PER UNA SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE

Il popolo italiano non si riproduce e quando prolifica non è in grado di confrontarsi con i popoli più evoluti. Si tratta non di una popolazione in decadenza, ma destinata all’estinzione.

Una ricerca ha individuato che il popolo italiano non si riproduce e quando prolifica la sua genìa non è in grado di confrontarsi con i popoli più evoluti. Si tratta non di una popolazione in decadenza, ma destinata all’estinzione. Non c’è molto da aspettarsi da un un paese che ammazza i suoi uomini migliori; i corrotti diventano ministri e gli incapaci fanno carriera, mentre i cittadini guardano la De Filippi. Allo scopo di arrestare l’inesorabile declino, rinnoviamo le norme e le leggi secondo i punti seguenti; affinché uomini e donne presenti sul territorio possano maturare una sana e robusta costituzione.

– Abolizione dell’istruzione di stato; non chiediamo la soppressione degli individui già devastati, ma una ghettizzazione, privandoli degli strumenti della comunicazione e della procreazione, fino all’estinzione degli stessi
– Abolizione del titolo di studio; il cretino con la laurea ha rovinato ed è il nemico di questo paese
. Abolizione degli ordini professionali e delle professioni
– Abolizione della tv di stato e di tutte le televisioni presenti nel territorio
– Chiusura delle scuole e abolizione delle leggi
– Abolizione del lavoro. Si lavorerà per piacere, ciascuno secondo capacità, bisogno e creatività
– Abolizione dei sessi, delle razze, dei luoghi comuni
– Abolizione della figa; per legge istituiamo un declassamento dei contenuti culturali e di senso che prevalgono sulla dignità della femmina
– Abolizione dei patrimoni e dei matrimoni
– Abolizione dell’educazione di stato e delle altre coercizioni culturali
– Abolizione dei confini geografici e culturali, di razza, di colore, di sesso, di specie
– Abolizione delle mestruazioni
– Abolizione delle identità, del nome, dell’Io, della volontà
– Scioglimento della famiglia e dei gradi di parentela
– Obbligo alla lettura
– Coloro che non leggono almeno 300 libri all’anno decadono dai diritti politici e civili
– Obbligo all’ozio, chi verrà scoperto anche solo ad appendere un quadro sarà punito severamente
– Ogni cittadino ha diritto alla felicità
– Ogni cittadino ha diritto al piacere
– Ogni cittadino che incontra un altro cittadino è obbligato a sorridergli; i trasgressori verranno inderogabilmente sanzionati
– Ogni cittadino ha il diritto all’orgasmo, anche sul posto di lavoro; il numero verrà stabilito di volta in volta e nel rispetto dei bisogni individuali
– Ogni cittadino ha diritto a vivere senza Salvini
– Ogni cittadino ha diritto a vivere senza ambizione
– Ogni cittadino ha diritto alla follia, lo stato abolisce a aborrisce la normalità
– Ogni cittadino ha diritto a vivere senza idee, fede, valori.

Lo stato si impegna a far rispettare i punti sopra citati; garantisce altresì:
– Il diritto alla disinformazione; coloro i quali avranno esercitato la professione del giornalista saranno privati dei diritti civili e politici, allontanati dalla città e espropriati dei beni
– Il diritto alla deformità; lo stato incentiva e sostiene ciò che è informe in genere
– Diritti e pari dignità per tutte le specie viventi
– Lo stato difende e sollecita il piacere in tutte le sue forme
– Soppressione degli esercizi intellettuali non finalizzati all’edonismo e alla soddisfazione del corpo.

Lo stato protegge i suoi cittadini dalla cultura, dalle fedi, dall’informazione; difende e tutela il cittadino anche da se stesso.

Per una bibliografia alla pagina  https://www.amazon.it/s/ref=nb_sb_noss?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&url=search-alias%3Daps&field-keywords=giancarlo+buonofiglio

ER LIBRO

Er libro è quarcosa che te fa sognare, po esse in alto o in basso allo scaffale, e nun importa se tratta de sesso o Giovenale, de Biancaneve e de morale: lo legge er colto ar tavolo seduto o sopra ar cesso, il villan fottuto, Le parole nun abbisognano della scrivania, ma de pazienza, curiosità e de tanta fantasia. Poi legge’ de Platone e de’ bosoni, le storie de servi e de padroni, de quarche litania, un po’ de pissicologia. Nun fa niente se er libro è scritto male, ché pure dentro ar cesso se po’ usare; certo dipende dalla carta e da la morbidezza sua, ma mentre sta seduto er culo nun distingue tra l’opera de Dante o d’uno sprovveduto. Anche nella peggior accezione er libro te fa pure dall’igienica invenzione Certo, te po pure dispiacere, ché l’uso suo non è per il sedere: ma perdonate la malacreanza, ve vojo vedè a voi nella tragica mancanza. E dunque er libro portatevelo appresso, ovunque andate ma soprattutto ar cesso. Ve ne consegno uno tra le mani, parla de Biancaneve e i sette nani; pare pure che je l’abbia data: avete voi de mejo pe’ ogni passata?

Rigurgiti Romaneschi

RIGU

Per me Biancaneve…

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QUANDO IL DITO INDICA LA LUNA, LO STOLTO VEDE LA MUTANDINA DI BIANCANEVE

ANDO IL DITO INDICA LA LUNA, LO STOLTO VEDE LA MUTANDINA DI BIANCANEVE

Lo dico perché qualcuno non ha digerito quel “BIANCANEVE GLIELA DAVA”, il mio libro ovviamente senza averlo letto.

QUANDO IL DITO INDICA LA LUNA, LO STOLTO VEDE LA MUTANDINA DI BIANCANEVE

Lo dico perché qualcuno non ha digerito quel “BIANCANEVE GLIELA DAVA”, il mio libro ovviamente senza averlo letto. Ma il torpore intellettuale porta al facile giudizio: si ferma al titolo, la lettura è troppo faticosa. L’impossibile ma verosimile (ed è verosimile proprio in quanto è più vicino alla favola) che tanto piace ai moralisti della lettura, si sostituisce alla verità. Vogliono le favole e c’è sempre uno pronto a raccontarle. I bambini (quelli con cui si riempiono la bocca di belle parole) li fanno stuprare da una lingua che li svuota in profondità; e questo invece è legittimo e si può fare. Destrutturare (che brutta parola) le favole vuol dire restituire alle cose una dignità, spogliandole dalle parole e dai luoghi comuni. Scrivere della vita è un esercizio immorale, lo so, ma vuol dire anche prendersi cura della verità nella maniera giusta, senza sovrastrutture culturali e veli di ipocrisia.

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COS’E’ UNA LETTERA D’AMORE?

