PAROLE D’AMORE

 

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L’innamorato parla. La parola esiste perché l’Io è in uno stato di tensione verso l’altro; attende ed è come un “tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi”. Il discorso mancato porta a una specie di delirio che identifica l’innamorato in colui che aspetta l’altro, con quell’affanno per l’abbandono che trasforma la parola in un discorso paranoico e l’angoscia in una paradossale soddisfazione al suo ritorno. L’attesa è il campo dove l’amore staziona, la sala d’aspetto in cui l’innamorato ”si vede con tristezza esiliato dal proprio immaginario”, che è l’immagine capace di suscitare un sussulto con il solo ricordo. L’esilio è necessario in quanto “il prezzo da pagare è la morte”. Morte simbolica, ovviamente e silenzio della parola. L’Io parla perché è il simbolo ad averlo fatto parlante e in quanto il linguaggio è desiderio dell’Altro. Il significante è invece pura trascendenza. Nella distanza viene a mancare uno dei termini e il discorso è un monologo nel quale il soggetto annulla l’oggetto d’amore per l’amore stesso: il soggetto ama l’amore e non l’altro reale. Anche la lingua subisce il significante che anticipa il fantasma della separazione. L’altro è in uno stato di continua partenza, al di là; è un passeggero senza meta. L’innamorato invece aspetta, è sedentario, a disposizione, sempre nello stesso posto, è come sequestrato dalla scena. Parla a se stesso prima che all’altro assente. Come quando sulle panchine dei binari un uomo attende tra i frammenti del tempo che la donna scenda dal treno, mormorando sottovoce le frasi d’amore che le dirà. Il monologo anticipa il discorso, sottrae, colma il vuoto e per lo più assorbe la totalità della relazione. La voce annuncia l’arrivo al binario e tanto basta a quietare l’ansia per la mancanza. L’uomo si alza e mentre il treno giunge in stazione, non può far a meno di anticipare quello che le dirà. Parla da solo come i pazzi. La gente attorno fa caso al suo parlare, non alle parole. Perché “le parole non sono mai pazze (tutt’al più sono perverse); è la sintassi ad essere folle”. (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso).

Da Frammenti di un monologo amoroso https://goo.gl/b21Q8Z

IN AMORE VINCE CHI FUGGE (E NON ROMPE IL CAZZO)

L’amore è desiderio. Non sempre però è facile sopportare il desiderio, perché si è soli nel desiderare. Quando gli innamorati chiedono “mi ami?” è come se non accettando il desiderio come mancanza, chiedessero di essere trasformati da “amanti” in “oggetti d’amore”, in una presenza. L’amore è la richiesta di una conferma. Desiderare è però un compito sfiancante; chi desidera è più fragile rispetto a chi è desiderato, e tuttavia la rinuncia non è la soluzione, ma il problema. C’è un prezzo da pagare per chi non vuole confrontarsi col desiderio, ed è una frustrazione che si trasforma in dolore. Il desiderio trova il suo completamento nella domanda e non esiste altro modo per soddisfare il bisogno se non completando il discorso con la risposta. La strada per non cedere al desiderio e alle pulsioni, è quella di metaforizzare l’oggetto dando un significato alla mancanza. Quando questa immagine non risponde alla realtà subentra una delusione che diventa depressione. Si prospetta l’ombra dell’abbandono e quella che doveva essere la soluzione all’assenza finisce per rimarcare il senso del vuoto e della solitudine.

FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO - Giancarlo Buonofiglio

Amazon, Mondadori, Hoepli, Feltrinelli

FAMMI GODERE

Lacan contrappone godimento e amore. Nel Seminario XX si chiede che cosa sia il godimento, rispondendo che “è ciò che non serve a niente”.

 

Lacan contrappone godimento e amore. Nel Seminario XX si chiede che cosa sia il godimento, rispondendo che “è ciò che non serve a niente”. Sottolinea che non c’è alcuna finalità nel piacere e che il piacere è sempre fine a se stesso. L’amore è l’alternativa a questo tipo di godimento chiuso in sé che nasce e muore nel corpo. Stando alle sue parole si tratta del godimento del corpo dell’altro e implica il corpo come sostanza. Il problema come l’ha impostato Lacan è se esista qualcosa oltre al piacere limitato nel corpo; lo psicoanalista riconosce che il godimento sia qualcosa di fondamentale ma sottolinea che non è un segno d’amore. L’amore si soddisfa nella relazione con l’Altro grande e non attraverso il corpo. Implica il corpo sessuale, ma si completa nel segno e il segno è prima di tutto una forma di riconoscimento. Nel Seminario X Lacan aveva teorizzato l’amore come “amore del nome”, amore per ciò che definisce quello che è reale in un soggetto. Ma se l’amore è amore del nome, il corpo che funzione assume all’interno del discorso amoroso? Inseguendo l’ordine delle idee più che la realtà dei fatti, pare abbia dimenticato che anche il corpo sia un segno. Come tutti gli altri segni è infatti privo di rimandi, non ha un significato e non ha geografie o contenuti al di là delle sue funzioni. La psicoanalisi dà al corpo un significato, nominandolo appunto, come a suo tempo ha fatto la religione costringendo il piacere nei confini della carne.

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Deleuze è andato decisamente al di là di questa visione chiesastica. Il corpo è senza organi, non è organizzato o organico, non è funzionale ad uno scopo. Non è una macchina riproduttiva o un simulacro, non è un ingranaggio. Il corpo dell’uomo una volta misticizzato è stato ridotto a carne finalizzata alla generazione di una prole da integrare nei meccanismi capitalistici e quello della donna a una macchina riproduttiva. Il corpo non è ordinato, è frammentato; racconta dell’inconscio e della potenzialità a fare e a produrre; è il desiderio stesso in quanto vita produttiva che muove a organizzare sempre nuove connessioni. Puro desiderio veicolato in qualsiasi altra sua parte, anche in quelle prive di connotati strettamente sessuali. Prima che da significati affettivi, emotivi o sessuali il corpo è abitato e segnato da tensioni politiche e porta nell’anatomia le tracce della sua storia. Come sottolinea Deleuze nelle Lezioni su Spinoza, anche il corpo individuale è un frammento del sociale, un progetto politico che nella ricerca del piacere crea relazioni e fornisce un ordine ai sistemi; non si può comprendere isolandolo dai contesti di cui è una parte. In riferimento a Spinoza, Deleuze non smette di affermare che non basta evocare l’immanenza (le idee, la morale, dio), bisogna costruirla con le mani prima che con il pensiero. Socialità e razionalità seguono dall’azione del corpo. “Non si nasce esseri sociali”, come pure non si nasce razionali ma si diventa. Divenire sociali e razionali dipende dagli incontri e gli incontri seguono a loro volta dalle percezioni. Per Spinoza la percezione è un problema politico, dal quale deriva ogni cosa che riguarda la vita degli uomini. Ogni incontro è una composizione di termini, una relazione che esprime il grado di potenza. Un’inadeguata percezione dei corpi e dell’altro condurrà ad una distorta e sbilanciata composizione della società. E tuttavia psicoanalisi e religione vincolano il corpo nella rassegnata accettazione della sua incapacità a costituirsi liberamente al di fuori dei processi produttivi. il risultato è di limitare le funzioni del piacere e le sue facoltà all’interno della produzione sociale costituita dalla paura, dal timore, dal bisogno di certezze. Il potere costruisce sistemi di controllo basati sulla disperazione a cui fornisce un dio come speranza. Si serve della paura, che è uno dei nomi della schiavitù. E la schiavitù è una deformazione anche del corpo che porta alla detonazione della potenza, a un’implosione. Psicoanalisi e religione hanno dimostrato di essere al servizio del potere e dell’ordine; Lacan non si discosta da questo esercizio reazionario. L’accusa che Deleuze e Guattari muovono alla psicoanalisi è che dopo aver scoperto il desiderio inconscio ha rinunciato alla portata rivoluzionaria mettendosi a servire il padrone. E infatti precisa Deleuze che il culto psicoanalitico dell’Edipo si regge sull’obbedienza alla legge autoritaria del padre. Anche la psicoanalisi ha concentrato le indagini sul corpo come sostanza godente, isolandolo però dal contesto. Ha rimarcato che l’esperienza centrale dell’amore sia quella di amare il nome come se fosse un corpo e di amare il corpo in quanto nome del soggetto. Amare il nome come se fosse un corpo significa che pronunciando il nome dell’amato l’Io prova un certo godimento. Ma nel nome si muove il principio di identità, del sempre uguale a se stesso. A Lacan sfugge la comprensione del movimento, l’immanenza, il divenire che è nelle cose, nel corpo, nella vita. Il non essere o la polivocità dell’essere frammentato non fa parte del suo orizzonte intellettuale. E infatti ripete che amare il corpo come un nome significa amare il corpo dell’altro non come una parte, concentrando appunto la sua completezza nel nome come qualcosa di unico e irripetibile. Lacan distingue due modi della soddisfazione: la soddisfazione del godimento e la soddisfazione dell’amore. La soddisfazione del godimento si articola in quella del bisogno istantaneo, mentre la soddisfazione dell’amore si completa con quella del desiderio in quanto desiderio dell’Altro. Nell’appagamento del godimento c’è qualcosa di urgente, imminente e non immanente, mentre la soddisfazione dell’amore (intesa come un completamento del segno) rimanda piuttosto al simbolico del desiderio. Per Lacan il godimento non serve a niente ed è un esercizio che manca di relazione; gli contrappone l’amore come desiderio dell’Altro. Si serve quindi del termine autismo per definire la struttura del godimento limitata nell’uno. Il godimento del corpo è sempre godimento dell’uno fuori dalla relazione ed è mortale nella sua essenza. Non può esserci amore dove il desiderio è costretto in un simulacro di significati quale è il corpo come lo descrive Lacan. Ricorda semmai una statua votiva da contemplare più che un essere vivente da amare. Il godimento non serve, è vero, ma solo perché non è servile. Avvicina e non solo i corpi, struttura le relazioni, ordina il molteplice in un’etica. Dà un senso alla realtà che è fatta di carne e sangue piuttosto che da spirito. E’ qualcosa che completa l’altro con l’Altro senza escluderlo, che svuota l’Io dai contenuti e dai significati rendendolo libero di muoversi, sconvolgendole, all’interno delle sedimentazioni cultuali. Questa tensione al piacere di un corpo che è privo di organi e svuotato di significati o nomi è un bisogno intimo di libertà. Una voce che chiama da lontano e riporta all’ordine la “sostanza (come) ciò che è in sé e viene concepita per sé” (Spinoza). Il corpo desidera, vuole, prova piacere o sofferenza, se non lo nutri muore. Non è un’anima; ha diritti e bisogni primari. Il primo e il più importante di questi bisogni lo chiamiamo amore.

