L’IMPIEGATO ARISTOTELICO

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I funzionari statali sono aristotelici e forse vanno pure oltre. Non si limitano al principio di non contraddizione e di identità, la relazione che dispongono tra il prima e il dopo è più simile al principio di individuazione che a qualcosa interno alla persona o a un corpo che è in continuo divenire e mai interamente definibile, neanche nel nome. Ma col nome ci rendono individui e individuabili, ed è questo che interessa allo Stato. Chiamano generalità la nostra essenza (οὐσία) o carattere anagrafico e noi dobbiamo fornirle quando sono richieste; ma è una qualità vuota di senso perché non ci definisce sostanzialmente e non costituisce quello che siamo, se non di lato; e tuttavia paternità, luogo di nascita e residenza servono a collocarci in uno spazio e nel tempo e tanto basta. Lo Stato idealista (ogni Stato lo è) non riconosce la categoria del singolo e del diverso, la dissolve in un’universalità che precede dando consistenza giuridica al particolare. Che in sostanza vuol dire doveri prima ancora che diritti. La specie o il genere vengono prima dell’individuo e si sostituiscono ai suoi bisogni, anche sui documenti dove quello che realmente siamo caratterizzandoci è alla voce segni particolari. Particolari, come qualcosa di accidentale e marginale, utili però a distinguere nello specifico una persona dall’altra e dunque comunque sostanziali. Giustificano con l’universalità del diritto le infinite articolazioni dei doveri. Lo dico perché ero all’anagrafe comunale e l’impiegato pretendeva le mie generalità; nome, cognome e luogo di nascita per intenderci. Come se in quelle parole ci fosse l’identità o il senso della mia vita. Io ho provato a spiegare che non sono identico, che sono e non sono, che entriamo e non entriamo due volte nello stesso ufficio comunale. Confondeva il nome con l’essenza (τί ᾖν εἶναι), che nel linguaggio aristotelico significa “ciò per cui una certa cosa è quello che è e non un’altra”. La parola essenza indica ciò che determina l’oggetto o l’individuo e corrisponde alla visione ideale della realtà determinata dalle categorie mentali; che a quanto pare non sono particolarmente articolate nei funzionari dello stato. L’impiegato chiedeva di identificarmi col particolare e dunque con quel che c’è di accidentale e contingente in me, ma che contrassegnava come qualcosa di determinante, immutabile, di significativo per distinguermi all’interno della specie o nel gruppo. E meno male che il manipolatore di paradossi sono io, più contraddittorio di così non poteva essere. Voleva l’essenza e cercavo di fargli capire che sono assenza; e questa cosa non l’ho veramente capita, pur non essendo digiuno di filosofia e teologia. Poi mi è venuto in mente Duns Scoto e ho recepito che il burocrate mi stava sostanziando teologicamente, prima che giuricamente o con categorie antropologiche. Il ragionamento sottostante doveva essere più o meno questo: le cose sono uniche e particolari nelle loro caratteristiche individuali e tuttavia hanno una natura condivisa. Piero e Luigi hanno qualcosa in comune che li distingue da tutti gli altri del gruppo, da un cane o una scarpa; ciò che li apparenta è la natura umana. Ma allora perché Piero e Luigi sono diversi se la loro essenza è la medesima e se condividono la stessa forma? Non è per la forma che si distinguono e neppure per la materia, che non è (sempre secondo la definizione aristotelica) “privazione” e “passività”, ma essa stessa è attività e si delinea secondo una specifica individualità. L’ecceità (o haecceitas) propriamente, che è la concreta individuale differenza che permette di distinguere una cosa dall’altra e per la quale ogni essere individuale è unico e originale: “La causa, non della singolarità in genere, ma di questa singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa (haec determinate)”; (D.Scoto, Opus oxoniense, II, distinctio 3, Questioni 2-4).

L’ufficiale allo sportello voleva dotarmi di una carta di identità e con la parola identità intendeva qualcosa che non cambia, di continuativo secondo appunto il prima e il poi, di sostanziale e che non muta nel tempo. Ho provato a contestare, l’identità mi sta stretta; ci ho messo tanto a perderla e che fa, me la ritrova un miope funzionario comunale? Gli ho chiesto piuttosto di appuntare sul documento che sono un essere in transizione, assente più che essente; in divenire se preferiva, incerto, instabile cercando una parola appropriata che fosse assimilabile dal suo stomaco peripatetico. Ma niente, non ha voluto sentire ragioni; non mi aspettavo che avesse letto Eraclito, quello non aveva neanche visto il film “L’attimo fuggente”. Funziona così in questo Paese, invece di leggere il libro i miei connazionali aspettano che esca il film. Ho rinunciato a discutere e alla sua domanda perentoria: “Lei chi è?” non ho potuto che rispondere con nome e cognome e mi sono appunto identificato (nella sostanza vuol dire che mi sono reso identico a me stesso e con quel che si aspettava lo stato per bocca dell’impiegato). Mi ha dato del polemico, ed era inutile spiegargli che la parola polemos richiama a un’armonia profonda, a una radicale e incomprensibile per lui unità dei contrari. Mi sono limitato a farfugliare il Frammento 53 di Eraclito: “Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι …” (“Polemos è padre di tutte le cose…”). Voleva il mio nome, solo quello e nient’altro; come il Diavolo quando chiede l’anima, il resto non gli interessava. Perché l’anima è quella, presente, non diviene e non cambia. E’ la misura del tempo secondo memoria, intelligenza e volontà, come diceva Agostino. Facoltà che rimandano appunto a qualcosa di immobile e che rimane inalterato. Tre vite ma una vita sola, un solo spirito, una sola essenza. La memoria soprattutto in cui risiederebbe (per il funzionario agostiniano) la sostanza di quel che sono e che mi specifica come questo e non un’altra persona; ciò che nella mia memoria non ricordo, non può far parte di me o della mia identità: “Quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza” (La Trinità, XI, 11-17). Avevo insomma davanti un raffinato teologo e non ci capivamo, la filosofia è un’altra cosa. Io ero Skoteinòs, oscuro per la sua logica lineare che non gli faceva concepire il panta rei (lo dico a chi non ha visto il film, “tutto scorre” secondo la formula lessicale di Simplicio in Phys., 1313, 11, rileggendo il frammento 91 di Eraclito) e quello non seguiva il mio ragionare, che alla fine era meno paradossale del suo. Avete mai parlato con un hegeliano? Spiegateglielo se ci riuscite che il divenire non è una progressiva presa di coscienza dell’assoluto, racchiuso nei limiti antitetici, quanto piuttosto risiede nella modulazione di un’identica sostanza (“Tutte le cose sono Uno e l’Uno tutte le cose”).

Nella domanda “ma lei chi è?” non c’era solo l’ordine di un pubblico ufficiale che chiedeva di identificarmi, di rendermi identico a me stessso; c’era piuttosto la richiesta di adeguarmi all’idea universale, di riconoscermi nel genere di uomo che lo stato e il dipendente comunale avevano in mente. La carta di identità altro non fa che annullare la categoria del diverso, dissolve le alterità nell’identità. Inutile spiegargli che le cose vengono prima, mentre le parole e le idee sono mero flatus vocis; se non aveva visto il film con Robin Williams di certo non aveva letto Roscellino o Abelardo. La mia identità, il mio nome doveva essere in re o ante rem; ma io ho non ho mai assorbito quella forma di egocentrismo e non prevarico le cose; potevo parlargli di post rem, che è forse là che si trova quello che conta. Ma ho desistito, alle sue orecchie che sapevano di incenso e logica aristotelica poteva anche sembrare una cosa sconcia. In pratica, dietro quel “chi è” c’era la volontà di sostanziarmi e il discorso era profondamente teologico. Il termine essere si predica univocamente, nello stesso significato, sia delle cose create e finite, sia dell’essere increato e infinito, cioè in sostanza Dio nelle sue funzioni. Così ragionano i teologi. Ciò non significa che l’essere sia il genere più ampio che al suo interno contiene tanto Dio quanto le cose: si tratta piuttosto della determinazione comune a tutto ciò che esiste. L’essere è il primo oggetto dell’intelletto e tramite la sua azione è possibile conoscere il resto. E’ una bella idea l’ontologia, ma la vita è un’altra cosa. Rimango fermo sulle mie posizioni, gli universali sono cose da aristocratici, la realtà è fatta da enti individuali, da assenza più che da presenza, dal nulla prima che dall’essere.