PERCHE’ GLI INNAMORATI SCRIVONO LETTERE D’AMORE

La lingua è tiranna in quanto costringe a parlare, a nominare, a disporre in un ordine. Nominare significa identificare, imporre all’altro un’identità. E’ per questo che Barthes invita a fingere con la lingua, a nascondersi nelle parole, dove per l’appunto abitualmente veniamo individuati. Ma per sottrarsi alla lingua è richiesta una scrittura intransitiva, spersonalizzata, desoggettivata e tuttavia intima e radicale. Lo scrittore è capace di silenzio, di eccedenza. Come l’innamorato che ama, ma non per sua scelta. E infatti “Innamorato” si pronuncia nella forma passiva. “Io sono innamorato”, abitato dall’amore. L’amore non dà un ordine, non è funzionale; l’innamorato è fuori posto, come lo scrittore a cui si assimila per una profonda contiguità col racconto amoroso. L’ipergrafia, il bisogno di mettere nella scrittura le emozioni, le poesie, un certo lirismo nel comportamento derivato anch’esso dalla scrittura, come a colmare con un flusso di parole la distanza con l’altro. Anche in senso grammaticale l’amore è coniugale, una coniugazione di termini. L’innamorato parla (comincia così il libro di Barthes, Frammenti di un discorso amoroso) e la parola segue dal flusso della scrittura. L’amore si muove dall’Io all’altro e nel ritaglio semantico in cui costringe la relazione, la sottrae all’intervento di qualunque altro (il nome dell’Io e dell’altro circoscritti dal segno “cuore” ha questa intenzione sacralizzante, il témenos che contiene e protegge il theos). In questo consiste la discrezione dell’amore, la sua “solitudine costitutiva”. La parola d’amore è una parola che proprio tacendo diventa eccedente. Questa parola silenziosa come quella dello scrittore, disturba perché non è funzionale, è anarchica, senza norma, sediziosa. L’innamorato si viene a trovare in una dimensione straordinaria ripetto alle comuni regole della comunicazione. Che la sua sia una scrittura straordinaria lo dimostra il bisogno di ricostruire lo scenario anche quando la narrazione viene a mancare. Narrazione e Io sono infatti continui nel discorso. L’Io ha un crollo quando perde la sua narrazione, o sono presente buchi che devono essere riempiti ritrovando gli anelli perduti nella catena. L’assenza di storia è come un appuntamento mancato, un significante smarrito, la sovversione della successione narrativa, della logica, dell’Io, dell’ordine si riflettono nel carattere frammentato del testo scritto, che difatti anche nella forma della lettera predilige quella poetica, del verso isolato, dell’interruzione a margine. Nasce e muore ogni giorno, l’innamorato va di continuo a capo. Il lirismo dell’innamorato racconta dell’ambivalenza del linguaggio, la tendenza a coprire e scoprire; si esprime in una forma che riferisce della possibilità di bleffare con la lingua, di imbrogliare il potere, attraverso quell’altro elemento sempre presente nel discorso: la significanza, come ciò che eccede, il senso che viene incontro (le sens obvie). L’amore scritto o raccontato come metafora di tutto ciò che è eccezionale, improduttivo, non funzionale. È il corpo innamorato a creare un disturbo nell’equilibrio dei sistemi interni all’ordine del discorso. I limiti del corpo sono i limiti del lingua, la sua frantumazione porta il corpo a frammentarsi fino a perdere l’organicità. Nella relazione l’amante prende coscienza delle potenzialità, ma anche dei limiti del proprio corpo. Nel momento in cui sente il corpo, lo avverte nella sua fragilità come qualcosa di estraneo e non duraturo, che ha un termine. Amare significa sentire la morte sulla pelle come qualcosa di inesorabile. Il rapporto amoroso viene raccontato come una perdita di sé e una tensione verso l’altro. Gli amanti sono eccedenti rispetto all’ordine; equivoci e “transgredienti” (Bachtin). Fluiscono di continuo l’uno nell’altro come se non avessero un’identità o un corpo. Il corpo innamorato è infatti contrassegnato dall’inquietudine per l’assenza dell’altro, come un lutto che anticipa la fine della relazione; la paura dell’abbandono viene esorcizzata con la richiesta continua di rassicurazioni (“giurami che mi ami”). Per Barthes il rapporto d’amore si propone come il luogo del desiderio, come metafora dell’eccedente (Bataille, Baudrillard), del disordine, della frammentarietà. C’è in Barthes un rispetto profondo per l’incertezza. Nell’amore come nella scrittura l’Io è decentrato, perde di consistenza. Diventa una scrittura del corpo e nell’immaginario si presenta nella forma radicale del “ti amerò per tutta la vita”. La scrittura d’amore, in quanto riscrittura, esonda dall’ordine della lingua e si fa “perversa” (Barthes), instabile, porta a estraniarsi dall’appartenenza a una specie in quanto specificarsi, dal perdurare nel proprio essere nel principio di identità. Sovverte le normali regole della comunicazione. La lingua comunica (e scomunica, desacralizza) mentre la parola si muove al di là della comunicazione, non ha bisogno dell’altro. Il significato di una parola non è solo verbale, linguistico, ha anche componenti che derivano dalla funzione pratica, dall’uso. Una parte del significato di una parola sta nel significato che produce in combinazione con altre parole. E’ contestualizzato in un ordine sistemico di interazione, il cui significato è determinato dal codice. La parola si restringe o si dilata, svuotandosi o riempiendosi di contenuti; la grammatica ordina poi la struttura. L’uso della parola è una scelta individuale che risente delle influenze psichiche. La scelta delle parole richiama a un contenuto profondo, legato ad associazioni “inconsce”, oppure consapevoli ma isomorfiche, proprie dell’individuo prima che della collettività e non sempre spiegabili, ma mai prive di senso. Wittgenstein si concentra ad esempio nella modulazione della voce, nella pronuncia, nelle espressioni facciali che accompagnano l’attività di parlare. Saussure considerava il discorso un atto lineare, nel senso che ogni espressione si succede all’altra, non vi è mai espressione contemporanea di più elementi. Ma esistono come eccezione a questa regola i “tratti soprasegmentali”, ossia le modalità espressive che accompagnano l’atto linguistico. La dimensione soprasegmentale suggerita da Wittgenstein aggiunge uno spessore affettivo-tonale alla parola. In una scrittura attraversata dal desiderio diventano determinanti il parlare indiretto, la metafora, la metonimia, il neologismo, la parodia, l’ironia, le diverse “forme del tacere” (Bachtin), non essendo praticabili nel consueto uso della lingua. E ciò spiega il carattere frammentato, ossia la prevalenza delle parole sull’ordine del linguaggio; la parola poetica più che la prosa, l’immagine isolata, il segno elementare, la grafia fine a se stessa che ritaglia i nomi circoscrivendoli (sacralizzandoli e sacrificandoli) dal contesto in un cuore, o anche l”incisione dei nomi su un tronco. Wittgenstein vedeva il linguaggio come un esercizio di traduzione intersemiotica tra immagini mentali e affetti e parole. La relazione si delinea come un’attività traduttiva, parimenti a quella interlinguistica, caratterizzata da anisomorfismo. Un sentimento tradotto in parole e poi ritradotto in sentimento (una ritraduzione) non porta allo stesso risultato. C’è una lingua che scorre nella lingua, con significati che vanno al di là dei significati. L’amore vuole essere corrisposto, proprio perché è una corrispondenza. Una lettera d’amore racconta della disponibilità alla frantumazione della totalità. Affonda la penna nell’immaginare più che nell’immaginario, nella significanza della significazione prima che nel simbolico; è la pratica del significare che precede la comunicazione. La scrittura segnata dalla parola amore, precede il parlare ed è nella sostanza amore per l’altro. Più che un dialogo è però un monologo. Lo dimostra la prevaricazione della parola sulla lingua quando scriviamo una lettera amorosa. Saussure distingueva tra “lingua” e “parola”; la prima rappresenta il momento sociale del linguaggio ed è costituita dal codice di strutture e regole che un individuo eredita dalla comunità, senza poterle inventare o modificare. La parola è invece il momento individuale, intimo, sregolato, mutevole e creativo del linguaggio, la maniera in cui il soggetto “utilizza il codice della lingua per esprimere il proprio pensiero personale”. La lingua si giustica nell’uso e l’uso dipende da un’abitudine che ordina dando, nella regola alle parole, un senso alle cose. A differenza dalla lingua la parola non è un elemento rigido ma in movimento; è soggetta alle modificazioni indotte dall’intervento simbolico, culturale o emotivo. Si muove nell’eccedenza (l’ampio uso del superlativo per indicare l’altro, la punteggiatura esasperata, il ricorso a nomignoli, come se la lingua non bastasse a se stessa), dove l’assenza diventa “rispondenza” prima che corrispondenza, mantiene la domanda in una tensione costante. La lingua comunica, afferisce, mentre la parola differisce (différance); è attraversata dal desiderio indipendentemente dalla comunicazione, non ha bisogno dell’altro.