Dai FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO sito web del libro alla pagina

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IL CORPO DELLE DONNE E L’AMORE

E QUANDO LA CHIAMI, “FALLO” COME FOSSE UN FAVORE
Lacan sposta la differenza, l’alterità, la frammentazione e l’assenza dell’Altro nel corpo femminile. Non come una traccia con uno spessore ontologico, ma in quanto ricettacolo dei significati che lo abitano nella relazione con l’Io maschio (“l’Altro nel mio linguaggio non può dunque essere che l’Altro sesso”). Spostando il non-essere-l’Io nell’altro sesso prova a riempire l’assenza di un codice significante che finisce per trasformare il corpo femminile in un luogo simbolico. Lacan introduce una relazione tra il campo del linguaggio e il campo del piacere. Definisce il corpo femminile per privazione e nella mistica data al significante sessuale che lo contrassegna, ripropone lo schema della teologia negativa, riconoscendo un valore a questo corpo svuotato per contiguità a quello del maschio. Lo fa portando la questione sul binario apofantico del “non altro non è altro che il non altro”. Crea in sostanza un simulacro dell’essere non come assenza ma in quanto essenza e ribadisce la sua inconciliabilità col non essere (ripetendo per via negationis l'”io sono colui che sono”). Il significante fallico è quello che fornisce l’identità; Lacan insiste nel sostenere la continuità tra il fallo e il padre. Sarebbero questi significanti a dare un’identità al soggetto femminile presentato come assenza, vuoto, mancanza di significante priva di identità. Nella sua mistica del corpo che concentra e riassume l’Io nel significante nel fallo, sottolinea che il percorso della sessualizzazione femminile sia più complesso rispetto a quello del maschio. Il bambino subisce una primaria e immediata assimilazione, mentre il significante fallico non è in grado di identificare ricomponendolo il corpo della donna. Tale compromesso non consente, sempre per Lacan, l’accesso alla femminilità e mantiene la bambina prigioniera di un’immagine idealizzata della madre. Dalla coscienza di questa assenza si genera il senso della castrazione come qualcosa di decisivo che potrà in futuro fornire lo schema alla depressione, all’angoscia, alla malinconia. Il punto è questo: per Lacan la bambina nella castrazione materna sperimenta che il significante fallico non può darle nessuna identità.

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Cosa che rende le donne più fragili, ma anche predisposte ad accogliere i significanti. La tesi secondo la quale nella sessualizzazione femminile manchi il significante dell’identità unitario (come se fosse disposta a subire processi di frammentazione) appare gretta, limitativa nei confronti della donna come soggetto politico e dimostra la natura reazionaria di certa autorevole psicoanalisi. In queste considerazioni si sente l’eco della formula aristotelica: “la donna è inferiore per natura”. Se anche fosse, la frammentazione dell’Io a cui è predisposta la donna rimane comunque qualcosa di fecondo; in quanto dotata di un corpo esposto alla dissacrazione cultuale, si rivela in un ordine più sacro. Sotto il principio unificante si muove una tensione, un decentramento su cui l’Io si regge con le sue rappresentazioni. Il linguaggio inteso come struttura organizzante è disturbante, non appartiene al soggetto, lo tiene in ostaggio e appare libero solo nell’erosione dei significati. Il linguaggio mantiene il corpo sotto dittatura, lo rende vittima di una sottrazione originaria. E’ il vuoto, l’assenza prima della presenza che muove alla parola, non l’essere. Per Deleuze la rivolta della carne si esprime in un corpo senza organi; il desiderio la ripercorre emancipandolo dalla stupidità dell’identità come conseguenza della presenza fallica. La tesi secondo la quale le donne siano maggiormente portate a metamorfosi identificatorie, perché mancanti della funzione strutturante unitaria, si rivela una visione sessista e culturale prima che scientifica. Ma Lacan con la sua autorevolezza ci ha abituati anche a questo. Il significante fallico non promuove uno schema unitario solido. Se la bambina si libera dalla madre fallica, il confronto con la madre rimane il confronto con una mancanza e non con un segno che indica un percorso. Per questo Lacan afferma che l’Altro è l’Altro sesso. Non esiste un Altro in grado di dare stabilità al soggetto, esiste piuttosto l’Altro sesso come prova dell’inesistenza dell’Altro, come ciò che mostra la mancanza radicale dell’Altro. La donna considerata nella sua mancanza fallica, come vuoto, ha subito per lungo tempo una degenerazione simbolica e ha portato a uno squilibrio nel discorso amoroso, dando il compito all’uomo di completarla nell’assenza. C’è qualcosa di chiesastico e di profondamente reazionario in questa presa di posizione. Diceva una canzone famosa: Prendi una donna e trattala male … non farti vivo e quando la chiami “fallo” come fosse un favore. Ecco che ricompare il fallo nel discorso a completare la catena significante. Il problema è più complesso e va davvero al di là dei segni che abitano il soggetto, nella incapacità che ha la struttura simbolica del corpo di dare una consistenza ontologica al vuoto, al nulla, alla mancanza e al non essere; di cui il corpo femminile abitato dall’assenza sembra concentrare i contenuti. In “Nietzsche e la filosofia” e “Differenza e ripetizione”, Deleuze si oppone al dispotismo dell’unità e dell’identità, propria della tradizione metafisica a partire da Platone, riconoscendo il molteplice, il diverso, il divenire come un valore. Nell'”L’Anti-Edipo” formula la sua accusa nei confronti della psicoanalisi, biasimandola di contribuire alla repressione sociale. Il desiderio è costruttivo per Deleuze; gli uomini come le donne sono “macchine desideranti”, flussi di desideri privi di confini tra soggetto e oggetto. Alla produzione desiderante, che si determina in maniera polimorfa e disordinata, si oppongono forze antiproduttive, che esacerbando le paure intrappolano i desideri. In particolare la schizofrenia in questo contesto si presenta come una richiesta di libertà. Il “fuori” non appartiene al sistema organico lacaniano. E’ il pensiero dell’Altro ma anche (ed è in questo che Deleuze prende le distanze da Lacan) dell’altro da sé, che il piano della schizo-analisi ha sottolineato come “l’antilinearità della ragione che porta allo sdoppiamento della coscienza”. La posizione di Deleuze apre l’essere alla possibilità dello “straniero” come figura determinante per lo stesso ordine dell’Io; i “personaggi concettuali”, come li chiama, sono lo straniero attraverso il quale il soggetto individua nell’altro il proprio divenire nell’alterità. Idolatrato della contemporaneità l'”io sono colui che sono” diventa una regola che fa un simulacro della presenza. Il qui e ora che soddisfa le pulsioni, il desiderio mercificato reso appetibile e immediatamente consumabile. E’ il tratto schizofrenico della collettività, che pone il soggetto alienandolo nella dimensione patologica quotidiana, rendendolo fluido per l’assenza di una presenza che desidera l’unità negandola. E dunque il discorso amoroso così impostato, invita l’uomo a prendere una donna e a trattarla male, abituandolo al “fallo” e come se fosse un favore.