RICETTARIO FILOS

Nel nome è presente il principio di individuazione, come ciò che permette ad un’individualità di presentarsi come tale; ovvero e in termini aristotelici, come sostanza singola o prima. Rimuove la tensione originaria verso il non essere che pure è sempre presente; svolge un ruolo di rilievo nel rapporto che sussiste tra forma, materia e categoria. Come ho detto si può far risalire tale principio (che con mille buone ragioni Schopenhauer identifica con quello di ragione) ad Aristotele. Il peripatetico affermava infatti che la sostanza dotata di esistenza (dunque individuabile) è solo ed esclusivamente quella singola, o sostanza prima, ossia l’individuo composto dall’unione di forma (categoria universale) e materia (che conferisce le caratteristiche individuali). Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham sono andati però oltre. Il primo avendo una concezione realista degli universali proponeva una mediazione tra materia e forma che consentisse il sussistere della sostanza singola; la quale consisteva di una proprietà (ecceità) che doveva sommarsi alla quidditas e alla materia. Ockham sostenne più direttamente l’inutilità del principio di individuazione in quanto, da convinto nominalista, considerava l’universale come pura determinazione concettuale, mentre le uniche realtà esistenti sarebbero quelle individuali. Ma allo stato e ai suoi dipendenti a quanto pare piacciono più le parole di Tommaso, che distingueva la persona dalla natura umana: la persona è il soggetto che agisce concretamente, mentre la natura è ciò che permette alla persona di agire; ciò che caratterizza la personalità o la sostanza della persona sarebbe insomma tale sussistenza, mentre l’attività intellettuale e della volontà appartiene alla natura o essenza spirituale. Sempre secondo l’Aquinate la persona è il sussistere di una individualità umana nella sua concretezza, mentre la natura è ciò per cui una persona è un essere umano; la natura individuale si delinea come ciò per cui una persona possiede proprietà e accidenti in modo unico e irripetibile. L’identità della persona è radicata nella natura e per attuarsi deve essere sussistente e spirituale; per essere un esistente concreto, e non rimanere a livello di definizione astratta, la natura umana deve perpetuarsi in una sostanza, diventando sostanza prima. Dal momento che il soggetto sussistente è il supposito, la persona umana può essere definita anche “supposito di natura razionale”. Essendo pura forma, l’anima non è l’essere come Dio, ma ha l’essere. Non è puro essere, ma è un essere-questo, limitato e causato; eppure possiede l’essere in modo tanto immediato e diretto da trasmetterlo al corpo. Per questo Tommaso definisce l’anima spirituale “la forma sostanziale del corpo” (Summa, I, 76, 1). Come si vede sempre di idealismo parliamo, accade ogni volta che vogliamo dare un ordine logico al mondo; la pulsione al paralogismo pare incontenibile. Non diverso è il concetto di Aufhebung, che per quanto introduca un elemento vivo all’interno della rigidità dialettica, implica la tensione dei contrari, da superare però al culmine del processo la contraddizione conservandola migliorata. Tale trazione nel discorso filosofico si adatta alle intenzioni di Hegel: nel processo di sublimazione un termine o concetto è al tempo stesso conservato e modificato attraverso l’interazione con un altro termine o concetto. La sublimazione si presenta come il motore della dialettica stessa. I concetti “essere” e “nulla” sono entrambi preservati e modificati attraverso la sublimazione per dare luogo al concetto del “divenire”. Parimenti la “determinatezza”, o “qualità” e il “numero” o “quantità”, sono preservate e sublimate nel concetto di “misura”.

Il principio di individuazione non è insomma distante da quello di ragione. Se è possibile individuarsi, non è a causa della collocazione del tempo secondo il prima e il poi, ma per una particolare tensione ebbra di attualità. Ciò che è immediato è senz’altro vero, perché è conosciuto senza la mediazione intellettuale; in questo senso Nietzsche parla di conoscenza tragica contrapponendola alla conoscenza ideale, che con la logica ha legittimato la menzogna. Il principio di individuazione, in quanto artefatto, non può costituirsi come verità proprio perché non coincide con la realtà, ma con l’immagine di un sogno. L’impiegato chiedeva in sostanza di adeguarmi al suo sogno e alla mistificazione operata dallo Stato, pallido surrogato di quel che è vero. Ma io sono un ente reale, non onirico, assente e non essente, attuale ma non presente, al di là di quella cosa che chiamano identità e che è solo la scoria di ciò che l’impiegato appunta nel documento secondo una successione del tempo. Qualcuno la chiama coscienza, altri con un eccesso di romanticismo coscienza infelice; ma allo stato e ai suoi funzionari non interessa la prima e chiudono gli occhi davanti all’ultima. Tutto scorre e l’Io diviene, ma non la rigidità filosofica dello stato e dei suoi funzionari.

TI REGALERO’ UNA ROSA, ANZI UN ROSATELLUM

Rosa Tellum e Lele Ttore

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L’orgia: cinque voti, tutti con la fiducia e il Pd (con Alternativa-Popolare, Forza Italia, Lega Nord, ALA-Scelta Civica, Verdini) si è fatto la sua Legge, il Rosatellum. Il perché lo sappiamo, c’è beppelasgualdrina che fa incetta di elettori. Col sistema delle alleanze (o orge di circoscrizione) un partito col 15% dei voti potrà avere più seggi di uno che ne ha il 30%. Il Parlamento dei nominati ha approvato il profluvio elettorale; la rappresentanza non conta e Il Pd farebbe prima a trasferire la Camera da letto a Rignano. Napolitano orgasma: voto sì per salvaguardare la stabilità. E se lo dice lui, ex fascista che ha mantenuto il Paese nel torbido, dobbiamo credergli. Altrove li avrebbero linciati, ma fortuna loro l’Italia è un Paese pacifico, che gioca a calcio, è di Casa a Pound e pensa alla figa.

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Un grillino per la testa: facciamo una simulazione, perché coi numeri si capisce meglio e arrotondiamo a 600 i seggi. Voti: M5s 28%, Pd 26%, Fi 17%, Lega 15%, Fdi 4% …
-300 seggi uninominali vengono così suddivisi: M5s 50, Pd (e alleati) 180 , Fi (e alleati) 30, Lega-Fdi 32 …
-300 seggi proporzionali: M5s 98, Pd 91 , Fi 59, Lega 52 …
-Seggi totali: M5s 148, Pd 271, Fi 89, Lega-Fdi 82 …

Il Pd (giusto per fare un esempio) con il 26% dei voti prenderà il 45% dei seggi. Ma possono anche verificarsi risultati sconcertanti; non è da escludere che un partito con il 29% o anche meno (ad esempio il Pd) si assicuri il 54% degli scanni. La chiamano Democrazia questa e per celebrarla hanno infatti la D cucita nel décolleté.

Rosa Tellum ha tradito Lele Tttore: la x sulla scheda non va al candidato scelto e il partito di maggioranza benedetto dalle urne avrà una manciata di parlamentari, gli onorevoli continuerà a sceglierli la Casta. Casta fino a un certo punto, Sfacciata piuttosto. L’ammucchiata è fatta da questi qua e il partito di governo (il Pd ad esempio) Marcia in prima linea su Roma.

Cielo, mio marito! Dal Pc al pc: i rivoluzionari ai tempi dei social, col maglioncino in cashmere e l’azienda o la banca di papà, quelli con la h aspirata, gli occhi blu e il make-up alla moda, che demoliscono lo stato sociale, scrivendo però tweet insanguinati da un fervore sedizioso che li porta a fare le barricate anche con tre punti esclamativi. Ai tempi dei social la rivoluzione si fa così, avendo cura di non sgualcire l’abito di Gaultier. Il popolo reazionario assiste desolato alla strategia eversiva della pasionaria Serracchiani e del compagno Orfini, pronti a scendere sul web con post appassionati e declamatori. Disposti a sacrificare anche la Vuitton per preservare la libertà del popolo. Quella che segue è una lista dei diritti per i quali i giacobini del Pd si sono battuti per tutti noi: Jobs act, voucher, articolo 18 cancellato, Banca Etruria, Mps, Buona Scuola, 203 prestazioni sanitarie diventate a pagamento, anticoncezionali in fascia C, esproprio della casa dopo 7 rate, disoccupazione 11,4%, disoccupazione giovanile 37,9%, inps +5%, Rai lottizzata e giornalisti epurati, legge bavaglio sulle interecettazioni, sconti e condoni milardari al gioco d’azzardo, F35, trivelle, il Ponte. Un po’ di massoneria, Benigni, quello che misonosbagliatoladivinacommedianonèlapiùbelladelmondo, la Salerno-Reggio Calabria (e un uomo in grado di dire che l’ha terminata è davvero capace di tutto). E troppe ancora ce n’è. Ma qua mi fermo per decoro, per sopraggiunta acidità di stomaco, perché la legge elettorale (voluta ad esempio dall’attuale classe dirigente del Pd) è una sgualdrina mariola e senza scrupoli ed è inutile aggiungere altro.

Benvenuti su Facebook, il social razzista che dà lezioni di morale

Ieri con RedBavon e Cuoreruotante abbiamo parlato della censura su Facebook. Qualcuno ha scritto Facebook, chi è? Con ironia antifrastica e siamo d’accordo: è il nulla riempito di niente con il vuoto attorno. Tuttavia è un fenomeno sociale vastissimo, numericamente impressionante con due miliardi di iscritti; l’azienda americana li chiama account, ma sono persone con diritto di pensiero e di parola. Red l’ha chiarito benissimo nell’analisi che segue.

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post che rispetta le norme dalla comunità Facebook

Santissimo Zuckerberg! Scusa la volgarità!

“Scusa la volgarità? E perché? “
“Quello ogni cosa è peccato! È capace, vede il punto esclamativo … cos’è ‘sta cosa; l’uomo con il puntino sotto, è peccato, noi ci mettiamo con le spalle al sicuro. Scusa le volgarità…”
(cit. dalla lettera a Savonarola di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”)

Di RedBavon

La censura di Facebook si è abbattuta sulla bacheca di Giancarlo e ha eliminato il post che indirizzava all’insano contenuto pubblicato in terra di WordPress, frutto della spremitura di tastiere di Cuoreruotante, Giancarlo e me. Motivazione: “contenuto pornografico”.