DA I FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO (l’amore tra l’immaginario e il reale)

sito web http://frammentidiunmonologoamoroso.weebly.com/

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I LIBRI NELLE MAGGIORI LIBRERIE, ALLA PAGINA

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PRIGIONIERI DELLE FAVOLE

 

A volte quello che sembra strano ha una funzione pedagogica. Abituiamo i nostri ragazzi secondo stimolo e reazione; ed è in parte corretto perché forniamo strumenti utili per affrontare le dinamiche del quotidiano. Creiamo però abitudini e le abitudini diventano regole; in qualche modo non solo indichiamo la via ma facciamo in modo che il ragazzo non possa uscire dal sentiero. E allora quella linearità (che è una forma di logica applicata alla morale) si trasforma in un problema. Con una bimba che mi è cara facevo una cosa stramba: la abituavo secondo la relazione stimolo-risposta e poi improvvisamente, una volta assimilata la regola, gliela stravolgevo. In sostanza: le raccontavo una favola e poi le cambiavo il finale. Non capiva, ma doveva sforzarsi di articolare il ragionamento. Il risultato è che questa bambina-carogna ha ora una maggiore capacità di muoversi all’interno di situazioni che non conosce, non ha nessuna forma d’ansia, e perlamiseria ha dieci in tutte le materie.

PERCHE’ QUESTO LIBRO

Di norma quello che conta, tanto nella narrazione quanto nella vita, si trova altrove. Il mio altrove non è metafisico, è fatto di quello che sento e mi piace, lo riconosco nella pancia. Qualcuno lo chiama sottosuolo; per me è semplicemente il mio sottosopra. Rimango un femonenologo, e se c’è qualcosa oltre quello che vedo francamente non mi interessa. Non sono un agnostico e pur apprezzando Kant, posso fare a meno dei suoi sogni. Questo atteggiamento irriverente (è una forma di apostasia, lo so) mi ha portato a fare pulizia intellettuale: non mi piacciono le favole e ancor meno chi le racconta. Ogni volta che ne sento una non posso fare a meno di pensare che mi stiano fregando. E allora guardo dietro alle storie (sono realmente convinto che Biancaneve gliel’abbia data agli acrondoplastici), penso che in tutte le donne ci sia un angelo, che quella cosa che chiamiamo amore non abbia sesso, e che la natura si possa anche amare contronatura. Guardando al lavoro di questi anni mi pare di non avere fatto altro. Magari è discutibile per carità, ma non ho mai raccontato favole. Ho troppo rispetto per la vita in tutte le sue forme; specie quando si presenta bussando alle porte della morale con quel tono ironico e poco austero che riconosco tra i disadattati. E’ proprio questo il punto, non è un esercizio intellettuale: bisogna spostarsi, svincolarsi, andare al di là dei luoghi comuni. Il mio altrove non ha un luogo e non è in comune.

VENIAMO AL TITOLO

Riconoscere la sessualità nei bambini è importante e non vuol dire stimolarla; è la rimozione da parte degli adulti a diventare un problema. Adulti che fanno stuprare i loro figli dalla televisione e in mille altri modi diversi, con una comunicazione che li svuota e li violenta in profondità. E questo invece si può fare. Negazione e repressione sono i nomi delle nevrosi, prendono la forma educativa e danno modo di bacchettare secondo morale. Una gentile maestra mi scrive che i bambini sono angeli e non diavoletti perversi e polimorfi, come (a suo nobile e illustre parere) si evince dalla mia copertina. Sembra che mi abbia segnalato alla lega delle mamme con la sindrome da colon irritabile. Non dico il mio libro, avesse almeno letto Freud col mestiere che fa (e mi pare una grave amputazione pedagogica). Di norma gli adulti inventano favole, ma sanno che sono un prodotto della fantasia; solo alcuni pretendono di imporle ad altri come qualcosa di vero.

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IL GATTO E LA VOLPE

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
La prima volta vi truffiamo, poi c’è un concorso di
colpa.
LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
La vostra paura è la nostra ricchezza.

 

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Vi forniamo continuamente risposte, in modo che non
dobbiate farvi domande.

 
LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Chiamate virtù quel che alimenta il nostro vizio.
LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Non ci sono mai abbastanza ladri in un popolo che
vive di favole.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Abbiamo cominciato con tre monete. C’era un
burattino, lo abbiamo convinto a sotterrarle in un
posto sicuro che le avrebbe moltiplicate. Ha
funzionato e abbiamo creato una holding,
Promettiamo interessi e le monete continuano a
sparire. Vogliono un’illusione e noi gliela forniamo; le
abbiamo dato il nome di una banca.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Portiamo la gente a odiare gli oppressi e a difendere
gli oppressori, creiamo un disturbo mentre un nostro
complice ruba. Diffondiamo la confusione per
mestiere. E’ correità ma la chiamano giornalismo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Tiriamo fuori dalla testa della gente i mostri e glieli
rivendiamo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
il nostro compito è di alimentare le paura e
l’ignoranza. La prima rende docili e l’altra svuota.
Insieme generano una metafisica e a quel punto quando
mettiamo le mani in tasca a qualcuno non solo non se
ne accorge ma ci ringrazia pure.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Siamo esperti nella contraffazione, Abbiamo
cominciato da ragazzi cambiando l’etichetta sulle
bottiglie. Versavamo il Tavernello nei fiaschi del
Chianti e i commenti di elogio da parte degli esperti
del gusto non mancavano mai. Poi siamo passati ai
libri e sul lavoro abbiamo fatto qualcosa di simile.
Volevano la biografia non il prodotto e ogni giorno
gliela vendevamo. Il verosimile diventava la verità e il
cambio dell’etichetta era la cosa in sé. Non può
esserci contraffazione se un palato è abituato al gusto.
Dove c’è un alcolista c’è sempre una verità.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Ci chiedono cosa faremo da grandi, mai cosa saremo.
I bambini hanno un filo diretto con la favola, e infatti
rispondono l’astronauta. Vuol dire che vogliono
sognare ed essere felici. Non rispondono
praticamente mai: vendere salumi. Questa
ostinazione a non essere un salumiere lo stato la
chiama infanzia.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
E’ meraviglioso svegliarsi tra le braccia di qualcuno
che ci ha rubato solo il cuore.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Ci sono più fessi che posti di lavoro. E’ normale che la
gente si adegui, è un fatto statistico. Il problema non è
colpire chi si adegua, ma ridurre il numero dei fessi.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Il principe deve essere temuto ma non odiato.
L’equilibrio tra la paura e l’odio genera un ordine
che mantiene il popolo in tensione. Senza quella
tensione non si alzerebbe per produrre, privato del
timore si spingerebbe oltre. Chiamiamo quella
tensione etica e l’ordine diritto.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Il potere non vuole un popolo ingenuo, desidera
piuttosto la sua insensibilità. Come quando sfili a uno
il portafoglio: non t’importa del suo giudizio, ti
preoccupa la sua prontezza di riflessi. All’assenza di
questa reattività abbiamo dato il nome di morale.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Il potere si esercita nei momenti di distrazione. A
questa distrazione abbiamo dato il nome di
democrazia.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Diamo un senso alle cose quando non ne conosciamo
la ragione. Le valutiamo e per valutarle attacchiamo
loro il cartellino del prezzo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Quel che non ha valore ha sempre un prezzo.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Tutto ha un prezzo. Quel che non ce l’ha costa
comunque un sacco di soldi.