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PERCHE’ E’ PERICOLOSO RACCONTARE AI BAMBINI LE FAVOLE

Il contenuto morale della favola afferra il linguaggio, irrigidendolo in una catena semantica. E ciò vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato
dalla morale il desiderio conduce prima o poi a dominare quello dell’altro

“Il contenuto morale della favola afferra il linguaggio, irrigidendolo in una catena semantica. E ciò vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato dalla morale il desiderio conduce prima o poi a dominare quello dell’altro”.

SITO WEB DEL LIBRO Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani (tutto quello che non vi dicono sulle favole)

http://permebiancaneveglieladavaai7nani.jimdo.com/

LE FAVOLE E LA PSICOANALISI
Accanto all’inconscio personale, inteso come rimosso
e sede dei complessi, Jung individuava un inconscio
collettivo composto da archetipi, che sono i modi con
i quali funziona la psiche in profondità. Se tali
funzioni (funzioni più che immagini perché
precedono la loro formazione) invadono la coscienza
senza un filtro possono risultare numinosi, ossia far
vivere esperienze intense e significati; altrimenti
danno luogo a fenomeni dissociativi e distruttivi. E’
nella fiaba come nel sogno che gli archetipi
irrompono e danno forma alle rappresentazioni. La
fiaba (più che la favola) racconta il percorso
attraverso il quale la mente giunge alla sua
maturazione, liberandosi dai complessi che la
mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide),
attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico
nelle storie o un feticcio animato nella vita del
bambino) che invece di annientarla finisce per
fortificarla. La sequenza è piuttosto lineare e
ordinata. Nella fiaba gli eventi si dividono in quattro
momenti. Il primo racconta il luogo, il tempo, i
personaggi principali, l’inizio dell’azione. Il secondo
la vicenda nella sua dinamica avventurosa. Il terzo la
crisi, in cui il protagonista si trova di fronte a
situazioni in grado di annullarlo. In ultimo la ”lisi”,
in cui il protagonista trionfa. Per Bettelheim il
bambino non è un soggetto passivo rispetto alla storia
ma partecipa attivamente con le sue emozioni e la
fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in
profondità. Attraverso l’identificazione con i
personaggi riesce a superare le situazioni conflittuali
e angoscianti; si libera dai sentimenti aggressivi e
dallo stato di impotenza, in qualche modo nasce alla
vita adulta. La componente trasgressiva è un
elemento fondamentale nella favola come nella fiaba,
ed è una tappa naturale nella crescita di un
individuo. Si tratta di deviare da un sentiero segnato
da istanze superegoiche non ancora assorbite dalle
figure di riferimento adulte. Nell’infanzia il Super Io
è debole e viene aggredito dall’Es; Pinocchio si
sottrae agli ammonimenti della fata e di Geppetto,
Cappuccetto Rosso a quelle della Madre. Padre e
Madre non sono sufficientemente inglobati e quindi
ancora inconsistenti nella mente del bambino. La
trasgressione è una specie di immersione
nell’inconscio personale e una protesta al mondo
adulto che non riesce a integrare, nella quale
percepisce i conflitti interni personificati in immagini
che provocano paura e panico. Ma è anche un
tentativo di liberarsi dalle catene della lingua e dalle
regole come sono espresse dalla letteratura quando
invadono la vita intima. Si tratta di un’esperienza
intensa e paurosa e il bambino avverte i pericoli; la
paura è un modo per comprendere, quel che non ha
forma assume un contorno e la paura viene almeno in
parte detonata. L’immersione conduce poi a un
ritorno all’inconscio extrapersonale collettivo. Nel
sogno come nella fiaba il bambino sperimenta la
forza distruttiva o creativa degli archetipi. In
Pinocchio c’è l’incontro con Mangiafuoco, poi il
viaggio nel Paese dei Balocchi, viene quindi
inghiottito e incorporato, si immerge nella pancia
della balena. Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo,
Cenerentola deve ritornare dalla matrigna. Se il
bambino fa un bagno nell’inconscio personale, il
contesto immaginario risulta ansioso; mentre
l’immersione nell’inconscio collettivo porta in
situazioni estreme, angosciose e depressive. Il limite è
quello. L’ansia vissuta dal protagonista e in cui si
identifica il bambino è uno stato d’animo suscitato da
eventi che non riesce a integrare, prima che da
draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per
l’Io. Si tratta di una paura senza l’oggetto, paura
della paura; quel cieco sentire che afferra Pinocchio
(che infatti è pieno di presentimenti negativi) prima
di partire per il paese dei Balocchi, o quello che
prende Biancaneve quando si avventura nel bosco.
Nella sua profondità la paura è attesa e l’attesa è uno
dei modi in cui si presenta l’angoscia.
L’incomprensibilità che sta nel fondo scaturisce da
stati d’animo ambivalenti; è un elemento
fondamentale, nella narrazione tanto nella psiche,
quanto da presentarsi praticamente in tutti i racconti
per l’infanzia, ma anche nella mitologia e in buona
parte della letteratura. Nell’immersione i protagonisti
incontrano figure fantastiche che sono elementi
interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze
con cui viene in contatto: i complessi dell’inconscio
personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo. Il
Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super
Io, ma la voce della coscienza in conflitto con i
desideri del butattino; il Gatto e la Volpe (l’ultima in
particolare, sotto la quale si nasconde la strega, come
avverte Von Franz) immagini archetipiche
dell’ipocrisia, dell’astuzia e della cattiveria. In Hansel
e Gretel i genitori sono figure divoratrici; le
sorellastre di Cenerentola, l’Ombra che viene
proiettata dalla sfera inconscia. In Cappuccetto
Rosso il lupo è l’archetipo della malvagità e incarna
l’immagine distruttiva o autodistruttiva. Il pericolo
reale non è l’aggressione del Lupo, ma la personalità
del bambino che può soccombere, divorata
dall’inafferrabilità di fenomeni contrastanti o
fagocitata dalla personalità degli adulti, diventando
ritorsione e autodistruzione. La repressione diventa
perversione, poi masochismo o sadismo a secondo
delle situazioni. Si tratta di una trasformazione
radicale del protagonista del racconto, non sempre
lineare e ordinata come analogamente accade nel
sogno. Il Brutto anatroccolo diventa un cigno,
Pinocchio un bambino, Cenerentola e Biancaneve
principesse. The Uses of Enchantment. The Meaning
and Importance of Fairy Tales, A. Knopf 1976
(tradotto in italiano con il titolo Il mondo incantato),
di Bettelheim è il libro da cui partire per una lettura
psicoanalitica delle fiabe. L’autore sottolinea che le
versioni originali delle favole, in cui erano ancora
presenti gli elementi crudi e violenti, permettevano ai
bambini di rappresentare i conflitti con maggior
intensità. Le interpretazioni, che risalgono alla prima
topica freudiana risultano certamente schematiche,
ma di un certo interesse rimangono le considerazioni
sulla coppia narratore e ascoltatore. Per Bettelheim:
“Il processo inizia con la resistenza ai genitori e con
la paura di crescere e termina quando il ragazzo ha
realmente trovato se stesso, ha raggiunto
l’indipendenza psicologica e la maturità morale e non
vede più l’altro sesso come minaccioso o demoniaco,
ma è capace di entrar e in relazione con esso”.
Emblematica è la storia di Rapunzel dei fratelli
Grimm. In Raperonzolo si legge che la maga
rinchiude la bambina (Raperonzolo appunto) nella
torre quando aveva poco più di dieci anni. Difficile
non rinvenire nella vicenda il paradigma di
un’adolescente e di una madre gelosa che ostacola la
crescita della figlia. Così scrive lo studioso austriaco:
“Un bambino di cinque anni ricavò una
rassicurazione completamente diversa da questa
storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a
lui per la maggior parte della giornata, sarebbe
dovuta andare in ospedale perché gravemente
ammalata … chiese che gli fosse letta la fiaba di
Rapunzel. In quel momento critico della sua vita …
[prese conforto dal] fatto che Rapunzel trovò i mezzi
per sfuggire alla difficile situazione nel proprio corpo,
ovvero con le trecce che il principe usò per
arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il
proprio corpo possa fornire a una persona il sistema
per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in
caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel
suo corpo la fonte della sua sicurezza”.
Semplificando, così come fanno le favole, i problemi
fondamentali si presentano in modo chiaro e conciso,
comprensibile al linguaggio infantile. Ed è forse
questo il loro carattere deleterio; non c’è sforzo o
articolazione nella comprensione, creano dicotomie
rigide su base emotiva e non secondo ragione. La