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il nostro post censurato per pornografia

La motivazione fa ridere per almeno tre ragioni:

  1. Non è un articolo ma un link al post su WordPress e le righe di presentazione scritte da Giancarlo sono tutto fuorché “pornografiche”. Abbiamo le prove: l’immagine del post di Giancarlo è sopravvissuta nella mia bacheca. (NdA: Giancà due sono le cose: hai una “reputation” sotto lo sporco delle suole delle scarpe oppure, come direbbe il Marchese del Grillo, io non sono “un cazzo”.).
  2. La commedia sexy all’italiana è classificata come sotto-genere della commedia all’italiana e non nel genere “hardcore” o “XXX. Solo per adulti”.
  3. Non è necessario nemmeno scomodare il gotha della critica cinematografica, ma è sufficiente avere visto qualche film per capire che qualche tetta e culo al vento non fanno “pornografia”: basta fare una passeggiata sulla battigia d’estate, assistere in TV a un qualsiasi show di varietà o passare davanti a un cartellone pubblicitario.

Dall’autorevole Treccani la definizione di “pornografia”: trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, video ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.

Se ne desume che lo scultorio posteriore della Cassini o il giunonico seno della Fenech siano ritenuti dai moderatori di Facebook come “osceni” e che lo scopo del nostro articolo fosse di “stimolare eroticamente il lettore.”.

Chiunque abbia letto anche solo le righe di Cuoreruotante, che apre il trittico di contributi, può comprendere che il moderatore, fan di Tomas de Torquemada, è fuori come una fioriera sul balcone  del decimo piano oppure ha molti più problemi di noi tre con la lingua di Dante.

Gli altri due contributi sono scritti da due autori maschi e, dato il tema, il moderatore potrebbe attendersi, come minimo sindacale, almeno della “pruderie”: a parte un lessico più libertino e qualche fotogramma che esalta le decantate doti delle attrici, si tratta di un tributo a un genere che ha fatto storia nel nostro cinema e, stilisticamente, è un divertissement (il mio) e un piccolo saggio (quello di Giancarlo).

Con i suoi due miliardi di utenti (fonte Ansa.it 28 giugno 2017), è chiaro che Facebook  è di fronte a una sfida senza precedenti e, comunque, di portata titanica. La società di Mark Zuckerberg, quasi senza accorgersene e nonostante una folta schiera di detrattori e concorrenti, è diventata tra i messa media l’organizzazione più grande e a più ampia diffusione nel mondo.

Due miliardi di individui compresi nell’ampio spettro di varia umanità anche avariata con le loro capacità di intrattenere, informare, emozionare, meravigliare, rattristare, disgustare, annoiare, terrorizzare.

Si stima che il Community Operations Team, la squadra di moderatori di Facebook, forte di 4.500 operatori, per lo più sotto pagati (leggi Underpaid and overburdened: the life of a Facebook moderator – The Guardian, 25 maggio 2017), deve prendere visione di oltre 100 milioni di contenuti ogni mese; ciò significa che ogni moderatore ha mediamente un carico giornaliero di 741 post e, calcolando 8 ore lavorative, ha meno di un minuto per singolo contenuto. In questo minuto scarso deve farsi un’idea e sentenziare sulla conformità ai “Community Standards”, ovvero le regole auto-definite dalla società.

Mark Zuckerberg ha dichiarato che intende rafforzare il Community Operations Team con altre 3.000 risorse; applicando lo stesso calcolo a un numero di contenuti costante (in realtà sono in aumento vista la tendenza alla crescita di nuovi iscritti), il moderatore avrebbe finalmente poco più di minuto per esaminare un singolo contenuto. A leggere certe esternazioni di politici italiani in un minuto io ho problemi a capirli nel loro italiano, che quando va bene è in “politichese”. Di sicuro non ho le caratteristiche adatte per candidarmi a uno dei tremila nuovi posti di lavoro per il Community Operations Team.

La prima reazione quando Giancarlo mi ha comunicato della censura del nostro post non è stata esattamente compita, mi sono lasciato andare a strali dall‘educato “bacchettoni” al – Parental advisory. Explicit Content – “cazzoni“. Interloquire con chi ha deciso di censurare è impossibile perché la piattaforma è “social” fino a un certo punto; diventa “asociale” se vuoi rivolgerti alla società che la amministra. Mi sovviene nuovamente la famosa frase del Marchese del Grillo: “Ah… mi dispiace. Ma io so’ io… e voi non siete un cazzo!“.

Facebook non ha politiche trasparenti, sopratutto nell’applicazione. La prova è nei numerosi e grossolani errori in sono incorsi.

Gli abbagli clamorosi nell’applicazione della censura per i soli contenuti “sessualmente espliciti” si sprecano.

Lo scorso marzo Facebook blocca una pubblicità. Se il moderatore avesse avuto un po‘ più di tempo si sarebbe accorto che la pubblicità era una collezione di opere d’arte e che l’immagine ritenuta offensiva fosse il dipinto “Women Lovers” di Charles Blackman. Giudicate voi l‘”oscenità”:

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A settembre dell’anno scorso la toppa più clamorosa:

una delle foto più iconiche mai scattate, nota come “Napalm girl”, che valse il premio Pulitzer al fotografo, Nick Ut, cade sotto la sciagurata mannaia della censura Facebook. Kim Phuk, la bimba all’epoca ritratta nella foto, fece sapere che era rattristata da tale notizia. La foto viene ripristinata dopo la prevedibile e legittima gogna mediatica. Una figura barbina per Facebook tanto che Zuckerberg cita tale macroscopico errore nel suo discorso-manifesto “Building Global Community” pubblicato a febbraio, ne trae spunto per dedicare un capitolo intero e circa un migliaio di parole sul tema “Inclusive Community”.

Zuckerberg è ancora lì sul suo dorato piedistallo, il post citato nel momento in cui scrivo “piace” a 100.597 utenti, ha 14.940 condivisioni e conta 7.000 commenti.

Ho i miei dubbi che il moderatore che ha censurato “Napalm girl” lavori ancora per Facebook.

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Secondo Zuckerberg, Facebook sarà un social network con sempre maggiore enfasi sui rapporti umani, promuovendone le interconnessioni. Tale dichiarazione è stridente, se non contraddittoria, con quanto invece succede ogni giorno sulla piattaforma: linguaggio violento, discriminatorio, cyber-bullismo, un campionario male assortito di crudeltà, frustrazione e miseria (dis)umana.

Al di là del linguaggio violento (il pistolotto sull’ “Online Disinhibition Effect” ve lo tiro un’altra volta), la vera questione è se gli utenti siano in sintonia con l’”ambiente” in cui interagiscono, se si sentano a proprio agio nel perimetro fissato dalle regole auto-definite dalla società, dichiarate in modo generico e applicate, come da esempi riportati decisamente più famosi del nostro, con una buona dose di arbitrarietà.

I sacrosanti e tanto cari principi di libertà di pensiero ed espressione su cui Internet è fondata vengono lanciati fuori dalla finestra quando non coincidono con gli interessi del “business”.

La censura è già un’espressione di controllo su una società che è reputata non in grado di auto-selezionare i contenuti adatti e pertanto ha bisogno di un organo di controllo super partes. E sappiamo quanto “super partes” sia vuoto di significato quando vi sono altissimi interessi economici e politici in gioco. Ogni riferimento all’”idolatria del denaro”(cit. Papa Francesco) del capitalismo selvaggio nonché alla censura fascista, nazista, comunista e di qualsiasi regime totalitario odierno è puramente voluto.

Nella fattispecie, i rischi di una censura applicata da un controllo privato ad opera di una società multinazionale sono già sotto gli occhi del cittadino, anche non utente social network: si pensi a quanto è stato riportato sull’influenza delle “fake news” durante la recente campagna elettorale statunitense e delle cosiddette “filter bubble”, cioè il tracciamento del comportamento online dell’utente con lo scopo di offrire contenuti coerenti con le sue preferenze.

Nessuno conosce gli algoritmi e le esatte politiche di Facebook (ma neanche di Google): non temo il rischio d’imbattermi in un contenuto non adatto se non addirittura “osceno”, perché così – fattane esperienza – la prossima volta saprò evitarlo. Ciò che temo è che non saprò mai ciò che è stato cancellato arbitrariamente da Facebook o da Google e considerato “non adatto” per me.

Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.

Se i moderatori di Facebook continuano in questa applicazione arbitraria di regole auto-definite dalla multinazionale di cui sono dipendenti, il rischio è che diventino dei moderni inquisitori.

È inutile negarlo: “Facebook is the king of the social media” (cit. Forbes, 23 marzo 2017). Facebook deve perciò ammettere che gioca un ruolo importantissimo per come decine di milioni di persone vedono il mondo intorno, per come comunicano. Pertanto, è responsabilità di Facebook attuare politiche sempre più trasparenti, con l’obiettivo di specificare il “perché” e il “come” prendono le decisioni se un contenuto è da cancellare e non deve essere visto da altre persone.