LE MASSIME DEL GATTO E LA VOLPE
Ogni mattina un cretino e un furbo si svegliano. Se si
incontrano, l’affare è fatto.

 

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PERCHE’ E’ PERICOLOSO RACCONTARE AI BAMBINI LE FAVOLE

Il contenuto morale della favola afferra il linguaggio, irrigidendolo in una catena semantica. E ciò vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato
dalla morale il desiderio conduce prima o poi a dominare quello dell’altro

“Il contenuto morale della favola afferra il linguaggio, irrigidendolo in una catena semantica. E ciò vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato dalla morale il desiderio conduce prima o poi a dominare quello dell’altro”.

SITO WEB DEL LIBRO Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani (tutto quello che non vi dicono sulle favole)

http://permebiancaneveglieladavaai7nani.jimdo.com/

LE FAVOLE E LA PSICOANALISI
Accanto all’inconscio personale, inteso come rimosso
e sede dei complessi, Jung individuava un inconscio
collettivo composto da archetipi, che sono i modi con
i quali funziona la psiche in profondità. Se tali
funzioni (funzioni più che immagini perché
precedono la loro formazione) invadono la coscienza
senza un filtro possono risultare numinosi, ossia far
vivere esperienze intense e significati; altrimenti
danno luogo a fenomeni dissociativi e distruttivi. E’
nella fiaba come nel sogno che gli archetipi
irrompono e danno forma alle rappresentazioni. La
fiaba (più che la favola) racconta il percorso
attraverso il quale la mente giunge alla sua
maturazione, liberandosi dai complessi che la
mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide),
attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico
nelle storie o un feticcio animato nella vita del
bambino) che invece di annientarla finisce per
fortificarla. La sequenza è piuttosto lineare e
ordinata. Nella fiaba gli eventi si dividono in quattro
momenti. Il primo racconta il luogo, il tempo, i
personaggi principali, l’inizio dell’azione. Il secondo
la vicenda nella sua dinamica avventurosa. Il terzo la
crisi, in cui il protagonista si trova di fronte a
situazioni in grado di annullarlo. In ultimo la ”lisi”,
in cui il protagonista trionfa. Per Bettelheim il
bambino non è un soggetto passivo rispetto alla storia
ma partecipa attivamente con le sue emozioni e la
fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in
profondità. Attraverso l’identificazione con i
personaggi riesce a superare le situazioni conflittuali
e angoscianti; si libera dai sentimenti aggressivi e
dallo stato di impotenza, in qualche modo nasce alla
vita adulta. La componente trasgressiva è un
elemento fondamentale nella favola come nella fiaba,
ed è una tappa naturale nella crescita di un
individuo. Si tratta di deviare da un sentiero segnato
da istanze superegoiche non ancora assorbite dalle
figure di riferimento adulte. Nell’infanzia il Super Io
è debole e viene aggredito dall’Es; Pinocchio si
sottrae agli ammonimenti della fata e di Geppetto,
Cappuccetto Rosso a quelle della Madre. Padre e
Madre non sono sufficientemente inglobati e quindi
ancora inconsistenti nella mente del bambino. La
trasgressione è una specie di immersione
nell’inconscio personale e una protesta al mondo
adulto che non riesce a integrare, nella quale
percepisce i conflitti interni personificati in immagini
che provocano paura e panico. Ma è anche un
tentativo di liberarsi dalle catene della lingua e dalle
regole come sono espresse dalla letteratura quando
invadono la vita intima. Si tratta di un’esperienza
intensa e paurosa e il bambino avverte i pericoli; la
paura è un modo per comprendere, quel che non ha
forma assume un contorno e la paura viene almeno in
parte detonata. L’immersione conduce poi a un
ritorno all’inconscio extrapersonale collettivo. Nel
sogno come nella fiaba il bambino sperimenta la
forza distruttiva o creativa degli archetipi. In
Pinocchio c’è l’incontro con Mangiafuoco, poi il
viaggio nel Paese dei Balocchi, viene quindi
inghiottito e incorporato, si immerge nella pancia
della balena. Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo,
Cenerentola deve ritornare dalla matrigna. Se il
bambino fa un bagno nell’inconscio personale, il
contesto immaginario risulta ansioso; mentre
l’immersione nell’inconscio collettivo porta in
situazioni estreme, angosciose e depressive. Il limite è
quello. L’ansia vissuta dal protagonista e in cui si
identifica il bambino è uno stato d’animo suscitato da
eventi che non riesce a integrare, prima che da
draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per
l’Io. Si tratta di una paura senza l’oggetto, paura
della paura; quel cieco sentire che afferra Pinocchio
(che infatti è pieno di presentimenti negativi) prima
di partire per il paese dei Balocchi, o quello che
prende Biancaneve quando si avventura nel bosco.
Nella sua profondità la paura è attesa e l’attesa è uno
dei modi in cui si presenta l’angoscia.
L’incomprensibilità che sta nel fondo scaturisce da
stati d’animo ambivalenti; è un elemento
fondamentale, nella narrazione tanto nella psiche,
quanto da presentarsi praticamente in tutti i racconti
per l’infanzia, ma anche nella mitologia e in buona
parte della letteratura. Nell’immersione i protagonisti
incontrano figure fantastiche che sono elementi
interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze
con cui viene in contatto: i complessi dell’inconscio
personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo. Il
Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super
Io, ma la voce della coscienza in conflitto con i
desideri del butattino; il Gatto e la Volpe (l’ultima in
particolare, sotto la quale si nasconde la strega, come
avverte Von Franz) immagini archetipiche
dell’ipocrisia, dell’astuzia e della cattiveria. In Hansel
e Gretel i genitori sono figure divoratrici; le
sorellastre di Cenerentola, l’Ombra che viene
proiettata dalla sfera inconscia. In Cappuccetto
Rosso il lupo è l’archetipo della malvagità e incarna
l’immagine distruttiva o autodistruttiva. Il pericolo
reale non è l’aggressione del Lupo, ma la personalità
del bambino che può soccombere, divorata
dall’inafferrabilità di fenomeni contrastanti o
fagocitata dalla personalità degli adulti, diventando
ritorsione e autodistruzione. La repressione diventa
perversione, poi masochismo o sadismo a secondo
delle situazioni. Si tratta di una trasformazione
radicale del protagonista del racconto, non sempre
lineare e ordinata come analogamente accade nel
sogno. Il Brutto anatroccolo diventa un cigno,
Pinocchio un bambino, Cenerentola e Biancaneve
principesse. The Uses of Enchantment. The Meaning
and Importance of Fairy Tales, A. Knopf 1976
(tradotto in italiano con il titolo Il mondo incantato),
di Bettelheim è il libro da cui partire per una lettura
psicoanalitica delle fiabe. L’autore sottolinea che le
versioni originali delle favole, in cui erano ancora
presenti gli elementi crudi e violenti, permettevano ai
bambini di rappresentare i conflitti con maggior
intensità. Le interpretazioni, che risalgono alla prima
topica freudiana risultano certamente schematiche,
ma di un certo interesse rimangono le considerazioni
sulla coppia narratore e ascoltatore. Per Bettelheim:
“Il processo inizia con la resistenza ai genitori e con
la paura di crescere e termina quando il ragazzo ha
realmente trovato se stesso, ha raggiunto
l’indipendenza psicologica e la maturità morale e non
vede più l’altro sesso come minaccioso o demoniaco,
ma è capace di entrar e in relazione con esso”.
Emblematica è la storia di Rapunzel dei fratelli
Grimm. In Raperonzolo si legge che la maga
rinchiude la bambina (Raperonzolo appunto) nella
torre quando aveva poco più di dieci anni. Difficile
non rinvenire nella vicenda il paradigma di
un’adolescente e di una madre gelosa che ostacola la
crescita della figlia. Così scrive lo studioso austriaco:
“Un bambino di cinque anni ricavò una
rassicurazione completamente diversa da questa
storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a
lui per la maggior parte della giornata, sarebbe
dovuta andare in ospedale perché gravemente
ammalata … chiese che gli fosse letta la fiaba di
Rapunzel. In quel momento critico della sua vita …
[prese conforto dal] fatto che Rapunzel trovò i mezzi
per sfuggire alla difficile situazione nel proprio corpo,
ovvero con le trecce che il principe usò per
arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il
proprio corpo possa fornire a una persona il sistema
per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in
caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel
suo corpo la fonte della sua sicurezza”.
Semplificando, così come fanno le favole, i problemi
fondamentali si presentano in modo chiaro e conciso,
comprensibile al linguaggio infantile. Ed è forse
questo il loro carattere deleterio; non c’è sforzo o
