ovviamente ho prontamente rifiutato, ma il mio dissenso è stato accolto con dispiacere, così non mi sono potuta esimere nell’aiutarli. Aiutare loro? Questo sì che è paradossale. Nella fattispecie l’argomento non è propriamente nelle mie corde (a differenza dei due fetenti), così mi sono documentata… non leggendo, ma guardando.

Ho acceso il computer, digitato i titoli dei film che mi sono stati suggeriti di guardare, preso una confezione di pop corn e una lattina coca cola  e, comodamente sdraiata, ho visto:

– La patata bollente, 1979, su Wikipedia la trama (Wikipedia)

– Spaghetti a mezzanotte, 1981 (Wikipedia)

– Rag. Arturo De Fanti, bancario precario, 1980 (Wikipedia)

Insieme ad altri spezzoni di pellicole simili su YouTube. Quello che leggerete di seguito è il mio pensiero, non tanto sul genere di film perché quello è materia loro, sul ruolo avuto dalla donna nelle commedie sexy all’italiana.

Mi sono chiesta, prima di tutto, come potessi fare per “entrare nella parte” , allora, a giorni alterni, sotto lo sguardo disorientato dei miei, ho indossato le parigine (tipiche calze autoreggenti moderne che, personalmente,  amo tantissimo), ho aggiunto il Babydoll (che uso esclusivamente d’estate, maquandomai), mi sono “coperta” con la classica vestaglia trasparente fatta di pizzi che ognuna di noi ha nell’armadio (ce l’avete, vero?) e per ultimo mi sono fatta fare la permanente (ai capelli eh) trasformandomi così nella brutta copia di Edwige Fenech, di Gloria Guida e di Barbara Bouchet,e cercando, tra  ammiccamenti e docce sexy, alternando candore e malizia, di diventare quella femme fatale che tanto faceva, e fa, sognare gli uomini e i ragazzi da quel periodo fino ai giorni nostri.

Quello che principalmente mi è saltato all’occhio (languido) è che il personaggio femminile non è lo stereotipo di una figura oca e promiscua, con una parte inferiore e marginale all’interno della scena, ma riveste ruoli e funzioni ben costruiti e presenti nella trama non per evidenziare la virilità maschile, impersonificata da uomini per lo più bruttini (perché si trascurano),  ma per supportarli, amarli e prendersene cura.

Una donna con cultura, determinata, disinvolta, appassionata, per lo più fedele e provocante, maliziosa, fintamente sciocca, velatamente vestita, dispettosa a piacimento, mai completamente estranea alla scena anche se potrebbe sembrare il contrario. Intanto che l’uomo si perde nel guardarla con le autoreggenti, in una vasca da bagno ricoperta a metà di schiuma, mentre sale una scala con il gonnellino, lentamente, scalino dopo scalino, consapevole del suo sguardo, lei è padrona e può, con un semplice battito di ciglia, fargli fare quello che vuole. Perché è lei che muove i fili, che si avvicina e che si allontana, spudorata e ritrosa, sfacciatamente impudica, ma con quel sorriso che, come avviene sempre a dispetto degli anni, dei luoghi e delle situazioni, ti rigira come un calzino senza che neanche tu te ne accorga.

E cosi vediamo l’insegnante, la dottoressa, la poliziotta, la liceale che diventano il perno centrale delle peripezie che vengono raccontate nella scena, alle quali viene riservata  una sessualità che non è celata, ma neanche accentuata, come può essere un vedo e non vedo in un rapporto sessuale  appena intravisto che intriga di più di uno consumato a mo’ di ginnastica a favore di telecamera.

Tutto questo costruito in maniera magistrale, con la figura femminile che non è oggetto del desiderio ma soggetto in primo piano, non come nei cinepanettoni che ci propinano ogni anno sotto le feste, che non fanno ridere, non appassionano, non trasmettono nulla.

PARTE SECONDA

“È morta Cassini!” “Chi Nadia?” “No, la sonda”

di RedBavon

Questo lo scambio al fulmicotone avvenuto durante una pausa pranzo tra due miei amici. L’amico più giovane ha letto sul monitor del PC della scomparsa del segnale della sonda Cassini mentre discendeva nell’atmosfera di Saturno; l’altro amico (e anche io) abbiamo associato “Cassini” alla nota attrice che – inutile fare giri di parole – deve la sua popolarità al suo posteriore, tanto che venne definito all’epoca come “il più bello del mondo”.

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Bella, ma ingenua, che non sa di essere così bella, tuttavia capace di inaspettata furbizia per manovrare gli uomini come più le aggrada. I registi decidono di farle interpretare questo cliché per quasi tutta la carriera di attrice.

Daltronde di cliché è fatta la commedia sexy all’italiana, sottogenere della più impegnata commedia all’italiana.

Una trama vera e propria non c’è, soprattutto quando viene scelta una struttura a brevi episodi come nel primo film in cui ha recitato la Cassini, Mazzabubù… quante corna stanno quaggiù (1971).

Altri contesti come ospedali e scuole funzionano come contenitore di barzellette, cornificazioni a go-go, personaggi perennemente arrapati, donne dalla bellezza prorompente, gag scoreggione e irriverenti; contenutisticamente irrilevante, l’intreccio è assente e lascia il passo a un intrattenimento che oscilla costantemente tra l’indelicatezza e il limite della decenza, almeno quella “dichiarata”, non quella realmente sentita dalla società dell’epoca.

Alla luce di quanto oggi si vede in televisione o è così facilmente accessibile sul web, i seni e i culi in mostra nella commedia sexy all’italiana non possono essere etichettati come “indecenti”. Si tratta, infatti, di film che – per la maggiore parte – possono ancora essere visti sorridendo, come qualche decina di anni fa al cinema.

L’esposizione di “cotanta mercanzia” femminile è per certi versi “sovversivo” per l’epoca; gli eventi e i personaggi si muovono secondo dei cliché consolidati, ma le scene scollacciate e sboccate rompono le convenzioni sia sessuali sia del “bon ton”.

