LE FLATULENZE DI NONNA

Ieri ho ribloggato sbadatamente l’articolo di GengisJokerBaneKhan. Sbadatamente perché non era voluto; per sopraggiunti limiti di età non posso più discutere di sesso orale. L’argomento mi affascina, intendiamoci, sul piano ovviamente filosofico. Parlare di sesso in maniera autobiografica è una cosa da giovani virgulti e qua quel poco che è sopravvissuto lo dobbiamo oramai al Sildenafil; il rischio è di passare per un adolescente di ritorno, o un vecchio satiro che non si rassegna all’entropia della carne. Ci ho però pensato sopra e ho scritto questa cosa; l’articolo è diviso in tre parti: cose che non puoi più fare in età geriatrica; perché è bello essere anziani; le flatulenze quali ultima sublimazione della sessualità.

vecchio

COSE CHE NON PUOI FARE IN ETA’ GERIATRICA

Gli ostacoli sono di ordine psicologico e somatico; morali no, gli anziani sono infinitamente più licenziosi dei ragazzi. Il Diavolo non li vuole più e allora non rimane che pontificare. Non puoi guardare con interesse una fanciulla o approcciarla come farebbe un giovane, il rischio è che la stessa inveisca contro il vegliardo laido e sporcaccione, esponendolo al diniego e alla riprovazione dei passanti. Vecchio porco, ricoglionito, ha un piede nella fossa ma vuole esumare la mummia dal pannolone, se Renzi non gli dava gli 80 euro era meglio (congiuntivi a parte il senso non cambia). Insomma ci siamo capiti e non è bello. L’anziano non può rincorrere una giovane per strada, l’osteoporosi, l’artrosi, la sciatalgia e spesso l’enuresi non glielo consentono. Qualcuno poi ha l’enfisema, difficile starle al passo. Il bacio diventa complicato con la protesi dentaria e sa anche di Kukindent; le mani causa artrite si serrano ai fianchi come tagliole e ci vuole molta fantasia per assimilarle alle carezze; l’epidermide a pelle di daino non scivola su quella levigata; le resurrezioni sono rare e si fanno sempre più insoddisfacenti, il vecchio prima che a una disfatta si espone al ridicolo: non sa neanche lui se quello che sente nel cuore è amore o uno scompenso atriale. Se è un anziano a dire: mi fai morire, ebbene è meglio prenderlo in parola.

PERCHE’ E’ BELLO (TUTTO SOMMATO) ESSERE ANZIANI

Una ragione si deve pur trovarla per andare avanti, perché ai vecchi rode proprio il culo. Quando qualche neurone sopravvive ancora, vedono bene che mentre loro fanno briscola al circolo degli ottuagenari, i nipoti si accompagnano con ninfette che provocano le rigidità a tutti note. Alla fine il risentimento è abbastanza naturale; vero è che la natura sia diventata impietosa e consente loro di perpetuare il rancore oltre ai limiti fisiologici. Una volta la fine sopraggiungeva prima ancora del deterioramento organico e mentale; le cose sono però cambiate. Malauguratamente o per fortuna, fate voi. L’anziano gioca a bocce o a poppe (come ho sentito dire), dal filosofo Karl Poppe; è un epistemologo per erotica assonanza. Non esce la sera ed è libero di farlo, nessuno gli chiederà mai se sta male, se la ragazza lo ha lasciato, se ha problemi a socializzare. I vecchi stanno a casa e si sa. Guardare i cantieri è uno sport eccitante e travolgente, gli sbarbati non possono capire. Il gusto di dare buoni consigli arriva con l’età e il giudizio (lapidario ed è il caso di dirlo) stimola un rigurgito di piacere: ai miei tempi ! Con quel che lascia intendere la sentenza: non come voi debosciati e drogati; finocchi qualche volta (perché tanto i giovani sono sempre e comunque attratti dalle aberrazioni: e per il vetusto vuol dire tanta droga e poca figa). La pensione, vabbè lasciamo stare, con quella non ci campano e non infierisco. Il privilegio della badante qualcuno però ce l’ha e l’amore al catetere è un’esperienza unica e irripetibile (anagraficamente parlando). Rutto libero e flatulenze varie, il corpo che si decompone espelle tossine aeriformi; rispetto ai giovani gli anziani possono concedersi qualche disinvoltura lasciandosi andare ai piccoli legittimi godimenti del corpo in decadenza. Ma questo è appunto il prossimo argomento, che è anche un caro dolce ricordo di nonna Cecilia. Sorda come una campana, che rombava tranquillamente per casa le commoventi esternazioni. Inconsapevole del fatto che i parenti ci sentivano invece benissimo.

LE FLATULENZE DI NONNA

Nonna scoreggiava. Nella vita o ti scoraggi o scoreggi; c’è un filo diretto tra la visione del mondo e quel che avviene nell’epigastrio; al di là delle diverse profondità che vanno dal pensiero (più in superficie) alle emozioni (che si radicano piuttosto nella paleocorteccia) quello che conta viene concentrato nella pancia. C’è chi trattiene, gli idealisti e i metafisici per intenderci che pongono una barriera intellettuale tra le cose, e chi come nonna (che era fenomenologa prima ancora che materialista) le avvicina senza sovrastrutture linguistiche o formali. Le cose si possono pensare o vivere, nonna di più a quanto pare le fagocitava. Di per sé già la parola comprensione rimanda alle mani e al corpo che afferrando qualcosa conosce; nella fagocitazione c’è qualcosa di ancora più profondo, la masticazione del pensiero che diventa appunto una ruminazione, con quel che ne consegue sul piano fisiologico. Perché nonna ruttava, seppure arrossendo al momento dell’emissione di quella gutturale il cui suono è pur sempre sgradevole. Faceva brup e qualcosa di simile al raglio di un asino, poi si metteva la mano davanti alla bocca (poi, perché le mani non erano sincronizzate e i movimenti si facevano lenti con gli anni) quasi a scusarsi per essersi lasciata andare ai bisogni ineluttabili. Ed è proprio questo il punto, si lasciava andare verso le cose come se Platone (o Agostino) non fosse esistito. Le idee sono pur sempre portate da intellettuali e il suo era uno stomaco contadino abituato al poco in tavola; l’ho vista inorridire davanti a antipasti raffinati ma non sostanziosi. Le idee appunto che mettono fame e non saziano mai. Nonna non aveva quella forma di analità intellettuale, non tratteneva; si limitava alla sospensione del giudizio quando poteva e se proprio non riusciva evocava dall’intimità ciò che aveva assorbito. Anche i pensieri, che non per niente sono fatti di aria. Non c’è più nonna, era un’altra epoché la sua; con poche certezze, nessuna verità, ma capace di avvicinare le cose nella loro superficiale e sensuale profondità.