articolazione nella comprensione, creano dicotomie
rigide su base emotiva e non secondo ragione. La
ragione subentra posteriormente quando è oramai
contaminata dalla morale. I caratteri dei personaggi
sono nettamente spiegati, il dualismo bene-male pone
il problema morale e richiede uno sforzo affinché
possa essere superato. Non più secondo ragione però,
ma sulla base di una tensione interna; la paura
domina nella scena e muove organizzandola la psiche
del fanciullo. La regola è salvarsi la vita, la
comprensione dei fenomeni non può che essere
subordinata e successiva. Per quanto l’eroe risulti
come esempio al bambino, permettendogli di
identificarsi in un personaggio positivo affrontando e
vincendo prove pericolose, la morale compensata con
la lotta e la vittoria tende a prevalere sul principio di
ragione e ancor di più sul contenuto letterario. Ed è
questo il limite della favola, la comprensione morale
si sovrappone a ogni altra. La paura assorbe il campo
e non lascia spazio ad altre considerazioni oltre quelle
brutalmente contingenti. I personaggi delle fiabe non
sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso
tempo, come invece accade nella realtà. La scelta è
obbligata, fa in modo che non si possa articolare il
racconto e il lieto fine è pressoché scontato; ragione
per cui risultano dannose per la crescita, in quanto
limitano fortemente il campo dell’esperienza e delle
emozioni. Pur precisando che per Bettelheim “Il
succo di queste fiabe non è propriamente morale, ma
piuttosto la fiducia di poter riuscire”. Raperonzolo è
una fiaba europea, pubblicata dai fratelli Grimm
nella raccolta (Kinder und Hausmärchen, 1812-
1822). Il nome della protagonista dipende dal fatto
che quando la madre era rimasta incinta venne presa
dal desiderio di mangiare i raperonzoli che
crescevano nell’orto della vicina, la strega Gothel. La
vicenda può essere ricondotta alla figura mitologica
di Danae. Ne Lo cunto de li cunti (1634), noto come
Pentamerone, di Giambattista Basile si trova la fiaba
Petrosinella, che narra una storia simile. Basile
racconta di una donna gravida che desidera il
prezzemolo (da cui deriva il nome di Petrosinella, nel
dialetto campano) che si trova nel giardino di
un’orchessa. Il mostro la cattura e in cambio della
vita ottiene la promessa della bambina una volta
nata. Tutto questo avviene ovviamente con un
linguaggio elementare ma profondo, non sempre
accessibile alla coscienza vigile; si tratta di una
simbolizzazione. Per l’analisi delle fiabe da un punto
di vista psicoanalitico, a parte il libro di Bruno
Bettelheim, risultano esaustive anche alcune pagine
di Melanie Klein e di Erich Fromm. Di particolare
interesse sono le considerazioni della Klein in merito
alla posizione depressiva e schizoparanoide: i
personaggi non sono buoni e cattivi nello stesso
tempo; è l’ambiguità a provocare uno sforzo di
comprensione e uno scollamento della personalità. La
polarità del carattere permette al bambino di
comprendere la differenza tra un modo e l’altro, ma
disturba il suo campo cognitivo. Il bambino si
identifica facilmente con i personaggi che suscitano la
sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua
volta di essere buono. Nell’identificazione la
domanda che si pone non è “desidero essere buono?”
ma “chi voglio essere?”. Non è la virtù a fare buoni
ma l’imitazione di un eroe con i caratteri della bontà;
diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che
di norma manca al bambino. Proiettando se stesso
nel personaggio il meccanismo dell’interiorizzazione
completa la formazione della sua personalità. La
simbolizzazione è necessaria come mediazione con in
linguaggio cosciente e la rappresentazione è una
forma di simbolizzazione necessaria alla
comunicazione con la parte in Ombra della
personalità. Non va interpretato al bambino il
significato della storia: “E’ sempre un atto di
invadenza interpretare i pensieri inconsci di una
persona, per rendere conscio ciò che desidera
mantenere preconscio, e questo è particolarmente
vero nel caso del bambino”. La mamma non deve
mostrare al bambino che conosce i suoi pensieri
intimi; la spiegazione distrugge l’incanto, trascina
nella realtà e non permette di fantasticare. La
fantasia è una forma di libertà, anche dei pensieri.
L’antropologo russo Vladimir Propp nel suo saggio
Morfologia della fiaba (1966) ritiene che tutte le fiabe
presentino elementi comuni, ovvero una stessa
struttura che ritrova al suo interno i medesimi
personaggi che ricoprono le stesse funzioni in
relazione allo sviluppo della storia. In particolare la
fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la
rottura dell’equilibrio (avventura) seguita dalle
peripezie del personaggio principale, per giungere a
un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione).
Questo schema universale fa da cornice al processo di
simbolizzazione all’interno della fiaba perché il
contesto stesso della fiaba è simbolico: il simbolo
viene rinforzato dalla struttura della fabula proprio
perché è comune in tutte le fiabe. Attraverso la via
dell’immaginario, favole e fiabe accomunano civiltà e
culture lontane, dimostrando come in esse sono
assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli
archetipi di quello collettivo.
Quando si parla di favole e fiabe è anche inevitabile il
confronto col mito, ma i processi identificativi
risultano più complicati: se il mito, come la fiaba, può
rappresentare un conflitto interiore in forma
simbolica e suggerire la soluzione, presenta la storia
in una forma colta spesso inaccessibile alla lingua e
alla fantasia del bambino. Da un punto di vista
propriamente psicoanalitico i miti sono collegati alle
richieste del Super Io e raccontano il conflitto con le
esigenze dell’Es e quelle di autoconservazione dell’Io.
Sono rappresentazioni distanti e ricordano il rigore
della censura o dell’imperativo morale. La favola,
diversamente dal mito, non pone richieste, non
produce un senso di inferiorità, stimola anzi una
certa reazione. Attraverso esempi tratti dalla
letteratura popolare, Bettelheim dimostra come il
messaggio di queste storie domestiche aiuti a
superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di
grandi. Ed è per questo che risultano convincenti. Il
pensiero del bambino è animistico (picchia la sedia su
cui ha sbattuto, parla con la bambola); non ci
stupiamo che il vento e gli animali parlino, o che un
uomo si trasformi in un asino, poiché la separazione
tra organico e inorganico non è ancora definita come
nel mondo degli adulti. Le fiabe evocano situazioni
che permettono al bambino di affrontare ed
elaborare le reali difficoltà della propria esistenza;
sono utili perché aiutano a tradurre in immagini
visive gli stati interiori, danno un volto a quel che non
ce l’ha. La fiaba intrattiene però il bambino, lo
afferra come i gendarmi delle storie e lo costringe a
riconoscersi in un contesto elaborato da un mondo
adulto. Favole e fiabe sono scritte dai grandi e
l’inconciliabilità con il mondo dei bambini è evidente,
non possono che esercitare una qualche violenza.
Doverosa certo, ma incontestabile. Il processo
evolutivo del bambino inizia con la resistenza ai
genitori e con il timore di crescere, e termina quando
ha realmente trovato se stesso raggiungendo la
stabilità psicologica e la maturità morale. Questi
racconti danno voce a problemi umani rilevanti (il
bisogno d’amore, il sentirsi inadeguati, l’angoscia
dell’abbandono, la paura della morte), scarnificando
le situazioni, separando il bene dal male distinguono
in modo chiaro quel che nella realtà è confuso e
parlano al bambino dei problemi che lui stesso
avverte come angoscianti e ne prospettano le
soluzioni. Soluzioni adulte naturalmente. Le storie
accettano a livello della consapevolezza le pressioni
dell’Es, e indicano i modi per soddisfare il piacere in
accordo con le esigenze dell’Io e le intransigenze del
Super Io. Il bambino ha bisogno “di ricevere
suggerimenti in forma simbolica riguardo al modo di
affrontare questi problemi”. Diversamente, quando i
contenuti nascosti vengono negati, se non hanno
accesso alla coscienza, oppure se vengono controllati
o oppressi, la personalità subisce un danno. Il piacere
ha una sua legittimità riconosciuta anche dagli adulti,
incistare la dinamica Io-Es vuol dire produrre una
personalità sofferente e problematica; le fiabe offrono
una via di fuga all’adulto che le racconta e una certa
soddisfazione al bambino che le ascolta. E’
fondamentale che un parte del sottosuolo possa
affiorare alla coscienza e venga rielaborata
attraverso l’immaginazione, perdendo parte della sua
pericolosità. Bettelheim era critico sul fatto che al
bambino debbano essere presentati soltanto le realtà
positive. Il bambino non è un extraterrestre, deve
fare i conti anche con la propria parte oscura,
l’Ombra, con l’aggressività, l’odio, l’ansia, la rabbia