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Non siamo di fronte a pellicole impegnate o di satira, ma tale “stimolazione sessuale” è presente per farsi beffe e ridere delle debolezze e fobie che l’essere umano manifesta nel vivere la sua sessualità. L’uomo, il “maschio” degli anni Settanta, in una società all’inizio di un processo di emancipazione femminile tuttora incompiuto, ne viene fuori con le ossa rotte.

Nel cast di molti film spuntano nomi di attori e attrici di certa caratura: Carlo Giuffrè, Sylva Koscina, Silvana Pampanini, Luciano Salce, Giancarlo Giannini, per citarne alcuni. Insomma, la commedia sexy all’italiana non è soltanto un divertissement edonistico o pecoreccio, ma è un fenomeno interessante anche se non lascia certamente nel Cinema l’impronta come pellicole del neo-realismo o di certa commedia all’italiana.

Senza comunque girarci intorno, per noi ragazzini a quei tempi e nell’immaginario collettivo l’essenza della commedia sexy all’italiana è: il culo di Nadia Cassini, i seni della Fenech, le mutandine di Gloria Guida liceale. Un vero “cult” per segaioli!

C’è poco da aggiungere o ricamarci su: quei perennemente arrapati Lino Banfi, Alvaro Vitali e Renzo Montagnani siamo noi ragazzini.

Se prendete Nadia Cassini, la mandate a scuola come insegnante di “dance” in mezzo a un gruppo di studenti, corpo docente e non docente assatanati, le strizzate il corpo in un body striminzito e attillato, il risultato può essere soltanto uno: il culo di Nadia Cassini all’ennesima potenza e testosterone a manetta!

Questo succede nel 1979 in L’insegnante balla… con tutta la classe, il primo film in cui la Cassini ha il ruolo della protagonista.

Stesso effetto accade se prendete la giovanissima Gloria Guida e le fate interpretare il ruolo dell’adolescente irrequieta che non si sente compresa dai suoi genitori: la madre ha un amante, il padre è un infedele patentato. Sfrontata e smaliziata, si solleva la gonna e mostra cosce e mutandine al professore di italiano, bionda, viso d’angelo, forme tornite, candore e malizia, è la ragazza più desiderata della scuola. Era il 1975 nel film La liceale.

L’attrice in un’intervista dichiarò: “[…]Mi si vede attraverso il buco della serratura, sotto la doccia, in bagno. Non è colpa mia se anche nel cinema ci sono i guardoni.[…]” (cit. “99 donne. Stelle e stelline del cinema italiano”,1999).

L’attrice può anche etichettare spregiativamente gli spettatori, che le diedero notorietà e soldi, ma non si può negare l’evidenza: il sedere della Cassini, i seni della Fenech, le mutandine della Guida bucano lo schermo e sono i protagonisti assoluti della commedia sexy all’italiana, che non viene ricordata per le trame o le gag esilaranti, ma per l’innalzamento improvviso dei livelli di testosterone e conseguenti problemi comportamentali: medio/gravi sbalzi di umore, senso perenne di irritazione non motivata, senso di potere non giustificato; offuscata visione generale e basso valore di buonsenso.

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Il continuo gioco del “vedo-non vedo” montano nello spettatore una tensione al pari di un thriller realizzato a mestiere. L’esposizione della nudità delle forme femminili assume un potere liberatorio.

Le forme femminili esposte, limitate ai seni e ai culi, con una certa specializzazione dei “ruoli” (la Cassini il posteriore, la Fenech i seni), sono parzialmente occultate da vestiario minimo, serrature o tende. L’immaginazione dello spettatore deve fare gli straordinari, il film è nelle nostre teste e ognuno si crea una “fantasia” diversa…fino a quando non viene mostrata la nudità nella sua interezza e bellezza!

Il culo della Cassini ha anche poteri rigeneratori, quasi miracolosi.

In L’infermiera nella corsia dei militari (1979), in veste d’infermiera (ma in realtà ha un altro scopo), la Cassini deambula con effetti “rivitalizzanti” sui pazienti per le corsie di una clinica psichiatrica per militari, cioè dei pazzi che si credono dei famosi condottieri. In realtà, la Cassini è una cantante che si finge infermiera ed è alla ricerca di quadri preziosi nascosti – non si sa per quale motivo – nella clinica.

Il film è il trito e ritrito assortimento di gag grossolane, non esattamente divertenti, ma meno noioso di quanto ci si possa aspettare.

La parte peggiore è quando la Cassini canta “Go out and dance”. L’attrice non ha mai  nascosto di avere aspirazioni di ballerina e cantante, la recitazione non è una sua dote, tanto che l’italiano non lo parla bene e ha conservato sempre un accento comicamente americano (è nata a Woodstock nel 1949). La terrificante “Go out and dance” è contenuta del suo LP, pubblicato lo stesso anno sotto etichetta CBS, Encounters Of A Loving Kind. Nel video potete rendervi conto che la canzone è uno strazio nel suo genere, la “disco dance”, e alla Cassini manca un elemento essenziale: la voce.

 https://youtu.be/dvsP-OjY8jk

La parte migliore del film è l’abilità della Cassini di perdere costantemente i propri vestiti e lo spettatore non attende altro da lei: il sodo posteriore.

Nadia Cassini, Edwige Fenech e Gloria Guida sono indiscutibilmente le protagoniste della commedia sexy all’italiana. Dal punto di vista fisico sono differenti: la Fenech ha un seno prosperoso e voluttuoso, la Guida è una sorta di Lolita petulante e a tratti spocchiosa, La Cassini ha un sedere sodo e arroccato in un corpo flessuoso. Ciò che accomuna queste tre attrici è l’abilità di ritrovarsi in situazioni in cui finiscono per perdere immancabilmente i propri vestiti e di mandare ai matti tutti gli uomini in un turbinio ormonale e di lussuria.

La commedia sexy all’italiana è concentrata in questo semplice ma sempre vincente “particolare”.