ragione subentra posteriormente quando è oramai
contaminata dalla morale. I caratteri dei personaggi
sono nettamente spiegati, il dualismo bene-male pone
il problema morale e richiede uno sforzo affinché
possa essere superato. Non più secondo ragione però,
ma sulla base di una tensione interna; la paura
domina nella scena e muove organizzandola la psiche
del fanciullo. La regola è salvarsi la vita, la
comprensione dei fenomeni non può che essere
subordinata e successiva. Per quanto l’eroe risulti
come esempio al bambino, permettendogli di
identificarsi in un personaggio positivo affrontando e
vincendo prove pericolose, la morale compensata con
la lotta e la vittoria tende a prevalere sul principio di
ragione e ancor di più sul contenuto letterario. Ed è
questo il limite della favola, la comprensione morale
si sovrappone a ogni altra. La paura assorbe il campo
e non lascia spazio ad altre considerazioni oltre quelle
brutalmente contingenti. I personaggi delle fiabe non
sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso
tempo, come invece accade nella realtà. La scelta è
obbligata, fa in modo che non si possa articolare il
racconto e il lieto fine è pressoché scontato; ragione
per cui risultano dannose per la crescita, in quanto
limitano fortemente il campo dell’esperienza e delle
emozioni. Pur precisando che per Bettelheim “Il
succo di queste fiabe non è propriamente morale, ma
piuttosto la fiducia di poter riuscire”. Raperonzolo è
una fiaba europea, pubblicata dai fratelli Grimm
nella raccolta (Kinder und Hausmärchen, 1812-
1822). Il nome della protagonista dipende dal fatto
che quando la madre era rimasta incinta venne presa
dal desiderio di mangiare i raperonzoli che
crescevano nell’orto della vicina, la strega Gothel. La
vicenda può essere ricondotta alla figura mitologica
di Danae. Ne Lo cunto de li cunti (1634), noto come
Pentamerone, di Giambattista Basile si trova la fiaba
Petrosinella, che narra una storia simile. Basile
racconta di una donna gravida che desidera il
prezzemolo (da cui deriva il nome di Petrosinella, nel
dialetto campano) che si trova nel giardino di
un’orchessa. Il mostro la cattura e in cambio della
vita ottiene la promessa della bambina una volta
nata. Tutto questo avviene ovviamente con un
linguaggio elementare ma profondo, non sempre
accessibile alla coscienza vigile; si tratta di una
simbolizzazione. Per l’analisi delle fiabe da un punto
di vista psicoanalitico, a parte il libro di Bruno
Bettelheim, risultano esaustive anche alcune pagine
di Melanie Klein e di Erich Fromm. Di particolare
interesse sono le considerazioni della Klein in merito
alla posizione depressiva e schizoparanoide: i
personaggi non sono buoni e cattivi nello stesso
tempo; è l’ambiguità a provocare uno sforzo di
comprensione e uno scollamento della personalità. La
polarità del carattere permette al bambino di
comprendere la differenza tra un modo e l’altro, ma
disturba il suo campo cognitivo. Il bambino si
identifica facilmente con i personaggi che suscitano la
sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua
volta di essere buono. Nell’identificazione la
domanda che si pone non è “desidero essere buono?”
ma “chi voglio essere?”. Non è la virtù a fare buoni
ma l’imitazione di un eroe con i caratteri della bontà;
diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che
di norma manca al bambino. Proiettando se stesso
nel personaggio il meccanismo dell’interiorizzazione
completa la formazione della sua personalità. La
simbolizzazione è necessaria come mediazione con in
linguaggio cosciente e la rappresentazione è una
forma di simbolizzazione necessaria alla
comunicazione con la parte in Ombra della
personalità. Non va interpretato al bambino il
significato della storia: “E’ sempre un atto di
invadenza interpretare i pensieri inconsci di una
persona, per rendere conscio ciò che desidera
mantenere preconscio, e questo è particolarmente
vero nel caso del bambino”. La mamma non deve
mostrare al bambino che conosce i suoi pensieri
intimi; la spiegazione distrugge l’incanto, trascina
nella realtà e non permette di fantasticare. La
fantasia è una forma di libertà, anche dei pensieri.
L’antropologo russo Vladimir Propp nel suo saggio
Morfologia della fiaba (1966) ritiene che tutte le fiabe
presentino elementi comuni, ovvero una stessa
struttura che ritrova al suo interno i medesimi
personaggi che ricoprono le stesse funzioni in
relazione allo sviluppo della storia. In particolare la
fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la
rottura dell’equilibrio (avventura) seguita dalle
peripezie del personaggio principale, per giungere a
un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione).
Questo schema universale fa da cornice al processo di
simbolizzazione all’interno della fiaba perché il
contesto stesso della fiaba è simbolico: il simbolo
viene rinforzato dalla struttura della fabula proprio
perché è comune in tutte le fiabe. Attraverso la via
dell’immaginario, favole e fiabe accomunano civiltà e
culture lontane, dimostrando come in esse sono
assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli
archetipi di quello collettivo.
Quando si parla di favole e fiabe è anche inevitabile il
confronto col mito, ma i processi identificativi
risultano più complicati: se il mito, come la fiaba, può
rappresentare un conflitto interiore in forma
simbolica e suggerire la soluzione, presenta la storia
in una forma colta spesso inaccessibile alla lingua e
alla fantasia del bambino. Da un punto di vista
propriamente psicoanalitico i miti sono collegati alle
richieste del Super Io e raccontano il conflitto con le
esigenze dell’Es e quelle di autoconservazione dell’Io.
Sono rappresentazioni distanti e ricordano il rigore
della censura o dell’imperativo morale. La favola,
diversamente dal mito, non pone richieste, non
produce un senso di inferiorità, stimola anzi una
certa reazione. Attraverso esempi tratti dalla
letteratura popolare, Bettelheim dimostra come il
messaggio di queste storie domestiche aiuti a
superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di
grandi. Ed è per questo che risultano convincenti. Il
pensiero del bambino è animistico (picchia la sedia su
cui ha sbattuto, parla con la bambola); non ci
stupiamo che il vento e gli animali parlino, o che un
uomo si trasformi in un asino, poiché la separazione
tra organico e inorganico non è ancora definita come
nel mondo degli adulti. Le fiabe evocano situazioni
che permettono al bambino di affrontare ed
elaborare le reali difficoltà della propria esistenza;
sono utili perché aiutano a tradurre in immagini
visive gli stati interiori, danno un volto a quel che non
ce l’ha. La fiaba intrattiene però il bambino, lo
afferra come i gendarmi delle storie e lo costringe a
riconoscersi in un contesto elaborato da un mondo
adulto. Favole e fiabe sono scritte dai grandi e
l’inconciliabilità con il mondo dei bambini è evidente,
non possono che esercitare una qualche violenza.
Doverosa certo, ma incontestabile. Il processo
evolutivo del bambino inizia con la resistenza ai
genitori e con il timore di crescere, e termina quando
ha realmente trovato se stesso raggiungendo la
stabilità psicologica e la maturità morale. Questi
racconti danno voce a problemi umani rilevanti (il
bisogno d’amore, il sentirsi inadeguati, l’angoscia
dell’abbandono, la paura della morte), scarnificando
le situazioni, separando il bene dal male distinguono
in modo chiaro quel che nella realtà è confuso e
parlano al bambino dei problemi che lui stesso
avverte come angoscianti e ne prospettano le
soluzioni. Soluzioni adulte naturalmente. Le storie
accettano a livello della consapevolezza le pressioni
dell’Es, e indicano i modi per soddisfare il piacere in
accordo con le esigenze dell’Io e le intransigenze del
Super Io. Il bambino ha bisogno “di ricevere
suggerimenti in forma simbolica riguardo al modo di
affrontare questi problemi”. Diversamente, quando i
contenuti nascosti vengono negati, se non hanno
accesso alla coscienza, oppure se vengono controllati
o oppressi, la personalità subisce un danno. Il piacere
ha una sua legittimità riconosciuta anche dagli adulti,
incistare la dinamica Io-Es vuol dire produrre una
personalità sofferente e problematica; le fiabe offrono
una via di fuga all’adulto che le racconta e una certa
soddisfazione al bambino che le ascolta. E’
fondamentale che un parte del sottosuolo possa
affiorare alla coscienza e venga rielaborata
attraverso l’immaginazione, perdendo parte della sua
pericolosità. Bettelheim era critico sul fatto che al
bambino debbano essere presentati soltanto le realtà
positive. Il bambino non è un extraterrestre, deve
fare i conti anche con la propria parte oscura,
l’Ombra, con l’aggressività, l’odio, l’ansia, la rabbia
maturando il coraggio per affrontare le difficoltà. Le