L’attuazione di linee guida dettagliate e trasparenti è anche un modo per l’utente per capire il proprio “perimetro” e dove ha sbagliato se il suo contenuto è stato eliminato. Nel nostro piccolo caso, l’evidenza è che la commedia sexy all’italiana e ciò che abbiamo scritto non è un contenuto né “sessualmente offensivo” né tantomeno “osceno”. Perché allora è stato eliminato?

È anche vero che se l’utente conoscesse nel dettaglio le “regole del gioco” potrebbe decidere di non essere più parte di quella “comunità” perché non le condivide e non si sente a proprio agio. Ciò chiaramente stride contro la carta-obiettivo che Zuckerberg ha estratto dal mazzo: “Conquista le due Americhe, Africa, Asia, Europa e un quinto continente a tua scelta”

Firmato:

Tre persone, tre personcine, noi siamo tre personcine per bene che non farebbero male nemmeno a una mosca…

QUESTA E’ LA POLITICA DI FACEBOOK 

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post che rispetta le norme della comunità

Di Giancarlo Buonofiglio

Non c’è solo la censura su Facebook (per gli inserzionisti è in programma un articolo sull’inutilità della pubblicità a pagamento su Fb). All’ingresso nella comunità si leggono due righe: Facebook è gratis e lo rimarrà per sempre. Gratis non vuol dire senza costi e vincoli. Avete presente i viaggi gratis delle aziende che vanno a prendere col pulmino i pensionati per vendere loro pentole e coperchi? Si tratta di quello. La multinazionale americana ha creato un ingranaggio mediatico per far soldi e li fa vendendo prodotti, il resto sono balle. I neuroassenti postano pensieri subilimi e poesie di altissimo livello, ovviamente tra un consiglio per l’acquisto e l’altro. Raccoglie il peggio della comunicazione, perché il peggio è quello sensibile alle proposte commerciali. Si tratta di un quarto della popolazione mondiale, numeri colossali; e se un quarto del pianeta si riversa in quella piazza virtuale i conti con il diritto, la politica e la democrazia dobbiamo pur farli. Non si può liquidare la questione: è casa mia e le regole le faccio io. Non si può fare quando a due miliardi di persone viene limitato o negato il diritto al pensiero e alla parola. Perché questo fa. Facebook è una multinazionale fuorilegge e legittima più dell’illegalità la barbarie: razzismo, omofobia, violenze e minacce morte la fanno da padrone. Il nazismo è apertamente tollerato e il fascismo sponsorizzato come l’espressione più alta dell’intelligenza umana. Il livello è quello ed è riduttivo parlare solo di pentole e coperchi, perché ZuckerMastrota fa politica su scala mondiale raccogliendo consensi tra gli individui socialmente disadattati e intellettualmente ipodotati. Ed è chiara la visione del mondo che ha: censura, razzismo, fascismo, un po’ di clericalismo che fa la sua porca figura, omofobia. Con molta retorica ovviamente e quella appunto è uno dei nomi della politica nella deriva autoritaria; la più feroce e pericolosa, svincolata dall’ideologia. Il mercato e il consumo, solo quello e prima di ogni cosa; i soldi, che si capisce meglio.

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post che rispetta le norme della comunità

Mi spiego con un esempio

E’ un po’ che sfoglio la pagina di un noto politico, per motivi professionali più che altro. Al principio assumevo dosi massicce di bicarbonato, poi mi devo essere assuefatto. Quel che accade nella lingua, e in particolare nel linguaggio comune, si riverbera nella vita. Su quel profilo Facebook il termine più ricorrente è invasione, negro (con la g), rom; segue extracomunitario, meridionale storpiato in merdanale, in leggera flessione Roma ladrona. Una ragione c’è, non si sputa nel piatto nel quale si mangia. Ricorrono i neologismi: sinistrato, cattocomunista (il più delle volte con la k), sinistronzo, sinistrotto, piddino, renzino. L’uso del neologismo ha una funzione particolare, tende a circoscrivere l’individuo in un gruppo e il gruppo in un luogo comune con una lingua incomprensibile fuori dal recinto. (Lo stesso accade con le degenerazioni neuronali o psicotiche.) Perché di quello si tratta, le mandrie si uniscono attorno al capobranco che promette ordine e qualche benevolenza. La parola ordine ha una natura apotropaica e curativa quando l’Io perde le sue funzioni. Le parolacce la fanno da padrone: caxxo (con la x), rottinculo, checca, negrodimerda, terrone qualche volta. La grammatica latita, ma si tratta di gente laboriosa, non di sfaccendati intellettuali che hanno tempo da perdere con i dettagli. I concetti sono ridotti al minimo: gravitano attorno a poche idee, confuse neanche tanto; la prima attorno alla quale ruotano le altre è la paura per l’uomo nero che ti tiene un anno intero (come nella filastrocca). La medicina che gli accoliti propongono è il rimpatrio, la galera, la frusta a volte per gli indesiderati. La dinamica della discussione è pressoché la stessa: il mentore scalda gli animi con una domanda retorica e l’esercito infuriato parte in battaglia. Non c’è posto per la discussione, la regola è che a casa nostra facciamo come ci pare e se non vi sta bene fora di ball. Il capitano commenta poco e quando compare sembra un bulletto di periferia che si mette alla guida fomentando la massa inferocita. Non stempera le animosità, istiga piuttosto con un’ironia che a lui sembra sottile, ma che non va al di là della volgarità di certi film anni ’70; la mandria fa muro e tutti insieme si riuniscono a mangiare polenta e osei. I luoghi comuni la fanno da padrone; un luogo comune è un pensiero che fa riferimento a un’abitudine culturale maturata nel sentire popolare. La realtà è un’altra cosa, ma quando c’è un limite cognitivo la comprensione viene filtrata da un’idea tanto diffusa da sembrare verosimile. La verosimiglianza è però lontana dalla verità, come la demagogia e la retorica dalla politica. Non si tratta solo di una disfunzione semantica indotta dalla mancata padronanza del vocabolario, ma di una profonda degenerazione neuroantropologica. Si sente nell’assenza del senso delle parole e appunto nel prevalere dei luoghi comuni. E vengo al punto: la demenza neurolinguistica è caratterizzata dalla perdita del significato e dal deterioramento cognitivo; è una manifestazione clinica della degradazione lobare frontotemporale, associata all’atrofia del giro temporale inferiore e medio.

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post che rispetta le norme della comunità

Le persone affette presentano problemi nella denominazione e nella comprensione di parole, nel riconoscimento dei volti, delle cose, delle situazioni, della realtà; la predominanza del verbale o non verbale (e nel nostro caso delle gutturali che dominano sulle articolazioni mature della lingua) riflette l’accentuazione dell’atrofia cerebrale. Alla distruzione del linguaggio si accompagna quella della personalità e a seguire la dimensione democratica e sociale dell’individuo. L’aggressività, la violenza, l’odio sociale verso un fantasma immaginario e minaccioso è uno dei morfemi dello stato paranoico di un poveretto che ha smesso di desiderare in maniera sana e consapevole e ha cominciato a odiare.

Su Facebook è questa la regola ed è una regola politica, non l’eccezione. Il resto, il moralismo, le crociate contro il nudo, il noallaviolenzaalledonne e al bullismo sono solo la sottana dietro alla quale si nasconde il bimbo cattivo dopo le marachelle.

Caro Facebook …

Di Cuoreruotante

Sono Cuoreruotante. L’articolo che avete ingiustamente censurato porta anche la mia firma. Mi metto per un attimo nei panni di una persona ignorante, leggasi “colei che ignora”, e, cerco, sforzandomi, anche da ignorante, di estrapolare qualcosa di pornografico nell’articolo che abbiamo scritto. Non ci riesco. Abbasso l’asticella delle mie pretese, ancora nulla di vagamente pornografico. Mi ricordo di essere ignorante, allora vado a cercare il significato della parola “pornografia”. Da Wikipedia: La pornografia (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento” e quindi letteralmente “scrivere riguardo” o “disegnare” prostitute) è la raffigurazione esplicita di soggetti erotici e sessuali in genere ritenuti osceni ed effettuata in diverse forme: letteraria, pittorica, cinematografica e fotografica. Bene, ho capito e rileggo. Niente, non abbiamo scritto di prostitute o prostituzione, di atti osceni o indecenti.
Abbiamo dato risalto, con parole semplici e forbite, ad un genere di film prettamente comico, ma ad alto contenuto culturale. Non ci sono termini volgari, immorali o, vagamente, riconducibili ad essi.
Esistono gruppi su Facebook che inneggiano realmente alla prostituzione, che offendono (eufemismo) donne, bambini e chi non la pensa come loro. Trovo ingiustificato il vostro comportamento con la censura dell’articolo e il blocco dell’account di Giancarlo Buonofiglio. Vi invito a spiegarmelo, vi ricordo che io sono ignorante. Grazie

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FACEBOOK censura le idee e spilla soldi con la pubblicità

“Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.” RedBavon

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L’articolo censurato (foto di RedBavon)

Di Giancarlo Buonofiglio

FACEBOOK, la cloaca del pensiero che latita, dell’insulto con rutto libero, della morale delle mutande madide di polluzioni, il coacervo del razzismo e del fascismo de noartri, il social che oscura i seni ma non rimuove post omofobi e minacce di morte l’ha fatto ancora. Questa volta ha censurato l’articolo scritto con RedBavon e Cuoreruotante sulla Commedia Sexy perché “contiene evidenti contenuti pornografici”. Avevo pubblicato il documento su Morelli e anche quello è stato cancellato per le medesime inemendabili ragioni. Ora tutto si può imputare allo psichiatra, ma non che abbia la faccia da culo. Quel social è un’accozzaglia di rigurgiti intestinali, tollerati fino a quando non esprimono un’idea; le fotografie sono la sottana dietro alla quale si nasconde una censura che non ha il coraggio per dichiararsi tale. Perché di quello si tratta. E per quanto riguarda il nudo: non ho mai capito il criterio col quale la comunità dei neuroassenti discrimini le immagini. L’esposizione della carne non manca, pur ritagliata in alcune parti. Il seno è tollerato, il capezzolo no. Il fondoschiena si può esporre; a quanto pare non ha una definizione oscena e non disturba il comune sentire. E’ interessante questa attenzione al ritaglio da macelleria; per metonimia la parte prende a significare il tutto e il corpo sezionato si presenta come il simulacro di significati che non ha. A vederla così sembra che l’interesse pornografico vesta il corpo piuttosto che spogliarlo con un abito di contenuti che ha la consistenza e la realtà dei fantasmi che affollano una mente malata.