PARTE TERZA

Corno di bue, latte scremeto, proteggi questa casa dall’Innomineto

di Giancarlo Buonofiglio

“Capdicazz”, il titolo del mio contributo doveva essere questo; l’espressione la conosciamo e non ha bisogno di commenti. Ma c’è una presenza femminile, Cuoreruotante, e un minimo di eleganza è richiesta; siamo pur sempre un trio, come i Ricchi e Poveri e un po’ di contegno bisogna tenerlo. Tuttavia l’argomento invita alla disinvoltura e qualche oscenità mi è scivolata; come dice Pasquale Baudaffi in Vieni avanti cretino, potrò insomma apparire sguaiato, ma laido no: a me non me lo può dire, perché io vado a messa ogni domenica mattina, anche se lei si legge l’Osservatore Romano!

Nell’articolo con RedBavon e Cuore si parla della commedia sexy degli anni ’70 e vuol dire liceali, dottoresse, supplenti, insegnanti, poliziotte; docce, seni e culi (la parola natica non è appropriata a un genere che qualcuno ha definito pecoreccio) spiati dal buco della serratura. In quegli anni dopo Pasolini (Decameron, 1971) si allenta la morsa della censura e il cinema italiano represso da una cattiva legge prima ancora che bigotto scopre un sesso leggero e ironico, ma mai morboso o pornografico. La pornografia è un’altra cosa: i giornalisti italiani sono pornografi, le tette della Fenech celebrano l’inno alla fertilità come quelle delle Venere di Willendorf (però più belle).

Veniamo ai film.

Il genere sexy comincia con Mariano Laurenti, quando il regista prende a raccontare in maniera marcatamente eversiva (con Quel gran pezzo della Ubalda e La bella Antonia, prima monica poi dimonia) desideri e comportamenti degli italiani, pur cautamente filtrati dall’ambientazione medievale. Qualcuno storceva il naso, ma tanti riempivano le sale cinematografiche; a Milano ad esempio non si contavano i cinema e a pensarci oggi un po’ di commozione viene. Il Paese non è mai stato narrato con tanto disincanto come in queste pellicole spregiudicate (Pasolini a parte, che era la coscienza critica popolare e dunque un’altra cosa). Fotogramma per fotogramma veniva (e viene) fuori l’immagine di un’Italia contraddittoria e paradossale, fatta di brava gente ma anche di mascalzoni, cattolica ma solo la domenica; comunista con la proprietà altrui, altrimenti sfrontata con la propria, laboriosa quando capita e se non capita è comunque meglio, sfaccendata, lenta nelle istituzioni ma veloce sulle strade, addormentata eppure con l’occhio vigile sulle cose perché c’è sempre uno pronto a fregargliele, fedele tra le mura domestiche ma in coda dalle prostitute, moralista e pornofila a un tempo; arraffona quando può e se non può cambia casacca e partito, pronta a scendere in piazza se però ha la sicurezza di tornare a casa per cena. Pur con qualche interessante cambiamento dovuto anche a questi improbabili racconti goliardici che sono entrati nell’immaginario popolare, l’Italia sembra sempre la stessa, sessuomane e sessofobica ad un tempo, chiusa in casa a spiare la vita dal buco della serratura.

Registi e sceneggiatori di calibro, con una connotazione dal principio boccaccesca e a partire da Giovannona Coscialunga finalmente ambientata nel tempo attuale, hanno raccontato con il sorriso quanto stava avvenendo nella società. Il ’68 era appena passato e se l’immaginazione andava al potere, alla donna e al corpo femminile non più segregato tra le mura domestiche subentrava quello della femmina emancipata, disposta al piacere quanto quello maschile: noi abbiamo gli stimoli della carne, mentre loro hanno gli stimoli del pesce ! (come si sentenzia in L’insegnante viene a casa).

Un corpo che era comunque letterario e romanzato: più che di sublimazione è corretto parlare di detonazione del desiderio, contestualizzato in un ordine estetico e mai intenzionalmente sociologico. Lo stesso discorso vale per la lingua, che assorbe le varie contaminazioni: mi spettano sei ore di riposo; allora siediti e non ci rompere la minchia; questo suo modo di esprimersi mi ricorda Kafka prima maniera. Il corpo della Fenech, della Bouchet, di Gloria Guida, della Rizzoli, di Nadia Cassini e Lilli Carati veniva erotizzato ma non era mai osceno, rivestito cioè di un significato che non ha; svincolato semmai dall’ideologia che trasforma il piacere in un dovere sociale e l’erezione nella metafora di una società robusta e sana (dove l’impotenza rappresenta piuttosto la paralisi politica e sociale). Per Pasolini (è doveroso ricordarlo) i maschi fino ad allora erano sconvolti da un modello sessuale che obbligava alla disinvoltura. Ma nelle commedie sexy di Martino, Tarantini, Cicero e gli altri i ruoli in qualche modo si ribaltano; il messaggio era dichiaratamente reazionario (gli studenti più che politicamente impegnati erano sfaccendati e dediti all’onanismo (pippe, come le chiamava Montagnani): nella mia scuola … se non rigate dritti vi spezzo la quinta vertebra della spina dorsale; le istituzioni barbaramente svilite: la piaga sociale della disoccupazione giovanile, ma pure gli adulti che non fanno un cazzo; l’omofobia solleticata: te sì che se n’omo, no tua sorella!) eppure come accade nella narrativa l’intenzione ha finito per trasformarsi in altro adeguandosi al comune sentire.