maturando il coraggio per affrontare le difficoltà. Le
difficoltà spesso le creano più o meno
consapevolmente gli adulti, e una di queste è la
sessualità.
Se è evidente la presenza di contenuti sessuali nella
storia, le interpretazioni spesso discordano. Alcuni
autori si sono spinti fino a rinvenire nei racconti la
prostituzione. La fiaba potrebbe essere intesa come
un’esortazione a non esercitare la professione. Il tema
della ragazza nel bosco in molte culture viene
associato alla prostituzione; nella Francia del XVII
secolo la mantellina rossa era veniva indossata dalle
meretrici e le lupae dell’antichità dovevano portare
un drappo rosso. Il rosso rappresenterebbe le
mestruazioni e l’ingresso nella pubertà
(simboleggiata dalla foresta) mentre il lupo, l’uomo
era visto come l’aggressore da cui guardarsi. Ma, pur
non mancando l’erotismo nelle storie popolari, sono
considerazioni che lasciano il tempo che trovano,
frutto come si vede di una certa morbosità e di un
gretto intellettualismo da parte degli adulti.
Un aspetto invece interessante è l’antropofagia. La
fiaba ha origine nel contesto europeo piegato dalle
carestie, durante le quali non erano infrequenti i casi
di cannibalismo (emblematiche sono la carestia del X
secolo e la grande carestia del 1315-1317).
Soprattutto nelle versioni più antiche delle fiabe la
figura antropofaga prendeva la forma di
un’orchessa, un mostro femminile, piuttosto che da
un lupo (di sesso maschile, la cui antropofagia era
riconosciuta come un fatto ordinario) e ciò induce a
pensare come questi racconti si siano modificati per
rispondere alle diverse esigenze educative.
Per concludere. La fiaba è un racconto mitico
costituito da immagini e personaggi archetipici. Jung
scrive che le fiabe consentono di studiare l’anatomia
della psiche meglio delle discipline scientifiche, in
quanto presentano in forma pura i processi
dell’inconscio collettivo e riproducono modelli del
comportamento archetipico (von Franz, 1996).
Occorre mettere da parte la cultura per ascoltare ciò
che il simbolo. Marie-Louise von Franz ha dedicato
parte del suo lavoro proprio all’interpretazione
psicologica della favola. Sottolineava che tutte le fiabe
descrivano il Sé, l’archetipo fondamentale della
psiche. Nel libro Le fiabe del lieto fine; psicologia
delle storie di redenzione (2004) la von Franz
analizza il lieto fine a partire dalla trasformazione e
la liberazione in quanto possibilità di arrivare al Sé.
Le fiabe caratterizzano non solo l’equilibrio di un
individuo, ma offrono anche un metodo terapeutico.
Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la
psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della
superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno
strato della vita psichica dove gli eventi scorrono
proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si
sviluppano a partire da tale livello, per poi
ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio
e trasformarsi in fiabe” (von Franz, 2009). Ciò vuol
dire che la fiabe presentano gli archetipi nella forma
genuina e pura, offrendoci un alfabeto e un metodo
per comprendere i processi della psiche collettiva.
Mentre nei miti, o in qualunque altro materiale
letterario più elaborato, rinveniamo i modelli della
psiche umana rivestiti di elementi culturali, nelle
fiabe l’invadenza culturale è presente in misura
limitata; riflettono più direttamente i modelli
profondi della psiche. La ragione di
un’interpretazione psicologica delle favole, per la von
Franz consiste nell’effetto rigenerante, nella reazione
emotiva, in quell’incomprensibile equilibrio che
producono: “L’interpretazione psicologica è il nostro
modo di raccontare storie; avvertiamo ancora lo
stesso bisogno, aspiriamo ancora al rinnovamento
che scaturisce dalla comprensione delle immagini
archetipiche”. E aggiunge con autocritica:
“Sappiamo bene che l’interpretazione è il nostro
mito” (von Franz, 1996). Nel suo libro Le fiabe
interpretate, l’autrice schematizzava le fasi per una
corretta interpretazione, con una tecnica che ricorda
quella strutturalista: introduzione (c’era una volta; la
formula indica una collocazione fuori dallo spazio e
dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e
perciò comune, collettivo); personaggi (numerare i
personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per
cogliere un elemento archetipico); esposizione
(l’inizio del problema, la crisi e le difficoltà che
caratterizzano la fiaba); avventura e lisi (l’avventura,
che può articolarsi in varie peripezie fino a giungere
al vertice della tensione dopo la quale “avviene una
lisi o una catastrofe, una soluzione positiva o
negativa, l’esito finale; il racconto termina poi in
tragedia o si conclude felicemente”). In ultimo ci sono
le formule conclusive, “rite de sortie”, così dette per
non rimanereancorati all’universo infantile
dell’inconscio collettivo. Una caratteristica della fiaba
che non ritroviamo in altri generi come miti e
leggende, è che la conclusione può anche essere
ambigua, ossia una conclusione positiva sottolineata
da un commento negativo del narratore. Fiaba, sogno
e gioco sono l’espressione del processo di
simbolizzazione e dell’interazione del bambino con
l’ambiente circostante. Il problema rimane quello di
non farsi sequestrare dal racconto (Barthes) e di
svincolarsi dalla lingua. La letteratura prende il
sopravvento fornendo le regole dei comportamenti
adulti. Può anche essere qualcosa di positivo, nel caso
l’identificazione avvenga con l’eroe buono, ma il
pericolo è di ritrovarsi imprigionati in un ruolo,
peraltro legato ai modelli simbolici dell’infanzia. Si è
detto della componente sessuale nella favole, il ruolo
impedisce la consapevolezza dei comportamenti e
limita la circolazione del desiderio. Biancaneve,
Cenerentola, Pinocchio desiderano e sono in cerca del
piacere. Nella lingua di un bambino, fatta di metafore
e metonimie, è più che evidente e il rischio è quello di
circoscrivere tale fondamentale processo di crescita e
di equilibrio della psiche all’interno di quel contesto
semantico che chiamiamo favola. La trasgressione, la
disubbidienza sono un modo per svincolare il
desiderio dai binari del linguaggio e dalla narrazione.
Si converrà che per il bambino che ascolta il racconto
rimangono la parte più eccitante, quella che viene
percepita con maggiore intensità e partecipazione.
Non c’è analogia tra fiaba, favola e sogno, sul piano
linguistico e simbolico rappresentano esperienze
comuni. Peirce distingueva tra tre generi di segno:
quello “iconico” (che rimanda al suo referente; ad
esempio il disegno di un cane), quello “indessicale”
(che ha una relazione di causa col referente; le nuvole
come segno della pioggia), e quello “simbolico” (che
non ha nessuna relazione col referente). Favole, sogno
e gioco dimostrano l’arbitrarietà del segno e la
convenzionalità delle proposizioni. Imbrigliato nella
lingua il desiderio non è più libero di circolare alla
ricerca della realtà svincolata da una narrazione;
produce allora una rappresentazione o una
pantomima sulla spinta di un’esigenza morale.
Metafora e metonimia precedono però non solo la
lingua ordinata in un sistema semantico, ma la
morale stessa. Jakobson partendo dalla distinzione
tra dimensione verticale e orizzontale del linguaggio
(che si collega a quella tra langue e parole), parlava
di una sistematizzazione del linguaggio sull’asse
sintagmatico o su quello paradigmatico. L’asse
sintagmatico è quello sul quale gli elementi della
lingua si dispongono in una linea; quello
paradigmatico è il ricettacolo dal quale si attingono
gli elementi da sistemare sull’asse sintagmatico. Ad
esempio, nell’enunciato Il cane morde il gatto, ogni
parola è disposta sintagmaticamente lungo l’asse
orizzontale, ma posso attingere paradigmaticamente
dal genere dei nomi per sostituire a “gatto” o a
“cane” altre parole e ottenere una frase diversa: “il
papà morde il panino”. Per Jakobson, questa
distinzione sui due assi corrisponde alla distinzione
tra metafora e metonimia. La metafora presenta la
sostituzione di qualcosa sull’asse paradigmatico; la
metonimia su quello sintagmatico. Da questo punto
di vista, la favole e la fiaba (come il sogno) sono un
lingua onirica che si costruisce sulle sostituzioni
continue tra i due assi, giocando con metafore e
metonimie. Il contenuto morale afferra il linguaggio
in una sedimentazione, elaborando i termini lo
irrigidisce in una catena semantica che impedisce il
passaggio dall’asse paradigmatico a quello
sintagmatico. E ciò in sostanza vuol dire che il
sentiero del bambino è dal principio segnato secondo
l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel
che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere
sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato o domato
dalla morale il desiderio conduce, come in una favola,
prima o poi a dominare quello dell’altro.