Non c’è che un modo per ricostruire un minimo di diritto e se non li tocchi nel portafoglio questi non capiscono: EVITARE DI PAGARE LE INSERZIONI A FACEBOOK. (Che oltrettutto servono quanto una scatola di preservativi in un ospizio di centenari*.) L’azienda americana non è un social, ma un contenitore di avventori a cui il ZuckerMastrota della comunicazione propone tra i ciaone e le foto dell’amatriciana pentole e coperchi. Se gli articoli vengono generosamente ricondivisi, Facebook al di là dei contenuti li cancella perché a quel punto bisogna pagare (ti condividono? Dacce e sordi, che si capisce meglio); se i post (li chiama così con un neologismo di dubbio gusto) sono al di là della media intellettuale bovina blocca l’account. Di calcio puoi parlare, un’idea non la devi proporre (altrimenti è appunto pòrne.) Non ho mai postato un nudo e mi contestano infatti la pornografia. Questa volta è toccata a me, ma è una cosa che riguarda tutti; e se oggi censurano il mio pensiero domani toccherà al vostro.

[*A breve il mio articolo sull’inutilità delle inserzioni a pagamento su Facebook]

Seguono i commenti di Redbavon e Cuoreruotante.

Santissimo Zuckerberg! Scusa la volgarità!

“Scusa la volgarità? E perché? “
“Quello ogni cosa è peccato! È capace, vede il punto esclamativo … cos’è ‘sta cosa; l’uomo con il puntino sotto, è peccato, noi ci mettiamo con le spalle al sicuro. Scusa le volgarità…”
(cit. dalla lettera a Savonarola di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”)

di RedBavon

La censura di Facebook si è abbattuta sulla bacheca di Giancarlo e ha eliminato il post che indirizzava all’insano contenuto pubblicato in terra di WordPress, frutto della spremitura di tastiere di Cuoreruotante, Giancarlo e me. Motivazione: “contenuto pornografico”.

La motivazione fa ridere per almeno tre ragioni:

  1. Non è un articolo ma un link al post su WordPress e le righe di presentazione scritte da Giancarlo sono tutto fuorché “pornografiche”. Abbiamo le prove: l’immagine del post di Giancarlo è sopravvissuta nella mia bacheca. (NdA: Giancà due sono le cose: hai una “reputation” sotto lo sporco delle suole delle scarpe oppure, come direbbe il Marchese del Grillo, io non sono “un cazzo”.).
  2. La commedia sexy all’italiana è classificata come sotto-genere della commedia all’italiana e non nel genere “hardcore” o “XXX. Solo per adulti”.
  3. Non è necessario nemmeno scomodare il gotha della critica cinematografica, ma è sufficiente avere visto qualche film per capire che qualche tetta e culo al vento non fanno “pornografia”: basta fare una passeggiata sulla battigia d’estate, assistere in TV a un qualsiasi show di varietà o passare davanti a un cartellone pubblicitario.

Dall’autorevole Treccani la definizione di “pornografia”: trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, video ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.

Se ne desume che lo scultorio posteriore della Cassini o il giunonico seno della Fenech siano ritenuti dai moderatori di Facebook come “osceni” e che lo scopo del nostro articolo fosse di “stimolare eroticamente il lettore.”.

Chiunque abbia letto anche solo le righe di Cuoreruotante, che apre il trittico di contributi, può comprendere che il moderatore, fan di Tomas de Torquemada, è fuori come una fioriera sul balcone  del decimo piano oppure ha molti più problemi di noi tre con la lingua di Dante.

Gli altri due contributi sono scritti da due autori maschi e, dato il tema, il moderatore potrebbe attendersi, come minimo sindacale, almeno della “pruderie”: a parte un lessico più libertino e qualche fotogramma che esalta le decantate doti delle attrici, si tratta di un tributo a un genere che ha fatto storia nel nostro cinema e, stilisticamente, è un divertissement (il mio) e un piccolo saggio (quello di Giancarlo).

Con i suoi due miliardi di utenti (fonte Ansa.it 28 giugno 2017), è chiaro che Facebook  è di fronte a una sfida senza precedenti e, comunque, di portata titanica. La società di Mark Zuckerberg, quasi senza accorgersene e nonostante una folta schiera di detrattori e concorrenti, è diventata tra i messa media l’organizzazione più grande e a più ampia diffusione nel mondo.

Due miliardi di individui compresi nell’ampio spettro di varia umanità anche avariata con le loro capacità di intrattenere, informare, emozionare, meravigliare, rattristare, disgustare, annoiare, terrorizzare.

Si stima che il Community Operations Team, la squadra di moderatori di Facebook, forte di 4.500 operatori, per lo più sotto pagati (leggi Underpaid and overburdened: the life of a Facebook moderator – The Guardian, 25 maggio 2017), deve prendere visione di oltre 100 milioni di contenuti ogni mese; ciò significa che ogni moderatore ha mediamente un carico giornaliero di 741 post e, calcolando 8 ore lavorative, ha meno di un minuto per singolo contenuto. In questo minuto scarso deve farsi un’idea e sentenziare sulla conformità ai “Community Standards”, ovvero le regole auto-definite dalla società.

Mark Zuckerberg ha dichiarato che intende rafforzare il Community Operations Team con altre 3.000 risorse; applicando lo stesso calcolo a un numero di contenuti costante (in realtà sono in aumento vista la tendenza alla crescita di nuovi iscritti), il moderatore avrebbe finalmente poco più di minuto per esaminare un singolo contenuto. A leggere certe esternazioni di politici italiani in un minuto io ho problemi a capirli nel loro italiano, che quando va bene è in “politichese”. Di sicuro non ho le caratteristiche adatte per candidarmi a uno dei tremila nuovi posti di lavoro per il Community Operations Team.

La prima reazione quando Giancarlo mi ha comunicato della censura del nostro post non è stata esattamente compita, mi sono lasciato andare a strali dall‘educato “bacchettoni” al – Parental advisory. Explicit Content – “cazzoni“. Interloquire con chi ha deciso di censurare è impossibile perché la piattaforma è “social” fino a un certo punto; diventa “asociale” se vuoi rivolgerti alla società che la amministra. Mi sovviene nuovamente la famosa frase del Marchese del Grillo: “Ah… mi dispiace. Ma io so’ io… e voi non siete un cazzo!“.

Facebook non ha politiche trasparenti, sopratutto nell’applicazione. La prova è nei numerosi e grossolani errori in sono incorsi.

Gli abbagli clamorosi nell’applicazione della censura per i soli contenuti “sessualmente espliciti” si sprecano.

Lo scorso marzo Facebook blocca una pubblicità. Se il moderatore avesse avuto un po‘ più di tempo si sarebbe accorto che la pubblicità era una collezione di opere d’arte e che l’immagine ritenuta offensiva fosse il dipinto “Women Lovers” di Charles Blackman. Giudicate voi l‘”oscenità”:

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Women Lovers

A settembre dell’anno scorso la toppa più clamorosa:

una delle foto più iconiche mai scattate, nota come “Napalm girl”, che valse il premio Pulitzer al fotografo, Nick Ut, cade sotto la sciagurata mannaia della censura Facebook. Kim Phuk, la bimba all’epoca ritratta nella foto, fece sapere che era rattristata da tale notizia. La foto viene ripristinata dopo la prevedibile e legittima gogna mediatica. Una figura barbina per Facebook tanto che Zuckerberg cita tale macroscopico errore nel suo discorso-manifesto “Building Global Community” pubblicato a febbraio, ne trae spunto per dedicare un capitolo intero e circa un migliaio di parole sul tema “Inclusive Community”.

Zuckerberg è ancora lì sul suo dorato piedistallo, il post citato nel momento in cui scrivo “piace” a 100.597 utenti, ha 14.940 condivisioni e conta 7.000 commenti.

Ho i miei dubbi che il moderatore che ha censurato “Napalm girl” lavori ancora per Facebook.

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Napalm girl

Secondo Zuckerberg, Facebook sarà un social network con sempre maggiore enfasi sui rapporti umani, promuovendone le interconnessioni. Tale dichiarazione è stridente, se non contraddittoria, con quanto invece succede ogni giorno sulla piattaforma: linguaggio violento, discriminatorio, cyber-bullismo, un campionario male assortito di crudeltà, frustrazione e miseria (dis)umana.