Negli stessi anni di piombo questi film venivano assorbiti senza imbarazzo; e così non poteva non essere da parte di una generazione che faceva cose e incontrava gente. La conservazione ha ceduto il passo prima che all’erotismo a una disambiguazione linguistica nella quale il corpo non è più il soggetto che gode, ma l’oggetto di un piacere che si soddisfa nel racconto più che nel godimento stesso. Oltre che la metafora del rapporto sessuale, il sesso diventava la metafora del rapporto tra classi sociali. Steno nella Patata bollente (un film di rara intelligenza che tratta di politica e omosessualità) fa dire al Gandhi (Pozzetto nel ruolo dell’operaio ideologizzato e al principio omofobo): Senti ti ho portato un grappino perché ho pensato che la camomilla è una roba da culi. Nel potere c’è sempre qualcosa di feroce, stimola e nobilita la violenza sui ceti sociali più deboli; i film neorealisti che hanno preceduto Monicelli, Risi (Sessomatto), Steno (La patata bollente), Comencini (Lo scopone scientifico), Scola (Brutti, sporchi e cattivi) fino alla commedia pecoreccia lo raccontavano bene; l’anarchia degli oppressi è invece disperata, primordiale, ma soprattutto spontanea. Libera dai tegumenti culturali, come appunto accade in queste esilaranti cronache surreali. Pozzetto contratta l’acquisto di un’auto e non avendo di che pagarla sollecita il concessionario: vuole approfittare del mio corpo? (Zucchero, miele e peperoncino). Neanche Breton è arrivato a tanto. Il neorealismo aveva denunciato le aberrazioni del potere; dal ’68 in poi le incrostazioni politiche e culturali si andavano però sgretolando più per una naturale disposizione al piacere (il corpo femminile prima vincolato ai cliché domestici, diventava libero e sfrontato, la giovinezza distesa e disincantata, le istituzioni ridicolizzate, la famiglia ridimensionata) che per una autentico atto di coscienza rivoluzionaria. Lo slogan capdicazz si sostituiva in qualche modo all’immaginazione al potere, o meglio nelle fantasie popolari aveva il medesimo contenuto etico e eversivo: mica ti vorrai mangiare tutta questa roba! Oh, ricordati che hai un soprannome da rispettare: Gandhi, il campione del mondo dello sciopero della fame. A me mi sta sulle balle quel soprannome lì! Non potevate chiamarmi Bombolo? (La patata bollente)

E’ Sergio Martino ad aprire la strada alla commedia sexy: nel 1973, col capolavoro Giovannona Coscialunga disonorata con onore. La bella Cocò (Fenech) prostituta ciociara viene disonorata dall’onorevole (Vittorio Caprioli). Seguono quindi i le pellicole di Michele Massimo Tarantini, con la trilogia sulla Poliziotta.

I registi che hanno lasciato il segno:

1) Mariano Laurenti. Laurenti, che aveva già diretto Franco e Ciccio, ha lavorato quasi sempre con gli stessi attori (Alvaro Vitali, Gianfranco D’Angelo, Lino Banfi, Renzo Montagnani, Mario Carotenuto; Gloria Guida, Edwige Fenech, Annamaria Rizzoli, Barbara Bouchet, Lilli Carati, Paola Senatore). Nel 1972 con La bella Antonia, prima monica poi dimonia e Quel gran pezzo della Ubalda, tutta nuda e tutta calda, consacra Edwige Fenech come icona del genere erotico/comico. Classe Mista viene girato nel 1976, con Alfredo Pea, che sarà poi il protagonista de L’Insegnante, diretto da Nando Cicero. Nel 1977 Laurenti affida il ruolo principale femminile a Lilli Carati (lanciata da Michele Massimo Tarantini l’anno precedente in La professoressa di scienze naturali) ne La compagna di banco. Firmerà poi alcuni film con Lino Banfi (L’insegnante va in collegio, 1978; La liceale nella classe dei ripetenti, 1978; La liceale seduce i professori, 1979; L’infermiera di notte, 1979; L’infermiera nella corsia dei militari, 1979; La ripetente fa l’occhietto al preside, 1980; L’onorevole con l’amante sotto il Letto, 1981. Quest’ultimo di livello nettamente superiore.

2) Nando Cicero (porta il suo nome il ciclo della dottoressa e della soldatessa all’interno dei distretti militari). Sua è anche la regia di un film strepitoso Bella, ricca, lieve difetto fisco cerca anima gemella, 1973. Cicero si è spesso servito di attori di rilievo: Giuffrè, Buzzanca, Franca Valeri, Erika Blanc, Rossana Podestà. Nel 1975 dirige L’insegnante e la trilogia militare (La dottoressa del distretto militare, 1976); La soldatessa alla visita militare, 1977; La soldatessa alle grandi manovre, 1978). Nel 1981 gira L’assistente sociale con Nadia Cassini. I film che seguono, W la foca (con Lory del Santo) e Paulo Roberto Cotechino, centravanti di sfondamento sono di un livello marcatamente basso.

3) Miche Massimo Tarantini. dirige il ciclo della Poliziotta (sostituendo la Melato con la Fenech). L’insegnante al mare con tutta la classe, 1979, con un nutrito numero di attori: Banfi, Vitali, Anna Maria Rizzoli, Francesca Romana Coluzzi. La Poliziotta della Squadra della Buon Costume, 1979, sempre sceneggiato da Milizia e Onorati. L’Insegnante viene a casa (titolo che rimanda a L’insegnante va in collegio, diretto l‘anno prima da Laurenti) con Montagnani. Nel 1980 è alla regia di La moglie in bianco… l’amante al pepe, pellicola esilarante diretta e recitata con rara eleganza. La dottoressa ci sta col colonnello, 1981, con Nadia Cassini e i mediocri La poliziotta a New York, 1981 e La dottoressa preferisce i marinai, 1981.