STORIE DI ORDINARIA FOLLIA

Quante piccole improbabili identità. L’identità presuppone un Io sempre uguale a se stesso. Ma io non sono sempre uguale, io divengo” (da Memorie di uno smemorato). Credo sia questo il problema, scrivendo una storia reiteriamo un’identità e vuol dire che ripetiamo noi stessi all’inverosimile. Non credo riguardi solo gli scrittori, ognuno più o meno consapevolmente cerca di dare un ordine alle cose, ma è appunto un ordine e vincola il comportamento. Come i bambini che imparano a leggere seguendo col dito le parole. Queste piccole storie paradossali vanno nella direzione opposta, fanno perdere la traccia all’Io tautologico e lo rendono irrintracciabile. Ci hanno insegnato che cercarsi è un bene, ed è vero. Però  perdersi a volte è meglio.

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L’AMORE SEDIZIOSO

Scendiamo a fare la rivoluzione. Non so, non posso far tardi. E’ una cosa lunga? Domani mi alzo presto, lavoro. Prendi le ferie. Sì e che dico, mi assento un paio di giorni perché vado a fare la rivoluzione? Facciamo così, tu vai poi ti raggiungo un’oretta, dico ai miei che ho l’aperivoluzione. Dopocena è pesante però. Perché? Non so, certe cose si fanno a stomaco vuoto. Tu non hai mangiato? No e ho perso anche il lavoro. Ma i tuoi che dicono? Coglione, scendi a fare la rivoluzione.

L’ALBERO DELLE IDEE

Sto piantando un’idea. Che fai? Scavo nella terra, ci metto un’idea dentro, la copro con foglie, terra e rami secchi. E poi? Aspetto che cresca l’albero delle idee. Quanto ci vuole? Dipende dall’idea, se è buona germoglia in fretta. Posso aspettare con te, voglio vedere se funziona. Certo. A proposito, ho avuto un’idea… Te l’avevo detto che funzionava.

RACCONTAMI UNA BUGIA

Invento bugie. Perché? Sono un uomo libero. E gli uomini liberi dicono le bugie? La verità vincola il comportamento; le bugie sono parole. Sì, ma la realtà è un’altra cosa. Davvero mi stai parlando della realtà? Certo. E come lo fai? Con le parole. E cosa sono le parole? Bugie. Appunto.

RELAZIONI

Non predico mai. In che senso? Le cose, mi interessano solo quelle. Ma le cose fanno pur sempre qualcosa. Non mi occupo di relazioni, quel che fanno tra il prima e il poi è affare loro. E poi non ho l’indole dell’indovino, non predìco e questo fa la logica. Che fa la logica? Copula. Allora è una peripatetica. Esatto.

AMARE

Io ti amare. Ma sei sgrammaticato. La sintassi del cuore, caro mio, si declina solo all’infinito. Però parli come un migrante. E chi non lo è. Cosa? Un naufrago a mare.

PER UN PELO

Buon giorno, sono il pelo nell’uovo. Chi? Sono quello che c’è in ogni cosa. Io conosco il pelo sullo stomaco, il pelo sulla lingua, quello che vince ma per un pelo. Tu che specie di pelo sei? Una specie rara, rendo le cose imperfette. E cosa le rende imperfette? Il pelo. Se non ci fossi io le cose non esisterebbero. Ma va là. Tu conosci cose perfette? Ora che ci penso no, come mai? Perché c’è sempre qualcosa nell’uovo. E cosa? Il pelo. Sì, ma concretamente che fai? Lo vedi che cerchi il pelo nell’uovo?

LA MAMMA DEI CRETINI

Toc toc. Chi è? Sono la mamma dei cretini. E li viene a cercare qua? I nostri figli vanno a scuola assieme, pensavo che forse erano passati. Lei quanti figli ha? Quattro. E dove sono? Sa che non lo so? Mi hanno detto: mamma, andiamo a giocare e non sono ancora rientrati. E lei gliel’ha permesso? Come vede sono incinta. Aspetti, telefono a Carla, magari sono là. Drinnn. Pronto Carla? Sto cercando quei cretini dei miei figli. E li vieni a cercare qua? I nostri figli vanno a scuola assieme, pensavo che forse…

LA GALLINA CHE NESSUNO VOLEVA MANGIARE

Salve, sono la gallina che nessuno vuole domani. Lei mi mangerebbe? Guardi ho la frittata sul fuoco, ripassi domani. All’indomani. Buon giorno, sono la gallina di ieri che nessuno vuole domani. Mi mangia per favore? E perché non l’ho mangiata ieri? Non so, aveva la frittata sul fuoco, quella fatta con l’uovo di oggi che è meglio della gallina di domani. Caro, chi è? La gallina di domani, dice che devo mangiarla oggi. Ma poi le uova vanno a male, la mangiamo domani. Ma l’uovo di ieri è la gallina di oggi, perché mi mangiate domani? Domani sarò vecchia e non potrò fare le uova. Non si preoccupi, gallina vecchia fa buon brodo. A proposito caro dille se mi fa un uovo, che lo metto nel brodo di domani. E se si schiude? Aspettiamo che diventi una gallina e la mangiamo domani. Ho capito, ripasso. Ma non le ho detto quando. Vediamo se indovino, domani? Come ha fatto? Lasci stare, la mamma dei cretini è sempre incinta. E che fa? Cucina le uova.

L FENOMENOLOGO DELLA PORTA ACCANTO

Ciao, sono il tuo nuovo vicino e vedo le cose al rovescio. Scusa? Mi chiamo Rosario, ho fin troppi anni, non ho una donna dai tempi del liceo, sono complicato dicono, bevo per dimenticare ma tanto ricordo benissimo, ho una laurea in antropofilopsicoonomatosofia e non so com’è ma vedo le cose al rovescio. Senti, ho appena visto il film di Moretti, faccio cose, incontro gente… cerca di essere chiaro. Hai presente il paginone delle riviste per uomini? Sì. Io sono quello che lo ruota, lo guarda, lo rigira e alla fine lo rovescia. Ho cominciato così e poi è diventata un’abitudine. E cosa vedi? Le cose al rovescio. Ma perché? I luoghi comuni mi stanno stetti. Sì, ma che fai di concreto? Mi complico la vita. Mi sembra pochino. Complico anche quella degli altri.