Al di là del linguaggio violento (il pistolotto sull’ “Online Disinhibition Effect” ve lo tiro un’altra volta), la vera questione è se gli utenti siano in sintonia con l’”ambiente” in cui interagiscono, se si sentano a proprio agio nel perimetro fissato dalle regole auto-definite dalla società, dichiarate in modo generico e applicate, come da esempi riportati decisamente più famosi del nostro, con una buona dose di arbitrarietà.

I sacrosanti e tanto cari principi di libertà di pensiero ed espressione su cui Internet è fondata vengono lanciati fuori dalla finestra quando non coincidono con gli interessi del “business”.

La censura è già un’espressione di controllo su una società che è reputata non in grado di auto-selezionare i contenuti adatti e pertanto ha bisogno di un organo di controllo super partes. E sappiamo quanto “super partes” sia vuoto di significato quando vi sono altissimi interessi economici e politici in gioco. Ogni riferimento all'”idolatria del denaro”(cit. Papa Francesco) del capitalismo selvaggio nonché alla censura fascista, nazista, comunista e di qualsiasi regime totalitario odierno è puramente voluto.

Nella fattispecie, i rischi di una censura applicata da un controllo privato ad opera di una società multinazionale sono già sotto gli occhi del cittadino, anche non utente social network: si pensi a quanto è stato riportato sull’influenza delle “fake news” durante la recente campagna elettorale statunitense e delle cosiddette “filter bubble”, cioè il tracciamento del comportamento online dell’utente con lo scopo di offrire contenuti coerenti con le sue preferenze.

Nessuno conosce gli algoritmi e le esatte politiche di Facebook (ma neanche di Google): non temo il rischio d’imbattermi in un contenuto non adatto se non addirittura “osceno”, perché così – fattane esperienza – la prossima volta saprò evitarlo. Ciò che temo è che non saprò mai ciò che è stato cancellato arbitrariamente da Facebook o da Google e considerato “non adatto” per me.

Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.

Se i moderatori di Facebook continuano in questa applicazione arbitraria di regole auto-definite dalla multinazionale di cui sono dipendenti, il rischio è che diventino dei moderni inquisitori.

È inutile negarlo: “Facebook is the king of the social media” (cit. Forbes, 23 marzo 2017). Facebook deve perciò ammettere che gioca un ruolo importantissimo per come decine di milioni di persone vedono il mondo intorno, per come comunicano. Pertanto, è responsabilità di Facebook attuare politiche sempre più trasparenti, con l’obiettivo di specificare il “perché” e il “come” prendono le decisioni se un contenuto è da cancellare e non deve essere visto da altre persone.

L’attuazione di linee guida dettagliate e trasparenti è anche un modo per l’utente per capire il proprio “perimetro” e dove ha sbagliato se il suo contenuto è stato eliminato. Nel nostro piccolo caso, l’evidenza è che la commedia sexy all’italiana e ciò che abbiamo scritto non è un contenuto né “sessualmente offensivo” né tantomeno “osceno”. Perché allora è stato eliminato?

È anche vero che se l’utente conoscesse nel dettaglio le “regole del gioco” potrebbe decidere di non essere più parte di quella “comunità” perché non le condivide e non si sente a proprio agio. Ciò chiaramente stride contro la carta-obiettivo che Zuckerberg ha estratto dal mazzo: “Conquista le due Americhe, Africa, Asia, Europa e un quinto continente a tua scelta”

Firmato:

Tre persone, tre personcine, noi siamo tre personcine per bene che non farebbero male nemmeno a una mosca…

Caro Facebook …

Di Cuoreruotante

Sono Cuoreruotante. L’articolo che avete ingiustamente censurato porta anche la mia firma. Mi metto per un attimo nei panni di una persona ignorante, leggasi “colei che ignora”, e, cerco, sforzandomi, anche da ignorante, di estrapolare qualcosa di pornografico nell’articolo che abbiamo scritto. Non ci riesco. Abbasso l’asticella delle mie pretese, ancora nulla di vagamente pornografico. Mi ricordo di essere ignorante, allora vado a cercare il significato della parola “pornografia”. Da Wikipedia: La pornografia (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento” e quindi letteralmente “scrivere riguardo” o “disegnare” prostitute) è la raffigurazione esplicita di soggetti erotici e sessuali in genere ritenuti osceni ed effettuata in diverse forme: letteraria, pittorica, cinematografica e fotografica. Bene, ho capito e rileggo. Niente, non abbiamo scritto di prostitute o prostituzione, di atti osceni o indecenti.
Abbiamo dato risalto, con parole semplici e forbite, ad un genere di film prettamente comico, ma ad alto contenuto culturale. Non ci sono termini volgari, immorali o, vagamente, riconducibili ad essi.
Esistono gruppi su Facebook che inneggiano realmente alla prostituzione, che offendono (eufemismo) donne, bambini e chi non la pensa come loro. Trovo ingiustificato il vostro comportamento con la censura dell’articolo e il blocco dell’account di Giancarlo Buonofiglio. Vi invito a spiegarmelo, vi ricordo che io sono ignorante. Grazie

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VERSI PER VERSI

I lettori sono personaggi immaginari creati dalla fantasia degli scrittori.
Achille Campanile

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SIRI, JEANNIE, CORTANA E LE ALTRE