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4) Sergio Martino. Quello che è forse il miglior film del genere, Giovannona Coscialunga, disonorata con onore, 1973, porta il nome di Martino. Gli attori sono di primo piano: Pippo Franco, Garrone, Caprioli, Ballista; la storia è spassosa, le musiche trascinano e la Fenech che parla ciociaro è di una bellezza museale. In un altro Paese la pellicola avrebbe avuto un successo epocale, ma in Italia la comicità viene considerata un prodotto culturale inferiore. Piace, la guardano, ma nessuno la consacra. Luciano Salce ad esempio ha firmato pellicole molto divertenti, come Il federale, il primo Fantozzi e l’Anatra all’arancia (Vieni avanti cretino rimane e concordo un prodotto invece minore) contrassegnate dalla Critica come serie B. Nel 1976 gira due film di valore: Spogliamoci così senza pudor (sceneggiato da Sandro Continenza e Raimondo Vianello) e 40 Gradi all’ombra del lenzuolo. In Sabato, Domenica e Venerdì, 1979, Martino dirige uno degli episodi (gli altri sono di Pasquale Festa Campanile, Castellano e Moccia). La moglie in vacanza…. L’amante in città, 1980, rimane uno dei film più belli di tutta la filmografia dell’epoca; gli attori sono Banfi, Montagnani, Solenghi, Pippo Santonataso e la Bouchet come protagonista femminile. Se ancora non l’avete visto si trova facilmente in streaming, ne vale davvero la pena. Zucchero miele e peperoncino (1980), Spaghetti a mezzanotte (1981) e Cornetti alla crema (1981), che portano in locandina i nomi (tra gli altri) di Teo Teocoli, Gianni Cavina, Daniele Vargas, Marisa Merlini, Milena Vukotic, sono tra le produzioni più alte del genere. Nei primi anni ‘80 il regista firma alcuni titoli con Gigi e Andrea (Se tutto va bene siamo rovinati e Acapulco, prima spiaggia… a sinistra) di livello però imbarazzante. Altra cosa è Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983), girato con Lino Banfi,  Johnny Dorelli, Paola Borboni, Mario Scaccia, Milena Vukotic, Janet Agren, Gegia, Adriana Russo, Ugo Bologna, Renzo Montagnani, Mario Brega.

In ordine sparso quelli che seguono sono i film (a mio parere) più belli. L’aggettivo però non rende; surreali, con una scrittura fluida e matura, ben recitati, ironici e autoironici, mai volgari. Un magistrale prodotto culturale, esteticamente compiuto nella forma e nei contenuti. Iper/neo/postrealista (come preferite), a volte con una dichiarata matrice ideologica, altre quasi poetica: Essere ciechi e sordi davanti a qualsiasi cosa di diverso non è forse una malattia? (Claudio -M. Ranieri- La patata bollente).

La moglie in bianco l’amante al pepe, Spaghetti a mezzanotte, Occhio malocchio prezzemolo e finocchio, La patata bollente, Ricchi, ricchissimi praticamente in mutande, Cornetti alla crema, Giovannona Coscialunga disonorata con onore, La prima notte del dottor Danieli industriale col complesso, La moglie in vacanza l’amante in città, L’onorevole con l’amante sotto al letto, La soldatessa alle grandi manovre, La vergine, il toro e il capricorno, Sessomatto.

IN BOCCA AL LUPO 

lupo

L’antifrasi “in bocca al lupo” si perde nel tempo, ed è praticamente assente nella favola. Difficile che uno scrittore, per quanto moralmente scoordinato, potesse far pronunciare alla mamma di Cappuccetto Rosso quelle parole, che a tutto richiamano meno che al buon auspicio. Ai bambini è meglio parlare chiaro e con gli adulti è meglio a volte non parlare. La lingua fornisce l’immagine del mondo e le parole delle cose, crea abitudini, relazioni, luoghi comuni. Nei luoghi comuni c’è qualcosa di simile alla verità, ma non la verità; qualcuno però crede a quel che sente e vede e allora cominciano i problemi. Un amico (una carogna, a dire il vero) mi diceva: Sei simpatico come un dito nel culo, ma conosceva la mia propensione al disincanto e un certo gusto per le sfumature semantiche. Ma il rischio c’è e dunque evitiamo. L’assenza d’ironia caratterizza fortemente la favola; la tragedia è sempre presente per quanto edulcorata come “e vissero felici e contenti”. Già i Greci distinguevano l’ironia dall’antifrasi in quanto mancante di una particolare intonazione (choris hypokriseos) che delinea appunto l’intenzione. Ai bambini si insegna a rispondere in un certo modo a una certo stimolo, gli adulti l’hanno già imparato praticando la verosimiglianza più della verità. Non c’è motivo di dire a un bimbo: in culo alla balena ed è pericoloso spingervi un adulto. Il vedere, che eccita la fantasia e produce le immagini appartiene alle categorie grammaticali, lo sanno bene i costruttori di favole. Un politico cacciaballe amava dire che bisogna parlare all’elettorato come a un bambino di cinque anni; credo alludesse al fatto che le storie (le sue e di quelli che l’avevano preceduto) irrigidiscono la lingua tanto da alimentare la credulità popolare. Non per niente i politici (a cui tutto si può contestare tranne la lungimiranza nel profondere una rudimentale grezza visione del mondo) sono generi a parte, generi elementari. Wittgenstein appuntava qualcosa di simile: E’ possibile che esistano uomini privi della facoltà di vedere qualcosa come qualcosa, [questa cosa la] chiamiamo cecità per aspetto; R.F. parte II, pag.280. Secondo un luogo comune se ti tocchi diventi cieco (e chissà se è vero), ma pure le favole hanno contribuito alla presbiopia.


(Da Per me Biancaneve… Tutto quello che non vi dicono sulle favole)

OSTE DELLA MALORA

Si sarà capito, con l’alcol ho un buon rapporto, fa male ma non gli porto rancore. Mi sono impegnato con Red a lasciare una testimonianza di un personaggio della sua saga Batmancito (se non l’avete letta la trovate nel blog, 21 episodi narrati con fantasia tolkieniana e rara eleganza; non sempre le saghe fanno male e la sua è  limpidamente epica) a lui (e a me per indecorosa epatoautobiografia) molto caro, l’Oste. Nell’ultimo episodio il Locandiere è oramai agonizzante, ma Red non si rassegna a lasciarlo andare. Ha chiesto quindi ai blogger che hanno seguito la vicenda un atto di umano raccoglimento (non fiori ma opere di bene), una memoria, qualcosa capace di tenerlo in vita oltre il racconto stesso. E’ il destino dei protagonisti delle narrazioni, se sono ben costruiti vivono di vita propria e non conoscono la parola fine. Personalmente è una parola che detesto; la fine è il punto, il limite, il baratro oltre il quale non c’è che il nulla. Solo un uomo sobrio può concepire che qualcosa finiscal’alcolista per indomita ostinazione manca di quella perversione. I racconti si fanno con le virgole, è la vita a mettere il punto.  Red mi ha aperto la sua web-bettola con il garbo di un signore d’altri tempi, con/versando tra un (neanche tanto immaginario) bicchiere di rosso e l’altro come si fa nelle osterie, mentre il Taverniere riempiva le brocche. L’Oste: bonario, coi mustache alla francese del film Irma la Douce, un po’ di pancia, la calvizie camuffata da un riporto imbarazzante e il grembiule sudicio; complice e mai giudice di un’umanità che versa nel bicchiere i singhiozzi della giornata. Potevo insomma rinunciare a celebrare colui che è amico e compagno nello sconforto, il consulente matrimoniale, psicologo e all’occorrenza avvocato; che trascurando le transaminasi si prende cura delle malinconie con saggezza, qualche volta con misericordia e sempre con il sorriso?