AH, L’AMOUR

Dicono: baciami stupido, ma poi si lamentano se non trovano un uomo intelligente; l’amore è una magia e si meravigliano quando lui o lei scompaiono; morirei per te e non muoiono mai. I più arditi arrivano a promesse solenni: ti amerò per tutta la vita (credibile solo se hai 90 anni), mi fai impazzire (e qualche volta succede, quando prendiamo coscienza che è meglio un tso di certe relazioni), ho avuto un colpo di fulmine (belle parole, ma prova a mettere le dita nella presa della corrente e ne riparliamo), l’amore è essere cretini insieme. Ed è vero, solo che eravamo cretini pure prima. Ti sarò fedele con un po’ di pudore non lo diciamo più, ma sottoscriviamo un contratto che impegna finché morte non ci separi. Dopo no, la vita basta e avanza. Il problema è che l’amore è un’esasperazione e con le parole è facile drammatizzare al punto da farne una storia (ho una storia, quante volte lo abbiamo detto?) Perché così si comporta, l’amore fa scrivere storie anche a chi non le sa raccontare. E se in quel delirio vince chi fugge, a quel punto non importa davvero quando nessuno ci corre dietro.

L’ETICA DI LUCIGNOLO

Sai come nascono le bugie? La parola si accosta alla cosa e la lambisce finché riesce a dominarla. Gli adulti non amano la verità ma sono affascinati da chi gliela racconta. E’ un falso problema quello delle bugie; continua pure a raccontarle Pinocchio, ma fai in modo che diventino una verità. Essere burattini vuol dire amare le cose tanto da restituirle alla verità.

Dopo aver letto Jung…

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gli itaGliani (tombeur de femmes)

“Strani questi italiani: sono così pignoli che in ogni problema cercano il pelo nell’uovo. E quando l’hanno trovato, gettano l’uovo e si mangiano il pelo.” Benedetto Croce

GRATIS oggi e domani, il libro (completo) lo potete scaricare alla pagina https://www.amazon.it/dp/B01LJYLB58

copertina

Gli ITAGLIANI

gentiluomini e mascalzoni

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tombeur de femmes

La seconda parte del libro ha un nome sedizioso, Tombeur de femmes. Sono massime e sentenze, uno sfottò per un popolo vittima di luoghi comuni, che tuttavia vive di furbizie e si prende troppo sul serio, difendendo senza vergogna le vicende anche più imbarazzanti della sua storia recente. Da un’altra latitudine le cose si vedono meglio; come i cugini francesi che con qualche ragione ricordano al sussiego degli italiani che les cimetières sont remplis de gens qui se croyaient indispensables. (Dalla prefazione)

Siamo il popolo del “non sono stato io”. Lo diciamo per giustificarci e svincolare dalle responsabilità; da piccoli è la regola e un buon sistema per sottrarsi al battipanni. Da grandi un po’ meno, per quel decoro che sopraggiunge a ricordare che siamo pur sempre adulti e che l’utensile di mamma non fa più paura. Ma sempre lo pensiamo, sdoppiandoci come in un riflesso in cui la colpa non è mia, ma di un altro. Quello là, che non mi piace, che non soddisfa gli intimi desideri di perfezione. I bambini sono diretti, si limitato alla negazione, l’altro non completa la relazione e comunque non sottrae alla punizione. Una mamma in guerra non si lascia deviare dai fantasmi inesistenti, riconosce il nemico e lo va a cercare in trincea. Gli adulti imparano la proiezione, sottile e non sempre riconosciuta. Lo spostamento anche, ma è pure quello una forma di proiezione. In sostanza: siamo codardi per un innato istinto alla sopravvivenza, impariamo ad esserlo da piccoli, ma con meno coraggio di un bambino che davanti al plotone si limita a dire “non sono stato Io”. Troppo comodo dare la colpa a un altro e una mamma in assetto bellico non si lascia ingannare. Gli adulti, nella dilatazione del loro Io in un contesto culturale più ampio danno luogo a quella struttura della società che chiamano stato. Non per niente così l’hanno nominato; quando fanno una marachella nessuno sa chi sia realmente e per l’appunto stato. Eccetto le vittime della proiezione. Sempre loro, le donne, i negri (con la “g” che rende meglio); qualche politico di comodo. Gargamella e Amelia si accodano alla lista a ricordare che il bambino è pur sempre sopravvissuto al battipanni di mamma.

STAI COMPOSTO!

A scuola insegnavano a stare composti. L’educazione cominciava nel disporre il corpo in uno spazio abitato da altri corpi. La postura limita l’Io e lo predispone ad occupare un campo affettivo e relazionale. C’era però qualcosa in più in quei richiami delle maestre, si imparava non solo a non invadere uno spazio comune, ma ad interagire nel vuoto tra un corpo e l’altro. Stare composti voleva dire disporsi con ordine, con misura, avvicinare con leggerezza l’altro riconoscendolo presente. Oggi entri in aula e vedi piedi sui banchi; non stupisce che quegli stessi allievi rispondano male all’insegnante. L’io e le sue funzioni intellettuali si esercitano nel corpo. Un corpo che ha imparato a relazionarsi con lo spazio abitato da altri corpi è ben disposto. Quando una persona ha un carattere ruvido si dice che è indisposta e l’indisposizione rimanda a una rigidità di senso priva di morbidezza. Quella morbidezza è ciò che chiamiamo etica; l’amore dipende da quella prima esperienza che ordina l’Io e le sue passioni.

Gli italiani non sono un popolo rivoluzionario. Non per convinzione, piuttosto per innata indolenza e scarsa propensione al movimento. Vogliono una ricetta che curi i malanni, un farmaco indolore. Niente a che vedere coi cugini francesi, gli italiani sono per la Presa della Pastiglia. La rivoluzione di cui sono capaci è tutta qua.

Tdf/21

La storia italiana non ha mai avuto così tanti rivoluzionari da quando c’è Facebook. Ho visto gente inferocita giustiziare despoti, autocrati e miserabili anche con tre punti esclamativi. Tdf/33

Ciò che mi piace di questo paese è che quando i milionari divorziano vengono spennati dalle mogli. E con quelle non c’è paradiso fiscale che tenga.