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FAVOLE E PSICOLOGIA

LA PRINCIPESSA SUL PISELLO
C’era una volta un principe che voleva sposare una
principessa, ma ne voleva una vera, di sangue blu.
Comincia così la favola di Andersen; non mi pare che
l’autore intendesse suscitare niente di morboso con
l’immagine del pisello, eppure la storia ha acquisito
una buona popolarità grazie al titolo, ed è oramai un
luogo comune quello che dice: “sei come la
principessa sulla leguminosa”. Per un certo riguardo
che si porta alle fanciulle, che sempre e comunque
vivono in una fiaba, al limite esercitano una pressione
sul baccello; sono i principi a stare sul cazzo. Ma va
bene così. La regina per verificare che la ragazza sia
davvero di sangue blu, che fa? La fa dormire su venti
materassi in fondo ai quali ha sistemato il legume; e
si sa che le la fanciulle di nobili natali, abituate come
sono a mille comodità, giammai dormirebbero con un
fastidio simile. Al mattino la ragazza si alza dolorante
e assonnata, lamentando di non avere chiuso occhio.
Il principe è quindi sicuro del blasone e tutti vissero
felici e contenti. Tirando le somme: i principi cercano
sempre delle principesse, ma non mi pare di vedere in
giro tutti questi blasonati. Ma funziona così, ed è per
questo che le favole piacciono tanto: uno sciagurato
può assimilarsi all’erede delle fiabe e parimenti le
ragazze del popolo desiderano almeno un giorno da
favola. La vita è però un’altra cosa; il principe rivela
le origini popolari e presto la principessa sul pisello
comincia a stargli sul cazzo.