Ho un debito con Cuoreruotante e i debiti si pagano. Ho mancato di farle gli auguri in tempi ragionevoli e mi è toccata una penitenza; non è vendicativa e non è certamente una haters Cuore, infatti ha commutato la pena in un articolo sulla tecnologia. Quella però che più mi è ostica (e ostile), una relazione su Iphone, Android, Smartphone naturalmente dopo averli provati. Premettendo che uso un cellulare (li chiamo ancora così) coi tasti, comprato solo perché era pubblicizzato come telefono per anziani e che non mi porto dietro internet (l’idea di essere costantemente in una rete mi dà l’acidità di stomaco) la mia esperienza con questi aggeggi è stata la seguente.
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SIRI, la app dell’Iphone
Sembra che la Apple stia pensando di trasformare il software in una terapeuta. Con Siri ho parlato un paio di volte. Si tratta di una voce generata da un algoritmo e da una mente malata che risponde con tempestività alle domande. L’aggettivo malato (riferito al programmatore che ha sviluppato il dispositivo) non è offensivo, vuol dire distorto, alterato, deformato rispetto alle regole che una comunità si è data. La prima delle quali è la relazione con l’altro in un contesto di comunicazione in cui è assicurato prima ancora che la parola l’ascolto. Il problema di Siri è che non ascolta, non c’è una relazione anaclitica, non un passaggio di emozioni ma una corrente di parole, anzi fonetica rielaborata alla meno peggio da una computazione algebrica. Il software è semplice, binario, strutturato in bit e byte, 0 e 1 secondo una sequenza brutalmente logica che riduce al minimo l’articolazione decimale della lingua: se è non può non essere altrimenti il sistema si impalla. In sostanza: per parlare con Siri dobbiamo adeguare il linguaggio (e il flusso di emozioni) in bit e byte appunto modulandolo sul carattere del software. Che oltretutto (nel caso di Siri) è un caratteraccio. L’indole bisbetica mi provoca insofferenza con le persone, figuriamoci con le macchine; all’obiezione, che alla cpu del mio hard disk neuronale sembrava legittima: sei una cretina (e ammetto che il tono era insolente), mi ha risposto: non c’è bisogno di offendere. Permalosa come una suocera insomma. A questo punto mi tengo e litigo con la mia. Un’ultima annotazione: canta di merda, si trasforma in un razzo missile proprio non si può sentire.
Cito anche la fonte, così Cuore lo vede che mi sono preparato: https://goo.gl/jM1fAZ
LA MANUALITA’
Per me quei cosi non sono maneggiabili; problema mio e a quanto pare non ho il pollice opponibile, proprio non riesco a tenerli in mano. Tanto meno a pigiare i tasti. Vot: 3-4 non di più.
CYBERSESSO
E no, non ho provato. Come ho detto prima ho una manualità che fa disonore a Lamarck e poi non ho il pollice opponibile. Insomma la vedo dura. Però ho imparato una nuova parola: SESSEGGIARE. In serata dopo aver navigato come Ulisse, il canto delle sirene è arrivato. Ho trovato un messaggio in chat diretto e esplicito: “Ciao, ti va di sesseggiare?”. Ho analizzato la frase (e qua il perverso -ammetto- sono io): il ciao avvicina, assimila, familiarizza; ti va: ossia hai voglia di, cerchi sesso e vabbè il resto si capisce; sesseggiare è un neologismo giovanile, nato credo dalla Rete, che è un’altra lingua ed è bene ascoltarla perché sta modificando in profondità la struttura del linguaggio e quella mentale. La parola non mi piace ma non la trovo cacofonica, anzi; svincola il piacere dalla sua storia (che per la mia generazione era lunghetta: dal ti vuoi mettere con me a sentocheèvenutoilmomentodidareunasvoltaallanostrarelazione, e voleva dire proprio quello), circoscrive come tutti i termini nuovi in un gruppo e ritaglia dal resto del mondo. Con qualche rimpianto e per un fatto anagrafico appartengo tuttavia al resto del mondo, quello che per abitudine alla lingua non sesseggia. Perché il piacere parte da là (per quelli con la mia verecondia intendo), da parole che accarezzano e non graffiano. Ma i tempi cambiano e oggi si sesseggia e va bene così. Almeno finché non troverò in chat un messaggio pornografico del tipo: ciao, ti vuoi iscrivere al Pd? A quel punto comincerò piuttosto a sesseggiare.
DOWNLOAD
Per chi non lo sapesse vuol dire scaricare un file da internet. Ho aperto la pagina Twitter di Mario Adinolfi per fare il download di una sua foto (e sul perché stendiamo il velo pietoso, lenzuolo anzi vista la mole) e l’Iphone in autonomia l’ha salvata nel formato jpg-LARGE. Al software riconosco l’intelligenza nel riconoscere i formati (e gli sformati) e una buona dose di ironia.
NETIQUETTE
In Internet, con la parola netiquette si intende il complesso delle regole di comportamento volte a favorire il reciproco rispetto. Navigando sui social non solo ho imparato una nuova parola: UOMINISMO (per simmetria con femminismo) e il derivato uominicidio o maschicidio, ma soprattutto che le regole non le rispetta nessuno. O quasi. La storia sulla quale mi sono concentrato è questa: ad Arezzo una signora ha ucciso il marito con un mattarello e il popolo dei social si è espresso con improbabili neologismi. Ma non è questo che mi ha sconcertato (mi ero già rassegnato al ke, con la k), la Boldrini piuttosto. Lei che c’entra? I commenti che più mi hanno stupito sono i seguenti:
1) Come si definische questo omicidio? Presumo sia un UOMOINCIDIO. Il pendant del femmincidio. Solo per curiosità. Questo povero marito che male ha fatto?
2) Omicidio Boldrini, stupro Boldrini, violenza Boldrini, rapina Boldrini, terremoto ancora Boldrini….
Tesi: il pd con la crisi economica che ha creato sta uccidendo tutte le famiglie italiane
Antitesi: Sono le illusioni 5stelle che creano queste tragedie.
Sintesi: Un classico e poi i partiti sono tutti uguali
3) Ma non era meglio un piatto di tagliatelle ai porcini invece che fare arrabbiare tanto la moglie?
4) Cmque adesso boldrini e company non dicono cge bisogna fare una legge x proteggere gli uomini dalle donnne violente????
5): un altro maschilicidio
6) Finalmente un uominicidio!!
7) La moglie uccide il marito a botte di mattarello. Ci voleva (emoticon che ride)
8) Santa subito!
9) Ah, ecco a che servono quei bastoni de legno.
FAKE
Un fake è l’utente di un newsgroup, di un forum o di una chat, che falsifica la propria identità, spesso con lo scopo di danneggiarne la reputazione di qualcuno o di ottenere qualche vantaggio. Una fake news è una notizia falsa.
Aprendo pagine a caso in rete ho scoperto che è morto Paul Horner, Mr. Fake News. Il geniale inventore di bufale del web (in concorrenza con i giornali italiani, rispetto ai quali rimane comunque un dilettante.) Se n’è andato a 38 anni, così annuncia l’Huffingtonpost. Ma deve appunto essere un fake.
CYBERMOLESTIE
Nell’epoca del cybersesso non potevano mancare i cybergmolestatori. Ai miei tempi c’erano le bambole gonfiabili, da quel che vedo sono ora arrivate le cyborfanciulle. La vittima si chiama Samantha (una cybermora formosa decisamente sexy che costa solo 3000 sterline) e ha riportato danni gravi alle dita. E’ stata trovata sporchissima dopo la sua apparizione al Festival di Linz, ma la molestia si è limitata (pare) al palpeggiamento dei seni, delle gambe e delle braccia. Gli inquirenti non hanno rinvenuto tracce organiche sul corpo, le indagini sono però ancora in corso. Sembra comunque che la cybercreatura sia attrezzata per gemere quando quelle parti vengono maneggiate. Se ci sia stata complicità o mutuo consenso lo deciderà il giudice; trattandosi di una cyberdonna possiamo tuttavia supporre che il togato concederà ai cybersuini le attenuanti del caso.
Cito un’altra fonte, in modo che Cuore non mi annoveri tra i molestatori: https://goo.gl/Z5CsSF
Ed è il momento di trarre le conclusioni e di dare i voti: la tecnologia è bella e mi piace, mi piace meno chi la usa (sempre per via del deficit da pollice opponibile, che non mi ha fatto sviluppare le aree corticali ovviamente). Se si riduce a questo causa età geriatrica e sindrome da pannolone rimango fermo nella convinzione di Flaiano: la stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia.
Voto tecnologia: 9
Voto utenti generici (ma confesso che il voto basso è partorito dall’invidia per il dito prensile): 6
Voto utenti dei social (senza invidia): 1.
E con questo chiudo, cara dolce gentilissima Cuoreruotante, sperando di avere espiato, in ginocchio ma non sui ceci, su migliaia di microchip. Che è pure peggio.
Una domanda per te ce l’ho ed è più che altro un dubbio: non sarai anche tu una App?

“Sei cose impossibili” Tag

Il mio amico Red, stimolato da Cuoreruotante (la curiosità, lo sappiamo, è femmina) che così ha proposto: ho pensato di creare un Tag con l’augurio che, come diceva la Regina ad Alice, allenandoci giornalmente a pensare a sei cose impossibili, possiamo avere quello stimolo in più che ci aiuti a credere che le giornate, a volte, possano anche stupirci ed essere migliori delle nostre aspettative, andando al di là di ogni nostro scetticismo, mi ha invitato ad aderire a una catena di S. Antonio. Appuntare nel blog sei cose impossibili, nominando a mia volta altri sciagurati. Ognuno dei quali ha l’obbligo (altrimenti che catena è?) di inserire nell’articolo il logo di Alice’s in Wonderland, di proporre sei cose inattuabili, di nominare altri sventurati. Con l’invito ci vado a nozze (si dice così, mi pare), nei luoghi nei quali scrivo sotto al mio nome c’è anche quel che faccio: manipolo paradossi; potevo insomma non partecipare?

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TESI:  le cose impossibili devono essere irragionevoli, inedite e appunto paradossali. La logica si occupa della verità e a noi è invece richiesta l’incoerenza della verosimiglianza. La differenza tra ciò che è vero e quel che è verosimile è tutta qua: la cosa impossibile non è e non può essere ma quanto ci piacerebbe che fosse così come la vogliamo (svincolata dall’abitudine e dalla coerenza logica).

ANTITESI: le cose impossibili sono incoerenti. La coerenza è l’incrostazione della lingua a parlare delle cose sempre nello stesso modo. Hume e Husserl erano incoerenti, tra la parola e la cosa esiste un legame culturale e mai veramente aderente alla realtà. Ciò che reale è anche irrazionale, il buon Hegel se ne faccia una ragione.

SINTESI: impossibili, incoerenti ma verosimili insomma, come le copertine di questi libri, editi o meno da qualche improbabile editore. Ma è poi importante che qualcuno li abbia davvero pubblicati?

 

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ARMANI

Veniamo alle nomination. Lo scrivo con un tono notarile, perché non può che essere così per una catena che ha il nome di un santo. E dunque: Per l’autorità conferitami e con i poteri che mi sono stati dati, nomino e senza possibilità di appello (ma la lista presto si allungherà, perché troppi ne ho in mente)

Andrea Taglio

Ero sveglia: poi ho capito Freud

Marzia, alchimie

Alemarcotti

GengisJokerKhan

GRAZIE

Amazon oggi mi ha scritto che è ancora il più venduto.  Che Tolstòj mi perdoni. Grazie a chi l’ha acquistato.

Anteprima     https://goo.gl/cU4NuY

 

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LA REGOLA DELLO STUPRO

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E’ successo ieri a Milano: una donna di 81 anni è stata violentata. Questo è un Paese per vecchi, immobilizzato e polveroso. I giovani se ne vanno e anche agli stupratori tocca insomma arrangiarsi. Quando hai fame (giusto per mettersi nella testa del suino) non stai a sottilizzare: non t’importa l’età della gallina, comunque fa buon brodo. Lo stupro come altre forme di violenza sta diventando la regola nel Paese delle eccezioni. Ho provato a delineare un identikit dello stupratore medio e di come agisce. Sembra ci sia un rituale nella scelta della vittima (donna, il più delle volte, qualche trans perché lo stupratore non fa differenze di genere e a volte pure di specie), del luogo (spesso isolato per ovvie ragioni), dei modi (dall’avvicinamento, all’atto, alla fuga). Il canovaccio è sempre lo stesso.

Regola I

Lo stupro è quella curiosa pratica sessuale attraverso la quale prendiamo possesso del corpo dell’altro senza che l’altro lo desideri. Stuprare non è facile, raramente è qualcosa di istintivo; richiede attitudine e sacrificio; il primo dei quali è quello della coscienza: lo stupratore è convinto che l’altro esista unicamente per i suoi vomitevoli passatempi. Non è forse nato apposta?

– Chi è lo stupratore: chi aspira a diventarlo deve essere cinico, violento, erotomane e complessato. Non entro nel merito dell’indagine psicoanalitica, ma ci siamo capiti: ce l’ha piccolo. Se non è tutto questo è meglio che rinunci. Onde evitare brutte figure; onde evitare che l’altro ci stia.