Questi aforismi etilici sono dedicati all’Oste, a Red e alle meravigliose storie che racconta e scrive sul suo blog.

 

oste

 

*L’uomo libero è scandaloso, spesso ubriaco, ha scarsa volontà ma anche tanta determinazione, è incerto e contraddittorio, pornografico a volte ma solo perché nulla ha da nascondere, osceno come quelli che indossano le stesse mutande per quattro giorni, sciatto, poco propenso al dialogo, di carattere e quando c’è è comunque un brutto carattere. Non conosce la vergogna e non ha pudore, sfrontato e genuino tradisce la debolezza solo davanti all’amore. E’ in cerca di purezza e la trova dove è di casa una passione.

*Un ricco e un povero sono seduti al tavolo e sopra ci sono dieci bicchieri di vino. Il ricco ne beve nove e dice al povero: guardati dal vicino che vuole rubarti il tuo.

*Il giudizio nasce dalla sobrietà, richiede una mente lucida e un cuore astemio. Chi giudica è freddo, indifferente, manca di una reale passione per la vita. E spesso è anche male informato.

*Il malinconico è angosciato dal bicchere vuoto, non lo tocca, osserva, non beve e lo lascia là. Manca dello spirito religioso che porta svuotarlo e della fede in qualcuno che comunque glielo riempia. L’empietà dell’astemio ha il tono dell’apostasia, ma anche della disperazione.

*Ci sono quelli che credono alla reincarnazione, alcuni alla trasformazione, altri ancora alla transustanziazione. Per quanto mi riguarda mi fermo alla fermentazione, a un Dio immanente ad alta gradazione. La mia metafisica è tutta qua e scorre nelle vie epatobiliari.

*E’ sufficiente un grado di moralità per mantenersi astemi, ma ci vuole una forte gradazione alcolica per sentirsi liberi.

*Quelli che hanno paura di ubriacarsi sono gli stessi che temono di innamorarsi, di difendere un’dea, di farsi carico di una passione. Sono quelli che dicono “solo un dito” quando qualcuno versa loro del vino. Misurano la vita con quel dito e giusto quello assaggiano.

*Appartengo a quelli che dicono “smetto quando voglio” e poi non vogliono. Ci dovrà pur essere un paradiso esclusivo per queste anime nobili che s’impegnano con una promessa e la mantengono.

*La normalità è un vino scialbo, a basso contenuto alcolico, adulterato e inconstitente al gusto; rimane sulla lingua e si sente nella testa più che altrove. Altra cosa è l’assoluto della follia, che passa dalla bocca e sconvolge il corpo senza alterarne l’equilibrio. Perché un buon vino transita per lo stomaco, ma arriva dolcemente al cuore.

*Mi piacciono le persone che nonostante tutto non finiscono mai di volersi bere.

*Le persone non sono indifferenti o prive di un carattere sociale. Spesso mancano di quella disposizione dello spirito che è il vino: più che aride sono a basso contenuto alcolico.

*Sono fiducioso, il bere trionfa sempre sul male.

*L’astemio è un ateo che ha paura di confrontarsi col silenzio del suo Dio.

*Il mio materialismo ha radici storiche ma non ideologiche, ha le sue ragioni nel vino. E’ un materialismo diabetico. La dialettica è cosa da uomini mansueti e con la glicemia in ordine, a me invece rode proprio il culo.

*La cirrosi non è una malattia, ma un traguardo (citaz.)

LE FLATULENZE DI NONNA

Ieri ho ribloggato sbadatamente l’articolo di GengisJokerBaneKhan. Sbadatamente perché non era voluto; per sopraggiunti limiti di età non posso più discutere di sesso orale. L’argomento mi affascina, intendiamoci, sul piano ovviamente filosofico. Parlare di sesso in maniera autobiografica è una cosa da giovani virgulti e qua quel poco che è sopravvissuto lo dobbiamo oramai al Sildenafil; il rischio è di passare per un adolescente di ritorno, o un vecchio satiro che non si rassegna all’entropia della carne. Ci ho però pensato sopra e ho scritto questa cosa; l’articolo è diviso in tre parti: cose che non puoi più fare in età geriatrica; perché è bello essere anziani; le flatulenze quali ultima sublimazione della sessualità.

vecchio

COSE CHE NON PUOI FARE IN ETA’ GERIATRICA

Gli ostacoli sono di ordine psicologico e somatico; morali no, gli anziani sono infinitamente più licenziosi dei ragazzi. Il Diavolo non li vuole più e allora non rimane che pontificare. Non puoi guardare con interesse una fanciulla o approcciarla come farebbe un giovane, il rischio è che la stessa inveisca contro il vegliardo laido e sporcaccione, esponendolo al diniego e alla riprovazione dei passanti. Vecchio porco, ricoglionito, ha un piede nella fossa ma vuole esumare la mummia dal pannolone, se Renzi non gli dava gli 80 euro era meglio (congiuntivi a parte il senso non cambia). Insomma ci siamo capiti e non è bello. L’anziano non può rincorrere una giovane per strada, l’osteoporosi, l’artrosi, la sciatalgia e spesso l’enuresi non glielo consentono. Qualcuno poi ha l’enfisema, difficile starle al passo. Il bacio diventa complicato con la protesi dentaria e sa anche di Kukindent; le mani causa artrite si serrano ai fianchi come tagliole e ci vuole molta fantasia per assimilarle alle carezze; l’epidermide a pelle di daino non scivola su quella levigata; le resurrezioni sono rare e si fanno sempre più insoddisfacenti, il vecchio prima che a una disfatta si espone al ridicolo: non sa neanche lui se quello che sente nel cuore è amore o uno scompenso atriale. Se è un anziano a dire: mi fai morire, ebbene è meglio prenderlo in parola.