NONNA, MA CHE BOCCA GRANDE CHE HAI
Nelle favole avviene qualcosa di simile al sogno; si
affievolisce la distanza tra ciò che è buono o cattivo,
giusto e sbagliato, la scena si carica di significati
radicali e il discorso si svuota di un ordine e del
senso. Sono fenomeni complessi dal punto di vista
della narrazione. Cappuccetto non è impaurita dal
lupo, si lascia anzi avvicinare. Cosa improponibile nel
linguaggio quotidiano, ma che sembra essere la
norma nella narrazione fiabesca; si fida del lupo
cattivo (o del gatto e la volpe, o ancora della matrigna
e della strega). Ed è interessante comprendere come
una bimba ritenuta responsabile al punto da
percorrere in solitudine un tratto nel bosco, possa
rivelarsi tanto sprovveduta. Barthes spiega così
l’assurdità di questo comportamento. Individua due
piani del senso: quello informativo (proprio della
comunicazione) e quello simbolico (della
significazione). Rinviene però anche un altro senso, la
“significanza” che è di difficile integrazione
nell’ordine della storia. Scrive che il senso del
simbolico è intenzionale, evidente, senza ombre
(“senso ovvio”, da “obvius”, ciò che viene incontro),
mentre quello della significanza è ostinato,
inafferrabile e impronunciabile (“senso ottuso”, da
“obtusus”, che significa smussato, arrotondato, liscio
e perciò complicato da afferrare). Con questo
elemento Barthes intende rivalutare le facoltà delle
immagini di rimandare a un senso avulso agli altri
sensi esprimibili con le parole. L’ottuso/lupo cattivo
non è intenzionale, non ha un significato, non
appartiene alla lingua (“Il senso ottuso è un
significante senza significato”); non è solo l’oggetto
dell’ottusità, ma è l’Io stesso a diventare ottuso. Ed è
per questo che il cattivo delle favole non terrorizza da
subito le vittime, le avvicina. Il suo modo di
raccontare e raffigurare è quello della significanza
che non ha l’impudenza della significazione, la sua
oscenità. L’ottuso è riservato e discreto, percettibile
appena. Si traveste. Esorta a uscire dalla scena,
piuttosto che a disturbarla, divora la protagonista; si
comporta come il sublime dell’Analitica che invita
l’incappucciata a seguirlo altrove. Il cattivo delle
favole ha un suo fascino, piace più che terrorizzare.
Biancaneve mangia la mela, Pinocchio segue
Lucignolo/Lucifero nelle scorribande e Cappuccetto
si lascia ingannare dal lupo. La narrazione che
comincia con “c’era una volta” e termina con “e
vissero felici e contenti”, sta stretta ai personaggi
delle favole; il cattivo smussa appunto gli angoli della
storia, la rende digeribile. Le sens obtus è ostinato e
sfuggente, calmo ma irritabile; seduce, rapisce,
divora. Per figurazione l’ottuso rimanda
all’arrotondamento, all’addolcimento della
significanza rispetto alla significazione. I cattivi delle
favole si travestono, dimostrano una maggiore
duttilità a trasformarsi nel contesto della narrazione.
Il lupo cattivo è lo smussamento di ciò che è
spigoloso, di definito nel racconto, fastidioso tanto è
attuale; l’addolcimento di un senso troppo chiaro e
troppo presente. Ma è anche ciò che sfugge alla presa.
Mette fuori posto, colloca altrove. “Nonna ma che
bocca grande che hai”, fa dire l’ostinazione di
Cappuccetto; e lo stupore è qualcosa che passa in
secondo piano e quasi non si percepisce nella favola
dei Grimm. L’arrotondamento comporta la difficoltà
di afferrare, come ciò che non si lascia com-prendere;
l’angolo ottuso, a differenza di quello retto che
richiama alla simmetria e all’identità, può variare, si
muove, è instabile, deforme, grottesco. Com’è
appunto il lupo vestito con gli abiti della nonna. Sul
piano dello scorrimento della storia, comporta che
esso esprima quello che non fa parte della linearità
del racconto, ma la sua discontinuità e la sua
frattura. Il senso ottuso è proprio della significanza
che scaturisce dall’identità, dall’integrità della
significazione. E’ una specie di sporgenza più che un
altro senso (“Nonna ma che piedi grandi, nonna ma
che mani grandi, nonna ma che bocca grande che
hai”), un contenuto che eccede al senso dell’ovvio.
L’ovvio della significazione e l’ordine del discorso
vengono frammentati da questa inclinazione al
diverso della significanza. Il senso dell’ottuso è
improduttivo; come un significante svuotato di
significato, rimane sterile. Il lupo divora la scena,
accentra l’attenzione del lettore prima ancora che
sulla fanciulla o la nonna. Non rappresenta e non
comunica niente oltre se stesso. L’ottuso irrompe
come qualcosa di innaturale, aberrante, che non ha
una finalità. Questo Altro privo di volto sopraggiunge
senza nessuna strategia, alterità o intenzionalità. Si
presenta nella forma di un grottesco che manca di
rimandi, come ciò che ha un senso in sé, che butta
l’occhio, rispetto al quale l’Io si pone in una relazione
di non-indifferenza. Sta in un angolo, guarda la
giovinetta col cesto di focacce, la turba, le prende la
mano e se la porta via. Freud vedeva un fenomeno
analogo all’ottuso nel disgusto e lo metteva in
relazione con l’isteria. Il disgusto è la risposta isterica
di fronte al corpo concentrato nel solo piacere,
riconoscendo in esso i caratteri che sono propri del
fuori scena; una reazione al disordine che nel corpo
diventa nausea o vomito bulimico (in quanto
eccedenza della significazione). La presenza di un
piacere rimosso che non si può soggettivare e che
comporta la riduzione del corpo a oggetto. E quando
il corpo è ridotto alla sola carne compare il dégout,
un malessere che esprime il disagio del soggetto
nell’assumersi la responsabilità del piacere nel
proprio corpo. Il lupo cattivo vuole il corpo di
Cappuccetto, desidera mangiarlo. La fame d’amore,
o la sua eccedenza bulimica che si trasforma in
rabbia e disgusto, fa dire all’incappucciata: “Che
paura ho avuto! Era così buio nella pancia del
lupo!” . La pancia appunto, la fame bulimica, perché
la funzione del cattivo nella storia è quella di
mangiare, e davvero non gli basta mai. Alla fine del
racconto l’ottuso/lupo esce di scena, il cacciatore gli
squarcia la pancia, eviscera la nonna e la nipotina. In
questa fenomenologia il corpo racconta la sua alterità
rispetto all’ordine delle cose e del discorso. È il corpo
segnato da qualcos’altro (la fame, il desiderio,
l’acquolina in bocca) a far implodere l’equilibrio su
cui si sostiene. I limiti del corpo sono i limiti del
lingua. L’ottusità del quadrupede fa perdere al corpo
l’ordine e alla lingua la struttura. Fa perdere la testa
a Cappuccetto, al punto da seguire nel bosco il lupo
cattivo che sopraggiunge a portarla via.

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LA BELLEZZA DE LE DONNE

LA BELLEZZA DE LE DONNE
‘Na donna è bella quanno ride ma pure quanno piagne, è bella quando s’arrabbia, quanno c’ha le cose sue, quanno nun te rivorge la parola o te bacia, in compagnia o da sola, quanno se dà e pure quando se ritrae. E quant’è bella appena arzata, e specie quanno è senza trucco je poi leggere sur viso il bene che te vole. E’ bella ‘na donna quanno te guarda. Te dà emozioni, attenzioni. Quarche vorta preoccupazioni. Ma è bella pure quanno te rompe li cojoni.

SITO WEB DEL LIBRO  RIGURGITI ROMANESCHI (E ‘STI CAZZI, NON CE LO METTI?)

 

RIGU

E ‘STI CAZZI NON CE LO METTI?

Nun me rompe er ca non è un’espressione vorgare. A uno mica je poi dì: me stai a frantumà er riproduttivo. Je devi fa’ capì che nun te dà sollazzo, ma che appunto te sta rompenno er ca.

NUN ME ROMPE ER CA
Nun me rompe er ca non è un’espressione vorgare. A uno mica je poi dì: me stai a frantumà er riproduttivo. Je devi fa’ capì che nun te dà sollazzo, ma che appunto te sta rompenno er ca. Pe’ fallo ce vole convinzione, la faccia tosta, ‘na certa padronanza pe’ risponnere alla malacreanza. Ma soprattutto lo stile un po’ sottile di quelli che nun s’accontennano de darti der cojone, ma a te e la tua famija pe’ ‘na generazione. Perché quella è ‘na cosa che passa da padre in fijo, come la talassemia: e apperciò rompi er cazzo tu, tua madre e tua zia. Quannno uno fa parte d’una famija, capita che quarche ‘nsurto se lo pija. Nun se tratta d’insurtare, ma de farse rispettare; e nun lo poi fare co’ l’italiano forbito, je devi proprio mostrare er dito.

RIGU

PAGINA DEL LIBRO http://rigurgitiromaneschi.weebly.com/

RIGURGITI ROMANESCHI (E ‘STI CAZZI, NON CE LO METTI?)

LA MOJE NINFOMANE
M’è toccata ‘na sciagura; nun è che er sesso me piace, è che proprio nun pijo pace. ‘Na vorta me bastava mi marito, poi so’ passata a ‘n amante, poi due, tre e ancora nun me sazio l’appetito. So’ pure andata dar dottore, pe’ vede’ se c’era quarcosa pe’ nun fa’ l’amore. Perché so’ malata e vojo esse’ curata. Quello me guarda abbrunato e me fa, signora mia è ‘na patologia. Ecco, famme er certificato per come so’ ridotta, che mi marito dice che so’ ‘na mignotta.

LA MEJO DONNA
La mia donna c’ha ‘na virtù rara, che quanno te fa un sorriso te porta ‘n paradiso. E poi pure esse depresso e pensare alli mejo mortacci tua, poi l’abbracci e te pare de volà ar cielo. E nun importa se non ci trovi li santi, la madonna o er principale suo, pecché n’ommo ‘nnamorato po pure farne a meno: a che je serve l’onnipotente quanno sta bene e un je manca gniente?

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