difficoltà spesso le creano più o meno
consapevolmente gli adulti, e una di queste è la
sessualità.
Se è evidente la presenza di contenuti sessuali nella
storia, le interpretazioni spesso discordano. Alcuni
autori si sono spinti fino a rinvenire nei racconti la
prostituzione. La fiaba potrebbe essere intesa come
un’esortazione a non esercitare la professione. Il tema
della ragazza nel bosco in molte culture viene
associato alla prostituzione; nella Francia del XVII
secolo la mantellina rossa era veniva indossata dalle
meretrici e le lupae dell’antichità dovevano portare
un drappo rosso. Il rosso rappresenterebbe le
mestruazioni e l’ingresso nella pubertà
(simboleggiata dalla foresta) mentre il lupo, l’uomo
era visto come l’aggressore da cui guardarsi. Ma, pur
non mancando l’erotismo nelle storie popolari, sono
considerazioni che lasciano il tempo che trovano,
frutto come si vede di una certa morbosità e di un
gretto intellettualismo da parte degli adulti.
Un aspetto invece interessante è l’antropofagia. La
fiaba ha origine nel contesto europeo piegato dalle
carestie, durante le quali non erano infrequenti i casi
di cannibalismo (emblematiche sono la carestia del X
secolo e la grande carestia del 1315-1317).
Soprattutto nelle versioni più antiche delle fiabe la
figura antropofaga prendeva la forma di
un’orchessa, un mostro femminile, piuttosto che da
un lupo (di sesso maschile, la cui antropofagia era
riconosciuta come un fatto ordinario) e ciò induce a
pensare come questi racconti si siano modificati per
rispondere alle diverse esigenze educative.
Per concludere. La fiaba è un racconto mitico
costituito da immagini e personaggi archetipici. Jung
scrive che le fiabe consentono di studiare l’anatomia
della psiche meglio delle discipline scientifiche, in
quanto presentano in forma pura i processi
dell’inconscio collettivo e riproducono modelli del
comportamento archetipico (von Franz, 1996).
Occorre mettere da parte la cultura per ascoltare ciò
che il simbolo. Marie-Louise von Franz ha dedicato
parte del suo lavoro proprio all’interpretazione
psicologica della favola. Sottolineava che tutte le fiabe
descrivano il Sé, l’archetipo fondamentale della
psiche. Nel libro Le fiabe del lieto fine; psicologia
delle storie di redenzione (2004) la von Franz
analizza il lieto fine a partire dalla trasformazione e
la liberazione in quanto possibilità di arrivare al Sé.
Le fiabe caratterizzano non solo l’equilibrio di un
individuo, ma offrono anche un metodo terapeutico.
Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la
psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della
superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno
strato della vita psichica dove gli eventi scorrono
proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si
sviluppano a partire da tale livello, per poi
ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio
e trasformarsi in fiabe” (von Franz, 2009). Ciò vuol
dire che la fiabe presentano gli archetipi nella forma
genuina e pura, offrendoci un alfabeto e un metodo
per comprendere i processi della psiche collettiva.
Mentre nei miti, o in qualunque altro materiale
letterario più elaborato, rinveniamo i modelli della
psiche umana rivestiti di elementi culturali, nelle
fiabe l’invadenza culturale è presente in misura
limitata; riflettono più direttamente i modelli
profondi della psiche. La ragione di
un’interpretazione psicologica delle favole, per la von
Franz consiste nell’effetto rigenerante, nella reazione
emotiva, in quell’incomprensibile equilibrio che
producono: “L’interpretazione psicologica è il nostro
modo di raccontare storie; avvertiamo ancora lo
stesso bisogno, aspiriamo ancora al rinnovamento
che scaturisce dalla comprensione delle immagini
archetipiche”. E aggiunge con autocritica:
“Sappiamo bene che l’interpretazione è il nostro
mito” (von Franz, 1996). Nel suo libro Le fiabe
interpretate, l’autrice schematizzava le fasi per una
corretta interpretazione, con una tecnica che ricorda
quella strutturalista: introduzione (c’era una volta; la
formula indica una collocazione fuori dallo spazio e
dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e
perciò comune, collettivo); personaggi (numerare i
personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per
cogliere un elemento archetipico); esposizione
(l’inizio del problema, la crisi e le difficoltà che
caratterizzano la fiaba); avventura e lisi (l’avventura,
che può articolarsi in varie peripezie fino a giungere
al vertice della tensione dopo la quale “avviene una
lisi o una catastrofe, una soluzione positiva o
negativa, l’esito finale; il racconto termina poi in
tragedia o si conclude felicemente”). In ultimo ci sono
le formule conclusive, “rite de sortie”, così dette per
non rimanereancorati all’universo infantile
dell’inconscio collettivo. Una caratteristica della fiaba
che non ritroviamo in altri generi come miti e
leggende, è che la conclusione può anche essere
ambigua, ossia una conclusione positiva sottolineata
da un commento negativo del narratore. Fiaba, sogno
e gioco sono l’espressione del processo di
simbolizzazione e dell’interazione del bambino con
l’ambiente circostante. Il problema rimane quello di
non farsi sequestrare dal racconto (Barthes) e di
svincolarsi dalla lingua. La letteratura prende il
sopravvento fornendo le regole dei comportamenti
adulti. Può anche essere qualcosa di positivo, nel caso
l’identificazione avvenga con l’eroe buono, ma il
pericolo è di ritrovarsi imprigionati in un ruolo,
peraltro legato ai modelli simbolici dell’infanzia. Si è
detto della componente sessuale nella favole, il ruolo
impedisce la consapevolezza dei comportamenti e
limita la circolazione del desiderio. Biancaneve,
Cenerentola, Pinocchio desiderano e sono in cerca del
piacere. Nella lingua di un bambino, fatta di metafore
e metonimie, è più che evidente e il rischio è quello di
circoscrivere tale fondamentale processo di crescita e
di equilibrio della psiche all’interno di quel contesto
semantico che chiamiamo favola. La trasgressione, la
disubbidienza sono un modo per svincolare il
desiderio dai binari del linguaggio e dalla narrazione.
Si converrà che per il bambino che ascolta il racconto
rimangono la parte più eccitante, quella che viene
percepita con maggiore intensità e partecipazione.
Non c’è analogia tra fiaba, favola e sogno, sul piano
linguistico e simbolico rappresentano esperienze
comuni. Peirce distingueva tra tre generi di segno:
quello “iconico” (che rimanda al suo referente; ad
esempio il disegno di un cane), quello “indessicale”
(che ha una relazione di causa col referente; le nuvole
come segno della pioggia), e quello “simbolico” (che
non ha nessuna relazione col referente). Favole, sogno
e gioco dimostrano l’arbitrarietà del segno e la
convenzionalità delle proposizioni. Imbrigliato nella
lingua il desiderio non è più libero di circolare alla
ricerca della realtà svincolata da una narrazione;
produce allora una rappresentazione o una
pantomima sulla spinta di un’esigenza morale.
Metafora e metonimia precedono però non solo la
lingua ordinata in un sistema semantico, ma la
morale stessa. Jakobson partendo dalla distinzione
tra dimensione verticale e orizzontale del linguaggio
(che si collega a quella tra langue e parole), parlava
di una sistematizzazione del linguaggio sull’asse
sintagmatico o su quello paradigmatico. L’asse
sintagmatico è quello sul quale gli elementi della
lingua si dispongono in una linea; quello
paradigmatico è il ricettacolo dal quale si attingono
gli elementi da sistemare sull’asse sintagmatico. Ad
esempio, nell’enunciato Il cane morde il gatto, ogni
parola è disposta sintagmaticamente lungo l’asse
orizzontale, ma posso attingere paradigmaticamente
dal genere dei nomi per sostituire a “gatto” o a
“cane” altre parole e ottenere una frase diversa: “il
papà morde il panino”. Per Jakobson, questa
distinzione sui due assi corrisponde alla distinzione
tra metafora e metonimia. La metafora presenta la
sostituzione di qualcosa sull’asse paradigmatico; la
metonimia su quello sintagmatico. Da questo punto
di vista, la favole e la fiaba (come il sogno) sono un
lingua onirica che si costruisce sulle sostituzioni
continue tra i due assi, giocando con metafore e
metonimie. Il contenuto morale afferra il linguaggio
in una sedimentazione, elaborando i termini lo
irrigidisce in una catena semantica che impedisce il
passaggio dall’asse paradigmatico a quello
sintagmatico. E ciò in sostanza vuol dire che il
sentiero del bambino è dal principio segnato secondo
l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel
che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere
sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato o domato
dalla morale il desiderio conduce, come in una favola,
prima o poi a dominare quello dell’altro.