PERCHE’ E’ BELLO (TUTTO SOMMATO) ESSERE ANZIANI

Una ragione si deve pur trovarla per andare avanti, perché ai vecchi rode proprio il culo. Quando qualche neurone sopravvive ancora, vedono bene che mentre loro fanno briscola al circolo degli ottuagenari, i nipoti si accompagnano con ninfette che provocano le rigidità a tutti note. Alla fine il risentimento è abbastanza naturale; vero è che la natura sia diventata impietosa e consente loro di perpetuare il rancore oltre ai limiti fisiologici. Una volta la fine sopraggiungeva prima ancora del deterioramento organico e mentale; le cose sono però cambiate. Malauguratamente o per fortuna, fate voi. L’anziano gioca a bocce o a poppe (come ho sentito dire), dal filosofo Karl Poppe; è un epistemologo per erotica assonanza. Non esce la sera ed è libero di farlo, nessuno gli chiederà mai se sta male, se la ragazza lo ha lasciato, se ha problemi a socializzare. I vecchi stanno a casa e si sa. Guardare i cantieri è uno sport eccitante e travolgente, gli sbarbati non possono capire. Il gusto di dare buoni consigli arriva con l’età e il giudizio (lapidario ed è il caso di dirlo) stimola un rigurgito di piacere: ai miei tempi ! Con quel che lascia intendere la sentenza: non come voi debosciati e drogati; finocchi qualche volta (perché tanto i giovani sono sempre e comunque attratti dalle aberrazioni: e per il vetusto vuol dire tanta droga e poca figa). La pensione, vabbè lasciamo stare, con quella non ci campano e non infierisco. Il privilegio della badante qualcuno però ce l’ha e l’amore al catetere è un’esperienza unica e irripetibile (anagraficamente parlando). Rutto libero e flatulenze varie, il corpo che si decompone espelle tossine aeriformi; rispetto ai giovani gli anziani possono concedersi qualche disinvoltura lasciandosi andare ai piccoli legittimi godimenti del corpo in decadenza. Ma questo è appunto il prossimo argomento, che è anche un caro dolce ricordo di nonna Cecilia. Sorda come una campana, che rombava tranquillamente per casa le commoventi esternazioni. Inconsapevole del fatto che i parenti ci sentivano invece benissimo.

LE FLATULENZE DI NONNA

Nonna scoreggiava. Nella vita o ti scoraggi o scoreggi; c’è un filo diretto tra la visione del mondo e quel che avviene nell’epigastrio; al di là delle diverse profondità che vanno dal pensiero (più in superficie) alle emozioni (che si radicano piuttosto nella paleocorteccia) quello che conta viene concentrato nella pancia. C’è chi trattiene, gli idealisti e i metafisici per intenderci che pongono una barriera intellettuale tra le cose, e chi come nonna (che era fenomenologa prima ancora che materialista) le avvicina senza sovrastrutture linguistiche o formali. Le cose si possono pensare o vivere, nonna di più a quanto pare le fagocitava. Di per sé già la parola comprensione rimanda alle mani e al corpo che afferrando qualcosa conosce; nella fagocitazione c’è qualcosa di ancora più profondo, la masticazione del pensiero che diventa appunto una ruminazione, con quel che ne consegue sul piano fisiologico. Perché nonna ruttava, seppure arrossendo al momento dell’emissione di quella gutturale il cui suono è pur sempre sgradevole. Faceva brup e qualcosa di simile al raglio di un asino, poi si metteva la mano davanti alla bocca (poi, perché le mani non erano sincronizzate e i movimenti si facevano lenti con gli anni) quasi a scusarsi per essersi lasciata andare ai bisogni ineluttabili. Ed è proprio questo il punto, si lasciava andare verso le cose come se Platone (o Agostino) non fosse esistito. Le idee sono pur sempre portate da intellettuali e il suo era uno stomaco contadino abituato al poco in tavola; l’ho vista inorridire davanti a antipasti raffinati ma non sostanziosi. Le idee appunto che mettono fame e non saziano mai. Nonna non aveva quella forma di analità intellettuale, non tratteneva; si limitava alla sospensione del giudizio quando poteva e se proprio non riusciva evocava dall’intimità ciò che aveva assorbito. Anche i pensieri, che non per niente sono fatti di aria. Non c’è più nonna, era un’altra epoché la sua; con poche certezze, nessuna verità, ma capace di avvicinare le cose nella loro superficiale e sensuale profondità.

TWO BEER OR NOT TWO BEER

Questo non è un articolo, non è una raccolta di aforismi, non ha la solidità di un’inchiesta o lo scrupolo della riflessione. A volte le parole escono così, senza pensarci e capita a tutti. A me insolitamente spesso, ma credo dipenda da un eccesso alcolico. Bipolare? Non so. Di sicuro il vino ammorbidisce quella cosa che chiamiamo identità. Diciamo che sono disponibile anche nella versione sobria. Ma vi consiglio fortemente l’altra.

birra

Appartengo a quelli che dicono “smetto quando voglio” e poi non vogliono. Ci dovrà pur essere un paradiso esclusivo per queste anime nobili che s’impegnano con una promessa e la mantengono.

D.SOC/62

Il giudizio nasce dalla sobrietà, richiede una mente lucida e un cuore astemio. Chi giudica è freddo, indifferente, manca di una reale passione per la vita. E spesso è anche male informato.