Tdf/59

La sindrome dell’arto fantasma procura dolore alla gamba anche quando è stata amputata. Quello che non c’è fa comunque sentire la sua presenza; non si tratta dell’ostinazione a non riconoscere la mutilazione, il fastidio si sente ed è un fatto reale. Ma l’arto non c’è e anche questo è innegabile; dobbiamo allora supporre una memoria che rimane nel corpo al di là di ogni ragionevolezza. E vengo al punto: lo stesso fenomeno si verifica su più piani; Dio è morto da qualche anno ma sembra stia meglio di prima. Almeno in Italia e con quel che comporta sul piano legislativo. Con la politica siamo arrivati a forme paradossali: chiamiamo democrazia e libertà il nostro vivere civile, quando non sono che la memoria storica di un arto fantasma. Un po’ per abitudine e più spesso per indolenza ci siamo accomodati su quelle stampelle. Come nell’apologo di Jung, nel quale un bimbo col sacchetto di ciliegie si incammina dicendo: ne mangio una e conservo le altre a mio papà, ne mangio un’altra e lascio il resto per il papà. Il bambino arriva a casa col sacchetto vuoto, ma con la certezza di avere portato le ciliegie al padre. La democrazia non è un fantasma e il corpo senza la gamba fa comunque fatica a reggersi in piedi; è interesse però di qualcuno continuare a far percepire la presenza di quello che non c’è. Si tratta di un’informazione corrotta; giornalisti lacchè che raccontano al popolo che non manca di nulla. Quel tanto che basta per convincerlo a sentire l’arto anche quando gliel’hanno tagliato.

Funziona così in Italia: “ogni mattina un cretino e un furbo si svegliano. Se si incontrano, l’affare è fatto”.

Tdf/223

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MINISTORIA DEL BAGNO E DEI SUOI INDISPENSABILI ACCESSORI

SULL’IGIENE PERSONALE ET I MODI DI NETTARSI

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(da Consigli, amenità e facezie sopra l’esercizio del

meretricio e dei lupanari)

GABINETTO

L’interesse per lo gabinetto et la funzione sua non è affatto recente. Erasmo da Rotterdam ad exempio nel secolo Sedicesimo cogitava sulle funzioni corporali, consigliando di coprire con un colpo di tosse il suono sgradevole di un peto (“Sostituite le scoregge con un colpo di tosse”), et di non salutare nessuno mentre sta urinando o defecando. La storia della stanza da bagno è però antichissima. Già i primitivi portavano i resti organici vicino a qualche fonte di acqua corrente; fu però nelle isole Orkeney, in Scozia, che diecimila anni fa si costruirono le prime tubature idrauliche per portare gli escrementi fuori dalle abitazioni. Et così per la prima volta la gente poteva andare di corpo nelle case, senza la necessità di uscire all’aperto. In Oriente l’igiene era una specie di culto, tanto che dal 3000 a.C. molti edifici avevano lo bagno privato (in Pachistan sono stati trovati bagni pubblici e privati muniti di condotti in terracotta et rubinetti per lo flusso dell’acqua). I più elaborati tra i bagni antichi appartenevano alle famiglie reali del palazzo di Cnosso, a Creta (2000 a.C.). I nobili minoici pare infatti che si dilettassero in vasche riempite et svuotate da condotti in pietra, poi sostituiti da tubi di ceramica. Le tubature trasportavano acqua calda e fredda, mentre lo palazzo era dotato di una latrina con serbatoio (il primo water closet della storia); tale serbatoio era progettato per raccogliere la pioggia et in sua assenza in modo tale da potersi riempire a mano. In Egitto le comodità de lo bagno subirono un notevole miglioramento; nel 1500 a.C. le case degli aristocratici avevano tubature in rame attraversate da acqua calda e fredda, et l’immersione nelle vasche prese un significato quasi religioso. Con la legge mosaica gli ebrei (nel regno di Davide et Salomone furono costruiti nella Palestina complicati impianti idrici pubblici) fecero dell’igiene nientemeno uno dei componenti essentiali della halakah.

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WATER CLOSET CON SCIACQUONE

Questa imprescindibile comodità dell’età moderna era già in uso dalla famiglia reale minoica 3500 anni fa. Dopo una moltitudine di experimenti, fu solo nel 1596 che Sir John Harrington ideò una “perfetta latrina” per la regina Elisabetta, sperando di rientrare nelle grazie sue dopo che era stato espulso da corte per avere fatto circolare dei romanzi volgari. Lo suo gabinetto comprendeva un serbatoio sistemato sopra l’impalcatura, un rubinetto azionato a mano, una valvola che scaricava le lordure in un pozzo nero. Harrington cadde però nella tentatione di un altro libro, che intitolò “The metamorphosis of Aiax”. L’umorismo irriverente dell’opera irritò nuovamente Elisabetta che lo bandì una volta per tutte assieme alla sua inventione. Et così bisogna arrivare al 1775 per trovare lo primo brevetto di Water con sciacquone; ad opera di un matematico et orologiaio britannico Alexander Cumming. Tale congegno differiva dal precedente per una fondamentale innovatione: il modello di Harrington si collegava direttamente al pozzo nero senza che ci fosse un contenitore d’acqua ad evitare il ritorno degli odori (cosa che la stessa Elisabetta lamentava); nel perfezionamento di Cumming lo tubo di scarico si curvava invece sotto la tazza, in modo da tamponare le esalazioni. Benché di innegabile utilità et di semplice applicazione, ci vollero tuttavia ancora vent’anni prima che il W.C. sostituisse lo vaso da notte.

CARTA IGIENICA

La prima carta igienica viene messa in commercio in America nel 1857, da Joseph Gavetty. Il prodotto, che era in pacchi con fogli singoli, non ebbe lo successo sperato. Gli americani sembra infatti che preferissero i ritrovati de la stampa: cataloghi dei grandi magazzini, giornali, opuscoli, foglietti pubblicitari (che tra l’altro fornivano un utile materiale di distratione). Nel 1879 Walter Alcock provò in Inghilterra a lanciare la moda della carta igienica nella forma dei rotoli a strappo, ma la morale vittoriana non accettò di pubblicizzare un accessorio tanto intimo et imbarazzante. Sempre in America nel 1880 due fratelli newyorkesi, Edward e Clarence Scott, riuscirono alla fine ad imporre il prodotto sul mercato (soprattutto ad alberghi et ristoranti che stavano ristrutturando le latrine per accogliere i nuovi water closet con sciacquone). La carta degli Scott, che era al principio marrone, si trasformò presto nella prestigiosa Waldorf Tissue (detta ScotTissue), portando su ogni rotolo la scritta “morbida come l’antico lino”. Le prime pubblicità erano rispettose della sensibilità de lo pubblico, fino a che dopo la prima guerra mondiale non cominciarono a girare messaggi di questo tipo “Hanno una bella casa, ma la loro carta igienica fa male!”.