Regola II

– Come si veste lo stupratore: l’abbigliamento sembra fondamentale, curato nei minimi particolari. In testa un passamontagna, spesso forato all’altezza del bocca in modo che consenta il passaggio della lingua. I pantaloni hanno tassativamente la cerniera lampo; sbottonare richiede del tempo e il suddetto non ne ha molto a disposizione.

Regola III

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– Come agisce lo stupratore: scelta la preda (morigerata nei costumi e pura nello spirito, insomma per quanto è possibile illibata: se non lo è, il rischio è che non solo partecipi attiva allo stupro, ma che ci prenda magari gusto), dapprima si comporta con discrezione e gentilezza, onde conquistarsi la fiducia della stessa. Se la vittima sospettasse le vere intenzioni potrebbe non solo dileguarsi, ma decidere o meno di cedere. E il vero stupratore non accetta regali: quello che vuole se lo prende e basta.

Regola IV

– Dove porta le sue vittime lo stupratore: ottenuta la fiducia, la preda potrà seguirlo ovunque. Anche di notte in strade deserte, magari nel suo appartamento. L’essenziale è che fino al momento della rivelazione non si accorga di quello che succederà da lì a poco. L’arma prima di uno stupratore è infatti il terrore, e il terrore non può avere alcuna preparazione. Il virtuoso non opera comunque mai in metropolitana.

Regola V

– Come si rivela lo stupratore: se in macchina, e la vettura è munita di un apparato elettrico, comincia a chiudere gli sportelli automaticamente preparando un eccitante clima di diffidenza. Cosciente di non di non avere possibilità di fuga, è quanto meno probabile che la vittima rimanga terrorizzata facilitando il compito. Ad ogni modo la rivelazione è sempre brutale e inattesa: se finora avrà sospettato, da adesso non dovrà più avere dubbi.

Regola VI

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Che cosa fa uno stupratore: uno stupratore stupra. Affinché si possa però parlare di violenza è necessario che il predestinato non solo non sia consenziente, ma che non ci goda nemmeno. Se gode, come sa ogni giudice chiamato a pronunciarsi sull’ipotetico reato, non c’è violenza ma mutuo consenso. Supposto quindi che la vittima non ci stia, la successione degli eventi è  sequenzialmente impostata:
1) assoggettamento della preda: il rituale porta a mettersi sopra ed impedirle ogni movimento;
2) i vestiti non vengono tolti ma lacerati, le mutande strappate (il rumore del tessuto che va in frantumi suscita un vero stato di panico);
3) il coito è rudemente animale (cosa che rende più imbarazzante e posticipa la denuncia). Per evitare di farsi mordere la lingua lo stupratore evita il bacio in bocca;
4) la regola è quella di insultarla, violentandola anche a parole (come se in fondo le piacesse). L’umiliazione dapprima suscita qualche reazione, poi subentra la rabbia, lo svilimento e infine la resa;
5) ad eiaculazione avvenuta lo stupratore si alza e si allontana con indifferenza, come se nulla fosse accaduto: non lo ha infatti voluto lei? Quante storie, si vedeva che non desiderava altro.

Regola VII

– Come abbandona la sua vittima lo stupratore: completamente nuda e magari malconcia. Lo scopo è di impedirle di correre a chiedere aiuto; se perciò non avrà vestiti addosso e sarà dolorante è evidente che il suino potrà allontanarsi in tranquillità. Perché il carattere dello stupratore è quello: la tranquillità d’animo e la coscienza di avere fatto la cosa giusta.

Da Lezioni di sesso (il sesso in cinque lezioni)

 

L’AMORE NEL MULINO BIANCO

La pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva; attira, corteggia, stimola l’azione e il comportamento. Il messaggio pubblicitario, breve ma ripetitivo, riproposto all’inverosimile lusinga, lambisce il desiderio, non aiuta però a conoscere. Ha una lingua elementare e emotiva, perché se il prodotto è di largo consumo deve arrivare a chiunque. Una valvola mitralica non necessita di essere pubblicizzata. Il tecnico la compra sulla base di informazioni che dettagliano l’oggetto per quello che è. Non sempre il prodotto è buono, è vero, ma a quel punto ci sono le leggi e una valvola difettosa manda il paziente al Creatore, ma il chirurgo diritto in tribunale. Tra ciò che si dice dell’oggetto e l’oggetto deve esserci una corrispondenza o quantomeno l’articolo è tenuto a rispettare i requisiti minimi di sicurezza e funzionalità. Questo per dire che ci sono prodotti che non richiedono la pubblicità perché la qualità e una buona gestione del mercato li fa vendere e altri invece, la maggioranza delle cose, in cui la qualità risulta marginale per la vendita. Ma è cosa nota, un pessimo prodotto si vende comunque, basta saperlo raccontare. Ci sono cose inutili, di cui non abbiamo bisogno, spesso dannose che vendono moltissimo. Altre più modeste nella comunicazione ma con caratteristiche superiori rimangono sullo scaffale del supermercato. La discriminante che stabilisce il successo di un prodotto è proprio la pubblicità, una buona campagna di marketing non racconta l’oggetto, lo rende desiderabile finché crea il bisogno e spesso anche una reale dipendenza. Quante volte avete sentito dire: mio figlio mangia solo i biscotti del Mulino Bianco? Ecco, non è vero; o meglio la mamma fa in modo che lo diventi. Lasciato il bambino in una foresta solo con i biscotti all’olio di palma, li mangia eccome e magari anche la confezione e la commessa che glieli ha venduti. La cui commestibilità peraltro (parlo della commessa) non è mai stata veramente provata.

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Analizziamo come esempio lo spot di Gavino Sanna: il Mulino Bianco ha acquisito credibilità, racconta una storia (il mulino, il prato, le spighe di grano) e la famiglia pur vivendo isolata, in un’abitazione medievale, in mezzo al nulla è felice perché ha tutto ciò di cui ha bisogno, i biscotti che benché riportino l’avvertenza sulla confezione “non contiene olio di palma”, sono stati  (il più delle volte) maneggiati con lardi idrogenati, edulcoranti e altro ancora; che abbiano inquinato la Salerno-Reggio nel trasporto dal mulino a casa vostra, che il grano provenga da Chernobyl passa come un peccato veniale. Le mamme sanno che l’olio di palma fa male e i pubblicitari lo ricordano loro ogni volta che possono. Non ho mai veramente capito perché non ci sia allora la scritta “non contiene uranio o acido arsenioso”. Vabbè. La pubblicità ha istruito le persone prima ancora delle università e conosciamo i danni che provoca l’olio esorcizzato con una competenza pari se non superiore a quella di un medico internista. Ma il Mulino Bianco è un marchio e un marchio dà fiducia e poi l’ha detto la televisione. Abbiamo votato un pubblicitario per vent’anni, non stiamo parlando del nulla. La pubblicità non veicola solo il consumo, in realtà fa qualcosa di più radicale, racconta l’attualità, non guarda al futuro ma al presente. Le interessano i soldi, quelli che abbiamo ora non quelli improbabili di domani. E’ così racconta storie reali più del reale stesso. Guardando Ernesto Calindri che beve il Cynar al tavolo in una strada trafficata, si capisce subito che siamo negli anni ’50 o ’60, oggi se va bene gli automobilisti ti stirano, dopo ovviamente averti fregato il digestivo. Oppure il povero Franco Cerri che ha vissuto un decennio nella lavatrice per convincerci che stare a mollo nel Bio Presto è meglio che tuffarsi nel mare dei Caraibi; oggi sarebbe un comportamento antisindacale. O ancora il gentiluomo che con una flessione sicula dice alla moglie: “Io ce l’ho profumato”, insorgerebbero le donne del mondo civile. Che dicesi civile proprio perché se anche ce l’hai profumato, non puoi comunque dirlo a nessuno e meno che mai a un esponente del sesso femminile. Per non dire di quella signora che confessava alla nipotina che Gennarino (pur gran lavoratore) non aveva il pesce come Santuzzo suo. Qua si configura proprio il reato di molestia a un minore, e non mi pare poco. Una pubblicità del genere sarebbe oggi improponibile. E’ però inutile dilungarsi, ma tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla famiglia Boccasana. chiudo questo scritto con alcune immagini promozionali, normali una volta e assolutamente inconcepibili nel nostro tempo. Per inciso, mi piacciono più di quelle attuali; hanno dell’ironia e un nobile artigianato della parola che Oliviero Toscani se lo sogna. La pasta Barilla “ditalini” non scioccava nessuno, veniva richiesta con tanta naturalezza quanto ingenuità. Come quel condomino in uno spot degli anni ’90 che sentita la vicina ricciolina e desiderata gridare  con rabbia: “Esco e vado col primo che incontro”, si fermava davanti alla porta dicendole con un sorriso alla Pozzetto/Johnny Depp: “Buonaseraaaa”. Qualunque mora dai capelli increspati e con un Diavolo per boccolo oggi gli risponderebbe: e tu, che cazzo vuoi?

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Il mio preferito rimane comunque lui

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il video alla pagina

Un mio maldestro tentativo di spot pubblicitario (booktrailer)

Renato Pozzetto, i libri, l’omosessualità

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