D.SOC/50

Beviamo come se non ci fosse un domani, questo ha di buono il vino: rende attuale e legittimo quello che non lo è. Il problema è che il domani arriva e le foto rimangono.

D.SOC/51

Il malinconico è angosciato dal bicchiere vuoto, non lo tocca, osserva, non beve e lo lascia là. Manca dello spirito religioso che porta svuotarlo e della fede in qualcuno che comunque glielo riempia. L’empietà dell’astemio ha il tono dell’apostasia, ma anche della disperazione.

D.SOC/52

Ci sono quelli che credono alla reincarnazione, alcuni alla trasformazione, altri ancora alla transustanziazione. Per quanto mi riguarda mi fermo alla fermentazione, a un Dio immanente ad alta gradazione. La mia metafisica è tutta qua e scorre nelle vie epatobiliari.

D.SOC/53

La moderazione che chiamiamo virtù è uno dei nomi con cui temperiamo i bisogni. E’ un fatto estetico e sociale che dà una regola al piacere, misurando il bicchiere, contenendo l’euforia.

D.SOC/55

E’ sufficiente un grado di moralità per mantenersi astemi, ma ci vuole una forte gradazione alcolica per sentirsi liberi.

D.SOC/58

L’alcolista è un borderline; non barcolla, il passo instabile è quello di un uomo che cammina sulla linea che separa la normalità dalla follia. E l’alcolista ha la lucidità di non cadere nella normalità, ma anche la paura di sprofondare nella follia.

D.SOC/59

Il mio materialismo ha radici storiche ma non ideologiche, ha le sue ragioni nel vino. E’ un materialismo diabetico. La dialettica è cosa da uomini mansueti e con la glicemia in ordine, a me invece rode proprio il culo.

D.SOC/60

Quelli che hanno paura di ubriacarsi sono gli stessi che temono di innamorarsi, di difendere un’dea, di farsi carico di una passione. Sono quelli che dicono “solo un dito” quando qualcuno versa loro del vino. Misurano la vita con quel dito e giusto quello assaggiano.

D.SOC/61

Qualcuno sarà seppellito e tornerà polvere, qualcun altro cremato e ridiventerà cenere. Per quel che mi riguarda penso proprio che mi imbottiglieranno.

D.SOC/63

Viviamo in un’epoca contorta, temiamo più l’etilometro che un test di gravidanza.

D.SOC/64

La cirrosi non è una malattia, ma un traguardo. Citaz.

D.SOC/65

Le tre regole della pace: un politico deve nascondere al popolo la verità, ai giornali è richiesto di trascurarla e un uomo non deve mai dire a sua moglie che è ingrassata.

D.SOC/70

La verità è impietosa. La esercitiamo col cinismo e la crudeltà dell’uomo che ha inventato la bilancia.

D.SOC/71

La verità è la virtù dei pazzi, un bisogno dei bambini e una necessità per quelli che soffrono di amnesia.

D.SOC/72

La verità è l’alibi dei bugiardi.

D.SOC/73

La verità è la deformazione degli uomini predisposti alla gastrite.

D.SOC/74

La famiglia è il luogo nel quale un uomo finisce di penare e comincia a brontolare.

D.SOC/79

Un buon padre di famiglia è un uomo con una moglie fedele, figli responsabili, una casa onorata, lo stipendio fisso e che nonostante queste sventure resiste al bisogno di suicidarsi.

D.SOC/80

Un uomo si sposa quando è stanco di trattenere la pancia dentro. E infatti diciamo che è spossato (o che lo abbiamo spossato).

D.SOC/81

E’ amore se quando sei ubriaco ricordi non solo come si chiama, ma l’indirizzo di casa, barcollando fino alla sua porta prima di andare in coma etilico.

D.SOC/84

Mi piacciono le persone che nonostante tutto non finiscono mai di volersi bere.

D.SOC/85

L’astemio è un ateo che ha paura di confrontarsi col silenzio del suo Dio.

D.SOC/90

L’alcol attenua i postumi della sobrietà.

D.SOC/91

Le persone non sono indifferenti o prive di un carattere sociale. Spesso mancano di quella disposizione dello spirito che è il vino: più che aride sono a basso contenuto alcolico.

D.SOC/93

Sono fiducioso, il bere trionfa sempre sul male.

D.SOC/94

Matrimoni e governi durano fin tanto che gli uomini sono ubriachi.

D.SOC/96

Se dovessi diventare come Sgarbi, vi prego, sopprimetemi.

D.SOC/97

Il vino ha la proprietà di farmi vedere belle le persone, amplifica le emozioni addolcendole, rende gradevole il loro cattivo gusto. Il mio spirito sociale (e la mia compassione) funziona fin tanto che sono ubriaco.

D.SOC/98

Vorrei contestare a quelli che mi rimproverano di non servire a niente, che posso comunque essere usato come cattivo esempio.

D.SOC/101

La letargia è il carattere degli uomini troppo qualificati per alzarsi dal letto e interagire con individui che sono sfuggiti per puro caso alla selezione naturale.

D.SOC/104

La civiltà è quella cosa che spinge un uomo mansueto ad abbandonare il letto e lo fa diventare selvaggio nel traffico.

D.SOC/105

Il mio scetticismo è radicale, spinto fino alla letargia; ho lo stato d’animo di uno che si sveglia con il desiderio di darsi alla pazza noia.

D.SOC/113

Contrariamente a quel che si pensa, le idee rivoluzionarie non dipendono da colpi di genio o di testa. Il più delle volte vengono dai colpi di sonno.

D.SOC/115

Un uomo realmente rivoluzionario è quello che ha un sogno e la cattiva intenzione di usarlo.

D.SOC/116

Ma a quelli che si alzano al mattino hanno sequestrato la famiglia?

D.SOC/117

Odio quelli che chiedono: che fai nella vita? Perché, devo fare qualcosa?

D.SOC/118

L’ozio non è un vizio, ma uno stile di vita.

D.SOC/119

Sono un italiano medio, anche io soffro di inerzia. Ma un anno o l’altro cambio vita.

D.SOC/120

Da Gli italiani la rivoluzione la fanno poco e male

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