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SALONI DI BELLEZZA (TERME)

I romani nel II secolo a.C. fecero dei bagni un ritrovo sociale, dotandoli di giardini, negozi, biblioteche, palestre et sale di lectura. Ad exempio nelle terme di Caracalla si praticavano cure per la salute et la bellezza. Ci si poteva cospargere di oli e abbandonarsi ai maxaggi; godere di bagni caldi, tiepidi o freddi; depurarsi con la sauna; curare i capelli; fare ginnastica nella palestra. Era anche possibile acquistare profumi e cosmetici, dedicarsi alla lectura o ascoltare conferenze, mentre in un’altra sala gli schiavi servivano il cibo et versavano lo vino. Anche se dal principio uomini et donne frequentavano terme separate, in seguito si diffuse la moda dei bagni misti. Tale abitudine continuò per qualche tempo anche dopo l’editto di Costantino (dal principio i bagni non avevano quel carattere promiscuo che presero invece con l’età rinascimentale, quando la parola “bagno” cominciò a significare tanto il bagno quanto lo bordello), finché la nuova religione cristiana non iniziò ad imporre la politica sua (nel 500 d.C. la moda delle terme era oramai decaduta).

SALVIETTE DI CARTA

Uno sbaglio di produzione del 1907 in una fabbrica, portò alla inventione delle prime salviette di carta a strappo. La carta igienica degli Scott proveniva da una cartiera et arrivava nei rotoli, che poi venivano tagliati e ridotti in pacchi formato bagno. Accadde una volta che una partita fosse difettata; poiché il prodotto non era buono per essere usato come carta igienica, uno degli Scott ebbe l’idea di farne delle salviette. Messi in commercio nel 1907, i primi fazzoletti usa et getta erano chiamati Sany-Towel.

RASOIO

Gli uomini si rasavano lo viso già ventimila anni fa servendosi di conchiglie et pietre di selce affilate. Tali strumenti furono perfezionati con l’intervento del ferro et del bronzo. Egizi, greci e romani si radevano quotidianamente (fu il termine romano “barba” a dare origine alla parola “barbiere”). Nelle americhe gli indiani usavano strapparsi i peli della barba uno a uno, utilizzando gusci di molluschi bivalvi come pinzette. Le donne per lungo tempo si sono invece servite della fiamma della candela, sostituita (dopo una serie di attrezzi parimenti dolorosi e abrasivi) nel secolo XIX dal moderno rasoio. Nella nostra cultura lo pelo è stato in generale bandito dalla parti visibili della femmina, eccetto sulla testa, nelle ciglia e nelle sopracciglia (vedi ad exempio H. Bazin, La mort du petit cheval) come surrogato di quella zona che Sigmund Freud chiama il “continente nero”. Ma sull’argomento gli storici dello pelo non sempre concordano nello giudizio, essendoci taluni che chiedono alle compagne loro non solo di fare bella mostra di gambe et ascelle virili, ma di ornarsi abbondantemente le pudende con le zolle di Venere (come puoi leggere nel libro Je suis renvoyé, di Marcel Ayme). Anche tu pertanto, amica mia, potrai secondo lo gusto tuo et lo piacere de lo cliente imbellettarti in quella parte di cui non è lecito dire, a conditione però che il pectiniculus non sia di impedimento al coito. Come è detto in quell’aneddoto che mi fu narrato personalmente da un gentiluomo di cui non faccio lo nome

“Il quale, intanto che si stava con una dama bellissima e di qualità, e le menava stoccate rudi, si sentì a un tratto pungere così forte nei genitali, ch’ebbe mille difficoltà a portare il suo lavoro a compimento. Ma, com’ebbe finalmente terminato, volle tastare il luogo puntuto: e scoprì che costei aveva tutt’intorno alla sua vulva una corona di petali talmente lunghi, ispidi e pungenti, che avrebbero potuto servire a qualche scarpaio in luogo di setole.”

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DENTIFRICIO

Lo dentifricio fu inventato in Egitto 4000 anni fa. Fortemente abrasivo, era realizzato in pietra pomice polverizzata et mischiata all’aceto di vino; la mistura veniva poi passata sui denti con un bastoncino da masticare. Per quanto rustico, lo dentifricio egiziano era certamente più gradevole di quello romano che era fatto di urina umana (nella forma liquida veniva anche usata come collutorio). Le donne romane altolocate pagavano fior di sesterzi per l’urina portoghese, dato che era ritenuta la più forte di tutto lo continente. Il piscio, come elemento delle paste dentifricie e dei risciacqui orali, continuò ad essere usato anche nel secolo XVIII. La caduta dell’Impero romano comportò invece l’arresto delle cure alla bocca. Per cinquecento anni le persone anestetizzarono le sofferenze con intrugli caserecci et extrazioni improvvisate. Gli scritti del persiano Rhazes, nel decimo secolo, segnarono il ritorno dell’igiene dentale; egli fu infatti lo primo medico a raccomandare l’otturazione delle cavità. Allo scopo utilizzava un impasto simile alla colla, composto di allume (ammoniaca e ferro) et lentischio, una resina extratta da una pianta della famiglia del mogano. Benché la sostanza per l’otturazione fosse valida, trapanare una carie richiedeva comunque l’abilità del medico, un’attrezzatura adeguata et un coraggio grandissimo da parte de lo paziente. Il principale problema dei trapani era la rotazione, che era manuale, lenta et dolorosa. Il primo trapano meccanico è del XVIII secolo (munito di un meccanismo rotatorio interno); seguì quello a pedale che aveva però l’inconveniente di surriscaldarsi nella rotazione.