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L’ORGASMO DI PAPERINO

PUNTO E A CAPO

Comincia così, con quella punteggiatura che blocca la continuità. La virgola ostacola, è una pausa, il vuoto, un’interruzione. Allontana i termini e sospende ciò che li teneva uniti. Le congiunzioni si diradano, le assenze frammentano il discorso; è il flusso del tempo che si contrae. I punti prendono il sopravvento, ed è un arresto radicale. Lo spazio si dilata e amplifica la distanza. Col punto finisce il periodo e si va appunto a capo. Tra un punto è l’altro c’è il silenzio della domanda. Il discorso rimane sospeso nelle parole, che volano via come foglie al vento.

Dai FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO

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UNA STORIA D’AMORE

Gli innamorati dicono di avere una “storia” e sembra che questa cosa che chiamano amore per rendersi attuale debba storicizzarsi. Perché? Entrare a far parte di una storia significa incanalare il desiderio all’interno di un codice, decodificarlo ma anche ipercodificarlo. L’amore diventa un racconto e il racconto la messa in scena del discorso. Mettere un soggetto innamorato in una “storia d’amore” vuol dire riconciliarlo con la società (Barthes), inserirlo sui binari della lingua, in una struttura, detonandolo nella sua carica rivoluzionaria. La struttura della storia ammansisce l’amore perché il desiderio (che sempre scorre nella parola) è anarchia, è il senza regole della società. Per questo motivo Deleuze parla di macchine desideranti piuttosto che di strutture. La struttura è l’ordine della rappresentazione, la macchina quello della produzione: “Una volta disciolta l’unità strutturale della macchina, una volta deposta l’unità personale e specifica del vivente, un legame diretto appare tra la macchina e il desiderio, la macchina passa nel cuore del desiderio, la macchina è desiderante e il desiderio macchinato” (Deleuze). Nel rapporto primario che passa tra la macchina e la struttura, (tra il molecolare e il molare) si tratta di inserire la produzione nella rappresentazione, il desiderio in un regime lingustico connotante di significati. Far defluire il desiderio nella struttura porta a sostantivarlo, legarlo all’organismo come una pulsione mancante all’oggetto, continuarlo al soggetto in un flusso semantico in cui scorre l’uso e l’abitudine della lingua. Vuol dire sottrarre l’anarchia del significante e metterla in un fascismo di relazioni tra la parola e la cosa. E così la domanda concentrata nell’altro mette in moto la dinamica della castrazione e l’istanza simbolica della legge (non fa altro l’intenzione edipica che si muove nelle forme destabilizzanti del simbolico e in quelle identificatorie dell’immaginario). CONTINUA…

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CRONACHE DALL’EPIGASTRIO

DALLA PREFAZIONE

Per il titolo avevo pensato a “Memorie dal sottosuolo”, ma pare che qualcuno l’abbia già usato. Ho ripiegato su “Cronache dall’epigastrio”, anche perché non era mia intenzione discutere di inconscio, pensiero o anima. Il mio sottosuolo si trova nella pancia e il libro racconta appunto le sue cronache. Non amo i totalitarsmi dell’Io e le sue aberrazioni metafisiche. Esiste qualcosa fuori di me e questa cosa la chiamo reale. Mi hanno insegnato che questo altro da me sia la realtà, e mi piace. Mi piace perché mi colloca, mi definisce, mi dimensiona nella cosa. E mi fa sentire vivo. Se esiste qualcosa, la sua esistenza si conferma non in una relazione col mio percepirla, ma indipendentemente da quello che sono. Non ho un Io tautologico, non mi va di delirare in termini idealistici e penso che la verità non necessiti della mia presenza. Sono certo che possa fare a meno della mia ontologia. Non sono un metafisico e la veritas (come) est adaequatio rei et intellectus (la verità come l’adeguatezza o corrispondenza della cosa e dell’intelletto) mi pare una forma di delirio. E così guardo alle cose e per lo più mi piacciono, le spoglio e le scopro ogni giorno. E ogni giorno mi sembrano meravigliose.

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Dal  DIARIO DI UN MORTO

Adesso che sono qua ho capito. L’unica verità è che non c’è una verità. Dicono che la morte sia capace di dare una risposta. La verità è che è inutile anche la domanda, quando si muore si muore e basta. Morire senza avere vissuto, questo mi rode: esiste per un uomo una condanna più grande?

L’hanno portata stanotte. E’ incredibilmente bella, non riesco a smettere di guardarla. Ha gli occhi blu, pelle morbida e liscia, bianchissima. Le labbra sono rosse e carnose, abbandonate in un sorriso limpido e quieto. Il volto è disteso, dolce come quello di chi ha vissuto e amato, la morte sembra averlo graffiato appena. Un uomo chissà da qualche parte starà consumandosi nella disperazione. L’hanno vestita di bianco, come una giovane sposa. Non ho potuto fare a meno di lambire la sua bocca. Non era un bacio, molto di più, come quando si intrecciano i rami di una rosa promettendosi qualcosa di eterno. E’ stata sistemata vicino al mio loculo. L’amerò per sempre.

Ho lasciato la mia anima altrove. Devo pur averla un’anima. Credo stia scontando il mio inferno. Lei sta di fianco a me e non posso averla. Non conosco pena più grande, incontrarla proprio adesso che sono morto. Ogni notte mi lacera il desiderio e il giorno è pure peggio. E’ la mia condanna e il mio tormento.

L’ho baciata e ribaciata ancora, sperando che non si svegliasse. Ogni notte mi alzo, lascio il mio loculo e mi inginocchio sulla sua bocca. Appoggio appena la mia, dolcemente sfiorando quelle labbra che sanno di paradiso. La guardo per ore e mi pare di non avere mai visto niente di più bello. Il desiderio di baciarla mi tiene vivo e ogni notte mi sembra una meravigliosa giornata di sole.

Stamattina hanno interrato Giovanna de Angelis, una giovane donna dai tratti delicati, pelle morbida, occhi vivi ma arresi, sfiorita mi pare troppo presto. Sembra sia morta di cirrosi; beveva e come tutti per dimenticare. Chissà cosa poi. L’ho guardata a lungo, portava i segni di una crudeltà vissuta sulla pelle. Tutto quel dolore non era però riuscito a cancellare la nobiltà del volto, aveva anzi conservato serenità e un certo candore. Bella come tutte le donne sanno essere. Aveva sofferto e ho avuto la sensazione che avesse in qualche modo scontato il suo inferno. Pacata più che rassegnata; niente avrebbe più potuto procurarle sofferenza. L”inferno è già qua (pensai alzando le spalle) e rimane una parola vuota quando si è bruciati nel rogo della vita.

Il defunto di fianco mi ha raccontato il paradiso, pare lo abbia visto. Non lo so, ma tutto quel bagliore, quella inamovibile quiete, l’armonia, l’assenza di disperazione e vuoto, tutta quella domestica tranquillità mi ha messo in apprensione. Comincio a temere che il suo paradiso sarà per me un inferno.

Ambrogio De Toma l’hanno appena portato. E’ un ometto minuto, ceruleo, smunto, vinto dalla vita. Ha le mani piccole, doveva fare lavori non manuali, di poco conto. Un impiegato direi, ma di basso livello. Sposato male, porta segni di una radicata infelicità. Se quella con il ghigno è la moglie, la sua dipartita non deve essere stata tanto dolorosa. Sulla sua tomba ha fatto appuntare con una certa rassegnazione: “Qualunque posto, anche questo, è sempre meglio di casa mia”.

Una mattina di maggio non mi svegliai. Il medico non poté che constatare l’insuccesso della sua scienza davanti a un corpo inutilizzabile. Ero oramai una cosa; mi liquidò con un secco “deceduto”. Lo scrisse con disprezzo guardando quello stupido pezzo di carne che sfuggiva alla sua manipolazione. Più di tutto avevo deluso le sue aspettative morendo. Credo abbia anche borbottato “che stronzo” dietro al feretro.

Credo di essere morto appena venuto al mondo, unica cosa degna di nota nella mia biografia. Poi non ho combinato gran che. Il mio necrologio è stato: “Qui riposa, per la seconda volta …”. Appuntato dalla penna di un briccone che mi conosceva bene.