SULLA BIANCHEZZA DEI DENTI

In Europa bisogna aspettare lo secolo quattordicesimo per la rinascita dell’igiene dentale. Nel 1308 i barbieri-chirurghi si unirono in corporazioni; oltre alle estrazioni si adoperavano nello sbiancare i denti (ma anche nel fare la barba, tagliare i capelli et praticare lo salasso). L’operazione consisteva in una limatura dello smalto et in un tampone di acquaforte a base di acido nitrico. Si può immaginare, dopo un simile trattamento corrosivo, quanto dovesse proliferare il marciume della bocca. La pulizia con l’acido continuò fino al XVIII secolo, seminando carie e dolori insopportabili tra la gente.

Per quanto riguarda il fluoro, le cose stanno così: nel 1802, nel napoletano, alcuni dentisti osservarono delle macchie scure sui denti dei pazienti; scoprirono che le macchie erano originate da una interazione tra lo smalto e la quantità di fluoro contenuta nell’acqua della zona. Solo decenni dopo fu chiaro che i denti macchiati erano per quanto sgradevoli privi di carie. Presero allora moda le caramelle a base di fluoro, addolcite con miele, mentre i dentifrici vennero arricchiti dello prezioso minerale.

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DENTIERE

Gli etruschi sono stati i più abili dentisti de lo mondo antico. Estraevano i denti cariati et li scambiavano con dentiere complete o parziali, in cui ogni dente era intagliato nell’avorio o nell’osso, mentre i ponti venivano fatti in oro. Quando una persona delle classi alte moriva, i denti buoni venivano asportati per essere incastonati sulle dentiere. La scientia di questo popolo nel campo dell’odontoiatria non è stata eguagliata fino al secolo XIX. Senza tenere conto della lectione etrusca, i dentisti medioevali insegnavano infatti che le carie erano provocate da vermi dei denti che scavavano per uscire; et era costume tra i ricchi di acquistare i denti buoni dai poveri, che venivano fissati su finte gengive in avorio. Queste dentiere erano agganciate alle gengive con dei fori praticati ne la carne; altre volte ci si serviva di molle per fissare l’arcata superiore, ma erano tanto robuste che bisognava fare una pressione continua per riuscire a chiudere la bocca. L’aspetto delle dentiere diventa più naturale con la Rivoluzione Francese, dato che i dentisti parigini realizzavano i denti in porcellana; in America tale abitudine venne adottata da Claudius Ash, che deplorava la moda di raccogliere i denti sui campi di battaglia. Mentre la porcellana migliorava l’aspetto dei denti finti, la gomma vulcanizzata (perfezionata a fine ‘800) aprì la strada alla prima base comoda su cui inserire la dentatura. Gli interventi furono un decennio dopo perfezionati con la scoperta dell’anestetico (protossido d’azoto).

 

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Da Consigli, amenità e facezie sopra l’esercizio del meretricio e dei lupanari 

NON RACCONTIAMO LE FAVOLE (agli adulti)

sito internet
giancarlobuonofiglio.weebly.com

Ho sempre avuto più erezioni che stati di coscienza, non ne vado fiero, per carità. Per quanto lusingato, una maggiore comprensione delle cose mi sarebbe stata forse d’aiuto. Il problema è che ho lavorato con le idee per troppo tempo e nessuna è stata capace di darmi quello stato di completezza che ho rivenuto patteggiando con un appetito più antico rispetto a quello della ragione. Non ho mai trovato nulla di sostanziale nel pensiero; mi piace essere un corpo e (per cultura e convinzione) diffido di quelli che parlano di anima o spirito. Nel mio piccolo mondo l’anima è quel che rimane di un uomo quando l’hai privato di ciò che dà piacere e lo spirito non lo prendo in considerazione sotto i 15 gradi alcolici. Sono fatto male, è evidente. Poi però penso ai danni che hanno fatto e fanno coloro che diffondono quella malattia dello spirito che è la metafisica, e in qualche modo mi conforto. Alla fine sono onesto con me stesso e con gli altri. Non racconto favole e quando le sento non posso fare a meno di pensare che in qualche modo mi stiano fregando.
(Dalle confessioni postume di Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)

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Biancaneve e le altre storie alla pagina http://goo.gl/5z2du0

Rigurgiti romaneschi

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LA BELLEZZA DE LE DONNE

‘Na donna è bella quanno ride ma pure quanno piagne, è bella quando s’arrabbia, quanno c’ha le cose sue, quanno nun te rivorge la parola o te bacia, in compagnia o da sola, quanno se dà e pure quando se ritrae. E quant’è bella appena arzata, e specie quanno è senza trucco je poi leggere sur viso il bene che te vole. E’ bella ‘na donna quanno te guarda. Te dà emozioni, attenzioni. Quarche vorta preoccupazioni. Ma è bella pure quanno te rompe li cojoni.

ER ROMANESCO

Er romanesco nun è ‘na lingua, è un modo di guardare ar monno. L’italiano è come er vestito de la festa, che lo metti quanno te voj fa’ bello, ma er vernacolo romano è de più; è l’abito sguarcito de quarcuno che lavora, che puzza d’officina e maleodora. Ché non poi dì a quarcuno che te caca er ca, d’annarselo a pijallo in quella lingua là. Lo devi dire con una parolaccia e le parole je devono sputare ‘n faccia. E pure quanno fai l’innamorato, quanno er petto rimane senza fiato, la donna tua nun è ‘na femmina o pulzella, la devi annominà Rosamiabella! E je lo devi gridà forte, come se le parole uscissero dar core, perché è così che si fa all’amore. Co’ quella lingua che nun ha ambizione parlata ar mercato de rione; quanno tra l’odore de pesce e mortadella, la vecchia ar banco de li fiori te mette tra le mani i su’ boccioli, dicenno: “per voi signorì, che siete bella!”.

 

SITO WEB DEL LIBRO  RIGURGITI ROMANESCHI

FORMATO CARTACEO O DIGITALE SU AMAZON E LULU.COM

Il libro è presente nello store Mondadori ed è acquistabile online

 

Biancaneve e i sette vizi capitali

Ci raccontano favole e crediamo a tutto. Quello che non dicono è che Biancaneve gliela dava ai sette nani

Da PER ME BIANCANEVE GLIELA DAVA AI SETTE NANI

WEBSITE  http://permebiancaneveglieladavaai7nani.jimdo.com/

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CRONACHE DALL’EPIGASTRIO

DALLA PREFAZIONE

Per il titolo avevo pensato a “Memorie dal sottosuolo”, ma pare che qualcuno l’abbia già usato. Ho ripiegato su “Cronache dall’epigastrio”, anche perché non era mia intenzione discutere di inconscio, pensiero o anima. Il mio sottosuolo si trova nella pancia e il libro racconta appunto le sue cronache. Non amo i totalitarsmi dell’Io e le sue aberrazioni metafisiche. Esiste qualcosa fuori di me e questa cosa la chiamo reale. Mi hanno insegnato che questo altro da me sia la realtà, e mi piace. Mi piace perché mi colloca, mi definisce, mi dimensiona nella cosa. E mi fa sentire vivo. Se esiste qualcosa, la sua esistenza si conferma non in una relazione col mio percepirla, ma indipendentemente da quello che sono. Non ho un Io tautologico, non mi va di delirare in termini idealistici e penso che la verità non necessiti della mia presenza. Sono certo che possa fare a meno della mia ontologia. Non sono un metafisico e la veritas (come) est adaequatio rei et intellectus (la verità come l’adeguatezza o corrispondenza della cosa e dell’intelletto) mi pare una forma di delirio. E così guardo alle cose e per lo più mi piacciono, le spoglio e le scopro ogni giorno. E ogni giorno mi sembrano meravigliose.

 In vetrina da Mondadori  ALLA PAGINA

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Dal  DIARIO DI UN MORTO

Adesso che sono qua ho capito. L’unica verità è che non c’è una verità. Dicono che la morte sia capace di dare una risposta. La verità è che è inutile anche la domanda, quando si muore si muore e basta. Morire senza avere vissuto, questo mi rode: esiste per un uomo una condanna più grande?

L’hanno portata stanotte. E’ incredibilmente bella, non riesco a smettere di guardarla. Ha gli occhi blu, pelle morbida e liscia, bianchissima. Le labbra sono rosse e carnose, abbandonate in un sorriso limpido e quieto. Il volto è disteso, dolce come quello di chi ha vissuto e amato, la morte sembra averlo graffiato appena. Un uomo chissà da qualche parte starà consumandosi nella disperazione. L’hanno vestita di bianco, come una giovane sposa. Non ho potuto fare a meno di lambire la sua bocca. Non era un bacio, molto di più, come quando si intrecciano i rami di una rosa promettendosi qualcosa di eterno. E’ stata sistemata vicino al mio loculo. L’amerò per sempre.

Ho lasciato la mia anima altrove. Devo pur averla un’anima. Credo stia scontando il mio inferno. Lei sta di fianco a me e non posso averla. Non conosco pena più grande, incontrarla proprio adesso che sono morto. Ogni notte mi lacera il desiderio e il giorno è pure peggio. E’ la mia condanna e il mio tormento.

L’ho baciata e ribaciata ancora, sperando che non si svegliasse. Ogni notte mi alzo, lascio il mio loculo e mi inginocchio sulla sua bocca. Appoggio appena la mia, dolcemente sfiorando quelle labbra che sanno di paradiso. La guardo per ore e mi pare di non avere mai visto niente di più bello. Il desiderio di baciarla mi tiene vivo e ogni notte mi sembra una meravigliosa giornata di sole.

Stamattina hanno interrato Giovanna de Angelis, una giovane donna dai tratti delicati, pelle morbida, occhi vivi ma arresi, sfiorita mi pare troppo presto. Sembra sia morta di cirrosi; beveva e come tutti per dimenticare. Chissà cosa poi. L’ho guardata a lungo, portava i segni di una crudeltà vissuta sulla pelle. Tutto quel dolore non era però riuscito a cancellare la nobiltà del volto, aveva anzi conservato serenità e un certo candore. Bella come tutte le donne sanno essere. Aveva sofferto e ho avuto la sensazione che avesse in qualche modo scontato il suo inferno. Pacata più che rassegnata; niente avrebbe più potuto procurarle sofferenza. L”inferno è già qua (pensai alzando le spalle) e rimane una parola vuota quando si è bruciati nel rogo della vita.

Il defunto di fianco mi ha raccontato il paradiso, pare lo abbia visto. Non lo so, ma tutto quel bagliore, quella inamovibile quiete, l’armonia, l’assenza di disperazione e vuoto, tutta quella domestica tranquillità mi ha messo in apprensione. Comincio a temere che il suo paradiso sarà per me un inferno.

Ambrogio De Toma l’hanno appena portato. E’ un ometto minuto, ceruleo, smunto, vinto dalla vita. Ha le mani piccole, doveva fare lavori non manuali, di poco conto. Un impiegato direi, ma di basso livello. Sposato male, porta segni di una radicata infelicità. Se quella con il ghigno è la moglie, la sua dipartita non deve essere stata tanto dolorosa. Sulla sua tomba ha fatto appuntare con una certa rassegnazione: “Qualunque posto, anche questo, è sempre meglio di casa mia”.

Una mattina di maggio non mi svegliai. Il medico non poté che constatare l’insuccesso della sua scienza davanti a un corpo inutilizzabile. Ero oramai una cosa; mi liquidò con un secco “deceduto”. Lo scrisse con disprezzo guardando quello stupido pezzo di carne che sfuggiva alla sua manipolazione. Più di tutto avevo deluso le sue aspettative morendo. Credo abbia anche borbottato “che stronzo” dietro al feretro.

Credo di essere morto appena venuto al mondo, unica cosa degna di nota nella mia biografia. Poi non ho combinato gran che. Il mio necrologio è stato: “Qui riposa, per la seconda volta …”. Appuntato dalla penna di un briccone che mi conosceva bene.

Sono morto il 20 maggio del 1970. Di crepacuore, dicevano. In realtà sono morto d’inedia e di noia. Non mi è dispiaciuto. Morire è stato nulla. Vivere era peggio.