Sono morto il 20 maggio del 1970. Di crepacuore, dicevano. In realtà sono morto d’inedia e di noia. Non mi è dispiaciuto. Morire è stato nulla. Vivere era peggio.

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CRONA 1

L’AMORE E LA PSICOLOGIA

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Ci sono cose che la psicologia non può spiegare. L’amore non è un fatto psicologico, ma linguistico. Per Barthes si trattava di un discorso ed era frammentato; in questo libro partendo da Lacan e dalle destrutturazioni di Barthes sottolineo la solitudine del fenomeno amoroso, la tautologia della parola. L’amore è un monologo in cui l’altro piccolo si presenta come l’assenza dell’Altro grande. Tra il silenzio e l’attesa si muove il soggetto innamorato, in un soliloquio che ricorda davvero il mormorio di una preghiera. 

FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO

Il libro è in vetrina da Mondadori e si può acquistare online nel formato digitale (ebook) al link digitale 3,68 euro

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LE FAVOLE DELLA PSICOANALISI

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LE FAVOLE DELLA PSICOANALISI

Accanto all’inconscio personale, inteso come rimosso e sede dei complessi, Jung individuava un inconscio collettivo composto da archetipi, che sono i modi con i quali funziona la psiche in profondità. Se tali funzioni (funzioni più che immagini perché precedono la loro formazione) invadono la coscienza senza un filtro possono risultare numinosi, ossia far vivere esperienze intense e significati; altrimenti danno luogo a fenomeni dissociativi e distruttivi. E’ nella fiaba come nel sogno che gli archetipi irrompono e danno forma alle rappresentazioni. La fiaba (più che la favola) racconta il percorso attraverso il quale la mente giunge alla sua maturazione, liberandosi dai complessi che la mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide), attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico nelle storie o un feticcio animato nella vita del bambino) che invece di annientarla finisce per fortificarla. La sequenza è piuttosto lineare e ordinata. Nella fiaba gli eventi si dividono in quattro momenti. Il primo racconta il luogo, il tempo, i personaggi principali, l’inizio dell’azione. Il secondo la vicenda nella sua dinamica avventurosa. Il terzo la crisi, in cui il protagonista si trova di fronte a situazioni in grado di annullarlo. In ultimo la ”lisi”, in cui il protagonista trionfa. Per Bettelheim il bambino non è un soggetto passivo rispetto alla storia ma partecipa attivamente con le sue emozioni e la fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in profondità. Attraverso l’identificazione con i personaggi riesce a superare le situazioni conflittuali e angoscianti; si libera dai sentimenti aggressivi e dallo stato di impotenza, in qualche modo nasce alla vita adulta. La componente trasgressiva è un elemento fondamentale nella favola come nella fiaba, ed è una tappa naturale nella crescita di un individuo. Si tratta di deviare da un sentiero segnato da istanze superegoiche non ancora assorbite dalle figure di riferimento adulte. Nell’infanzia il Super Io è debole e viene aggredito dall’Es; Pinocchio si sottrae agli ammonimenti della fata e di Geppetto, Cappuccetto Rosso a quelle della Madre. Padre e Madre non sono sufficientemente inglobati e quindi ancora inconsistenti nella mente del bambino. La trasgressione è una specie di immersione nell’inconscio personale e una protesta al mondo adulto che non riesce a integrare, nella quale percepisce i conflitti interni personificati in immagini che provocano paura e panico. Ma è anche un tentativo di liberarsi dalle catene della lingua e dalle regole come sono espresse dalla letteratura quando invadono la vita intima. Si tratta di un’esperienza intensa e paurosa e il bambino avverte i pericoli; la paura è un modo per comprendere, quel che non ha forma assume un contorno e la paura viene almeno in parte detonata. L’immersione conduce poi a un ritorno all’inconscio extrapersonale collettivo. Nel sogno come nella fiaba il bambino sperimenta la forza distruttiva o creativa degli archetipi. In Pinocchio c’è l’incontro con Mangiafuoco, poi il viaggio nel Paese dei Balocchi, viene quindi inghiottito e incorporato, si immerge nella pancia della balena. Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo, Cenerentola deve ritornare dalla matrigna. Se il bambino fa un bagno nell’inconscio personale, il contesto immaginario risulta ansioso; mentre l’immersione nell’inconscio collettivo porta in situazioni estreme, angosciose e depressive. Il limite è quello. L’ansia vissuta dal protagonista e in cui si identifica il bambino è uno stato d’animo suscitato da eventi che non riesce a integrare, prima che da draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per l’Io. Si tratta di una paura senza l’oggetto, paura della paura; quel cieco sentire che afferra Pinocchio (che infatti è pieno di presentimenti negativi) prima di partire per il paese dei Balocchi, o quello che prende Biancaneve quando si avventura nel bosco. Nella sua profondità la paura è attesa e l’attesa è uno dei modi in cui si presenta l’angoscia. L’incomprensibilità che sta nel fondo scaturisce da stati d’animo ambivalenti; è un elemento fondamentale, nella narrazione tanto nella psiche, quanto da presentarsi praticamente in tutti i racconti per l’infanzia, ma anche nella mitologia e in buona parte della letteratura. Nell’immersione i protagonisti incontrano figure fantastiche che sono elementi interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze con cui viene in contatto: i complessi dell’inconscio personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo. Il Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super Io, ma la voce della coscienza in conflitto con i desideri del butattino; il Gatto e la Volpe (l’ultima in particolare, sotto la quale si nasconde la strega, come avverte Von Franz) immagini archetipiche dell’ipocrisia, dell’astuzia e della cattiveria. In Hansel e Gretel i genitori sono figure divoratrici; le sorellastre di Cenerentola, l’Ombra che viene proiettata dalla sfera inconscia. In Cappuccetto Rosso il lupo è l’archetipo della malvagità e incarna l’immagine distruttiva o autodistruttiva. Il pericolo reale non è l’aggressione del Lupo, ma la personalità del bambino che può soccombere, divorata dall’inafferrabilità di fenomeni contrastanti o fagocitata dalla personalità degli adulti, diventando ritorsione e autodistruzione. La repressione diventa perversione, poi masochismo o sadismo a secondo delle situazioni. Si tratta di una trasformazione radicale del protagonista del racconto, non sempre lineare e ordinata come analogamente accade nel sogno. Il Brutto anatroccolo diventa un cigno, Pinocchio un bambino, Cenerentola e Biancaneve principesse. The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, A. Knopf 1976 (tradotto in italiano con il titolo Il mondo incantato), di Bettelheim è il libro da cui partire per una lettura psicoanalitica delle fiabe. L’autore sottolinea che le versioni originali delle favole, in cui erano ancora presenti gli elementi crudi e violenti, permettevano ai bambini di rappresentare i conflitti con maggior intensità. Le interpretazioni, che risalgono alla prima topica freudiana risultano certamente schematiche, ma di un certo interesse rimangono le considerazioni sulla coppia narratore e ascoltatore. Per Bettelheim: “Il processo inizia con la resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il ragazzo ha realmente trovato se stesso, ha raggiunto l’indipendenza psicologica e la maturità morale e non vede più l’altro sesso come minaccioso o demoniaco, ma è capace di entrar e in relazione con esso”. Emblematica è la storia di Rapunzel dei fratelli Grimm. In Raperonzolo si legge che la maga rinchiude la bambina (Raperonzolo appunto) nella torre quando aveva poco più di dieci anni. Difficile non rinvenire nella vicenda il paradigma di un’adolescente e di una madre gelosa che ostacola la crescita della figlia. Così scrive lo studioso austriaco: “Un bambino di cinque anni ricavò una rassicurazione completamente diversa da questa storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a lui per la maggior parte della giornata, sarebbe dovuta andare in ospedale perché gravemente ammalata … chiese che gli fosse letta la fiaba di Rapunzel. In quel momento critico della sua vita … [prese conforto dal] fatto che Rapunzel trovò i mezzi per sfuggire alla difficile situazione nel proprio corpo, ovvero con le trecce che il principe usò per arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il proprio corpo possa fornire a una persona il sistema per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel suo corpo la fonte della sua sicurezza”. Semplificando, così come fanno le favole, i problemi fondamentali si presentano in modo chiaro e conciso, comprensibile al linguaggio infantile. Ed è forse questo il loro carattere deleterio; non c’è sforzo o articolazione nella comprensione, creano dicotomie rigide su base emotiva e non secondo ragione. La ragione subentra posteriormente quando è oramai contaminata dalla morale. I caratteri dei personaggi sono nettamente spiegati, il dualismo bene-male pone il problema morale e richiede uno sforzo affinché possa essere superato. Non più secondo ragione però, ma sulla base di una tensione interna; la paura domina nella scena e muove organizzandola la psiche del fanciullo. La regola è salvarsi la vita, la comprensione dei fenomeni non può che essere subordinata e successiva. Per quanto l’eroe risulti come esempio al bambino, permettendogli di identificarsi in un personaggio positivo affrontando e vincendo prove pericolose, la morale compensata con la lotta e la vittoria tende a prevalere sul principio di ragione e ancor di più sul contenuto letterario. Ed è questo il limite della favola, la comprensione morale si sovrappone a ogni altra. La paura assorbe il campo e non lascia spazio ad altre considerazioni oltre quelle brutalmente contingenti. I personaggi delle fiabe non sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso tempo, come invece accade nella realtà. La scelta è obbligata, fa in modo che non si possa articolare il racconto e il lieto fine è pressoché scontato; ragione per cui risultano dannose per la crescita, in quanto limitano fortemente il campo dell’esperienza e delle emozioni. Pur precisando che per Bettelheim “Il succo di queste fiabe non è propriamente morale, ma piuttosto la fiducia di poter riuscire”. Raperonzolo è una fiaba europea, pubblicata dai fratelli Grimm nella raccolta (Kinder und Hausmärchen, 1812-1822). Il nome della protagonista dipende dal fatto che quando la madre era rimasta incinta venne presa dal desiderio di mangiare i raperonzoli che crescevano nell’orto della vicina, la strega Gothel. La vicenda può essere ricondotta alla figura mitologica di Danae. Ne Lo cunto de li cunti (1634), noto come Pentamerone, di Giambattista Basile si trova la fiaba Petrosinella, che narra una storia simile. Basile racconta di una donna gravida che desidera il prezzemolo (da cui deriva il nome di Petrosinella, nel dialetto campano) che si trova nel giardino di un’orchessa. Il mostro la cattura e in cambio della vita ottiene la promessa della bambina una volta nata. Tutto questo avviene ovviamente con un linguaggio elementare ma profondo, non sempre accessibile alla coscienza vigile; si tratta di una simbolizzazione. Per l’analisi delle fiabe da un punto di vista psicoanalitico, a parte il libro di Bruno Bettelheim, risultano esaustive anche alcune pagine di Melanie Klein e di Erich Fromm. Di particolare interesse sono le considerazioni della Klein in merito alla posizione depressiva e schizoparanoide: i personaggi non sono buoni e cattivi nello stesso tempo; è l’ambiguità a provocare uno sforzo di comprensione e uno scollamento della personalità. La polarità del carattere permette al bambino di comprendere la differenza tra un modo e l’altro, ma disturba il suo campo cognitivo. Il bambino si identifica facilmente con i personaggi che suscitano la sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua volta di essere buono. Nell’identificazione la domanda che si pone non è “desidero essere buono?” ma “chi voglio essere?”. Non è la virtù a fare buoni ma l’imitazione di un eroe con i caratteri della bontà; diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che di norma manca al bambino. Proiettando se stesso nel personaggio il meccanismo dell’interiorizzazione completa la formazione della sua personalità. La simbolizzazione è necessaria come mediazione con in linguaggio cosciente e la rappresentazione è una forma di simbolizzazione necessaria alla comunicazione con la parte in Ombra della personalità. Non va interpretato al bambino il significato della storia: “E’ sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio, e questo è particolarmente vero nel caso del bambino”. La mamma non deve mostrare al bambino che conosce i suoi pensieri intimi; la spiegazione distrugge l’incanto, trascina nella realtà e non permette di fantasticare. La fantasia è una forma di libertà, anche dei pensieri. L’antropologo russo Vladimir Propp nel suo saggio Morfologia della fiaba (1966) ritiene che tutte le fiabe presentino elementi comuni, ovvero una stessa struttura che ritrova al suo interno i medesimi personaggi che ricoprono le stesse funzioni in relazione allo sviluppo della storia. In particolare la fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la rottura dell’equilibrio (avventura) seguita dalle peripezie del personaggio principale, per giungere a un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione). Questo schema universale fa da cornice al processo di simbolizzazione all’interno della fiaba perché il contesto stesso della fiaba è simbolico: il simbolo viene rinforzato dalla struttura della fabula proprio perché è comune in tutte le fiabe. Attraverso la via dell’immaginario, favole e fiabe accomunano civiltà e culture lontane, dimostrando come in esse sono assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli archetipi di quello collettivo.