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CRONA 1

LE FAVOLE E ROLAND BARTHES

NONNA, MA CHE BOCCA GRANDE HAI

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Nelle favole avviene qualcosa di simile al sogno; si
affievolisce la distanza tra ciò che è buono o cattivo,
giusto e sbagliato, la scena si carica di significati
radicali e il discorso si svuota di un ordine e del
senso. Sono fenomeni complessi dal punto di vista
della narrazione. Cappuccetto non è impaurita dal
lupo, si lascia anzi avvicinare. Cosa improponibile nel
linguaggio quotidiano, ma che sembra essere la
norma nella narrazione fiabesca; si fida del lupo
cattivo (o del gatto e la volpe, o ancora della matrigna
e della strega). Ed è interessante comprendere come
una bimba ritenuta responsabile al punto da
percorrere in solitudine un tratto nel bosco, possa
rivelarsi tanto sprovveduta. Barthes spiega così
l’assurdità di questo comportamento. Individua due
piani del senso: quello informativo (proprio della
comunicazione) e quello simbolico (della
significazione). Rinviene però anche un altro senso, la
“significanza” che è di difficile integrazione
nell’ordine della storia. Scrive che il senso del
simbolico è intenzionale, evidente, senza ombre
(“senso ovvio”, da “obvius”, ciò che viene incontro),
mentre quello della significanza è ostinato,
inafferrabile e impronunciabile (“senso ottuso”, da
“obtusus”, che significa smussato, arrotondato, liscio
e perciò complicato da afferrare). Con questo
elemento Barthes intende rivalutare le facoltà delle
immagini di rimandare a un senso avulso agli altri
sensi esprimibili con le parole. L’ottuso/lupo cattivo
non è intenzionale, non ha un significato, non
appartiene alla lingua (“Il senso ottuso è un
significante senza significato”); non è solo l’oggetto
dell’ottusità, ma è l’Io stesso a diventare ottuso. Ed è
per questo che il cattivo delle favole non terrorizza da
subito le vittime, le avvicina. Il suo modo di
raccontare e raffigurare è quello della significanza
che non ha l’impudenza della significazione, la sua
oscenità. L’ottuso è riservato e discreto, percettibile
appena. Si traveste. Esorta a uscire dalla scena,
piuttosto che a disturbarla, divora la protagonista; si
comporta come il sublime dell’Analitica che invita
l’incappucciata a seguirlo altrove. Il cattivo delle
favole ha un suo fascino, piace più che terrorizzare.
Biancaneve mangia la mela, Pinocchio segue
Lucignolo/Lucifero nelle scorribande e Cappuccetto
si lascia ingannare dal lupo. La narrazione
comincia con “c’era una volta” e termina con “e
vissero felici e contenti”, sta stretta ai personaggi
delle favole; il cattivo smussa appunto gli angoli della
storia, la rende digeribile. Le sens obtus è ostinato e
sfuggente, calmo ma irritabile; seduce, rapisce,
divora. Per figurazione l’ottuso rimanda
all’arrotondamento, all’addolcimento della
significanza rispetto alla significazione. I cattivi delle
favole si travestono, dimostrano una maggiore
duttilità a trasformarsi nel contesto della narrazione.
Il lupo cattivo è lo smussamento di ciò che è
spigoloso, di definito nel racconto, fastidioso tanto è
attuale; l’addolcimento di un senso troppo chiaro e
troppo presente. Ma è anche ciò che sfugge alla presa.
Mette fuori posto, colloca altrove. “Nonna ma che
bocca grande che hai”, fa dire l’ostinazione di
Cappuccetto; e lo stupore è qualcosa che passa in
secondo piano e quasi non si percepisce nella favola
dei Grimm. L’arrotondamento comporta la difficoltà
di afferrare, come ciò che non si lascia com-prendere;
l’angolo ottuso, a differenza di quello retto che
richiama alla simmetria e all’identità, può variare, si
muove, è instabile, deforme, grottesco. Com’è
appunto il lupo vestito con gli abiti della nonna. Sul
piano dello scorrimento della storia, comporta che
esso esprima quello che non fa parte della linearità
del racconto, ma la sua discontinuità e la sua
frattura. Il senso ottuso è proprio della significanza
che scaturisce dall’identità, dall’integrità della
significazione. E’ una specie di sporgenza più che un
altro senso (“Nonna ma che piedi grandi, nonna ma
che mani grandi, nonna ma che bocca grande che
hai”), un contenuto che eccede al senso dell’ovvio.
L’ovvio della significazione e l’ordine del discorso
vengono frammentati da questa inclinazione al
diverso della significanza. Il senso dell’ottuso è
improduttivo; come un significante svuotato di
significato, rimane sterile. Il lupo divora la scena,
accentra l’attenzione del lettore prima ancora che
sulla fanciulla o la nonna. Non rappresenta e non
comunica niente oltre se stesso. L’ottuso irrompe
come qualcosa di innaturale, aberrante, che non ha
una finalità. Questo Altro privo di volto sopraggiunge
senza nessuna strategia, alterità o intenzionalità. Si
presenta nella forma di un grottesco che manca di
rimandi, come ciò che ha un senso in sé, che butta
l’occhio, rispetto al quale l’Io si pone in una relazione
di non-indifferenza. Sta in un angolo, guarda la
giovinetta col cesto di focacce, la turba, le prende la
mano e se la porta via. Freud vedeva un fenomeno
analogo all’ottuso nel disgusto e lo metteva in
relazione con l’isteria. Il disgusto è la risposta isterica
di fronte al corpo concentrato nel solo piacere,
riconoscendo in esso i caratteri che sono propri del
fuori scena; una reazione al disordine che nel corpo
diventa nausea o vomito bulimico (in quanto
eccedenza della significazione). La presenza di un
piacere rimosso che non si può soggettivare e che
comporta la riduzione del corpo a oggetto. E quando
il corpo è ridotto alla sola carne compare il dégout,
un malessere che esprime il disagio del soggetto
nell’assumersi la responsabilità del piacere nel
proprio corpo. Il lupo cattivo vuole il corpo di
Cappuccetto, desidera mangiarlo. La fame d’amore,
o la sua eccedenza bulimica che si trasforma in
rabbia e disgusto, fa dire all’incappucciata: “Che
paura ho avuto! Era così buio nella pancia del
lupo!” . La pancia appunto, la fame bulimica, perché
la funzione del cattivo nella storia è quella di
mangiare, e davvero non gli basta mai. Alla fine del
racconto l’ottuso/lupo esce di scena, il cacciatore gli
squarcia la pancia, eviscera la nonna e la nipotina. In
questa fenomenologia il corpo racconta la sua alterità
rispetto all’ordine delle cose e del discorso. È il corpo
segnato da qualcos’altro (la fame, il desiderio,
l’acquolina in bocca) a far implodere l’equilibrio su
cui si sostiene. I limiti del corpo sono i limiti del
lingua. L’ottusità del quadrupede fa perdere al corpo
l’ordine e alla lingua la struttura. Fa perdere la testa
a Cappuccetto, al punto da seguire nel bosco il lupo
cattivo che sopraggiunge a portarla via.

NEL FORMATO CARTACEO e DIGITALE

 

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