Quando si parla di favole e fiabe è anche inevitabile il confronto col mito, ma i processi identificativi risultano più complicati: se il mito, come la fiaba, può rappresentare un conflitto interiore in forma simbolica e suggerire la soluzione, presenta la storia in una forma colta spesso inaccessibile alla lingua e alla fantasia del bambino. Da un punto di vista propriamente psicoanalitico i miti sono collegati alle richieste del Super Io e raccontano il conflitto con le esigenze dell’Es e quelle di autoconservazione dell’Io. Sono rappresentazioni distanti e ricordano il rigore della censura o dell’imperativo morale. La favola, diversamente dal mito, non pone richieste, non produce un senso di inferiorità, stimola anzi una certa reazione. Attraverso esempi tratti dalla letteratura popolare, Bettelheim dimostra come il messaggio di queste storie domestiche aiuti a superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di grandi. Ed è per questo che risultano convincenti. Il pensiero del bambino è animistico (picchia la sedia su cui ha sbattuto, parla con la bambola); non ci stupiamo che il vento e gli animali parlino, o che un uomo si trasformi in un asino, poiché la separazione tra organico e inorganico non è ancora definita come nel mondo degli adulti. Le fiabe evocano situazioni che permettono al bambino di affrontare ed elaborare le reali difficoltà della propria esistenza; sono utili perché aiutano a tradurre in immagini visive gli stati interiori, danno un volto a quel che non ce l’ha. La fiaba intrattiene però il bambino, lo afferra come i gendarmi delle storie e lo costringe a riconoscersi in un contesto elaborato da un mondo adulto. Favole e fiabe sono scritte dai grandi e l’inconciliabilità con il mondo dei bambini è evidente, non possono che esercitare una qualche violenza. Doverosa certo, ma incontestabile. Il processo evolutivo del bambino inizia con la resistenza ai genitori e con il timore di crescere, e termina quando ha realmente trovato se stesso raggiungendo la stabilità psicologica e la maturità morale. Questi racconti danno voce a problemi umani rilevanti (il bisogno d’amore, il sentirsi inadeguati, l’angoscia dell’abbandono, la paura della morte), scarnificando le situazioni, separando il bene dal male distinguono in modo chiaro quel che nella realtà è confuso e parlano al bambino dei problemi che lui stesso avverte come angoscianti e ne prospettano le soluzioni. Soluzioni adulte naturalmente. Le storie accettano a livello della consapevolezza le pressioni dell’Es, e indicano i modi per soddisfare il piacere in accordo con le esigenze dell’Io e le intransigenze del Super Io. Il bambino ha bisogno “di ricevere suggerimenti in forma simbolica riguardo al modo di affrontare questi problemi”. Diversamente, quando i contenuti nascosti vengono negati, se non hanno accesso alla coscienza, oppure se vengono controllati o oppressi, la personalità subisce un danno. Il piacere ha una sua legittimità riconosciuta anche dagli adulti, incistare la dinamica Io-Es vuol dire produrre una personalità sofferente e problematica; le fiabe offrono una via di fuga all’adulto che le racconta e una certa soddisfazione al bambino che le ascolta. E’ fondamentale che un parte del sottosuolo possa affiorare alla coscienza e venga rielaborata attraverso l’immaginazione, perdendo parte della sua pericolosità. Bettelheim era critico sul fatto che al bambino debbano essere presentati soltanto le realtà positive. Il bambino non è un extraterrestre, deve fare i conti anche con la propria parte oscura, l’Ombra, con l’aggressività, l’odio, l’ansia, la rabbia maturando il coraggio per affrontare le difficoltà. Le difficoltà spesso le creano più o meno consapevolmente gli adulti, e una di queste è la sessualità.

Se è evidente la presenza di contenuti sessuali nella storia, le interpretazioni spesso discordano. Alcuni autori hanno spinto le analisi fino a rinvenire la prostituzione. La fiaba potrebbe essere intesa come un’esortazione a non esercitare quella professione. Il tema della ragazza nel bosco in molte tradizioni viene associato alla prostituzione; nella Francia del XVII secolo la mantellina rossa era un segnale e le lupae dell’antichità indossavano un drappo rosso. Il rosso rappresenterebbe le mestruazioni e l’ingresso nella pubertà (simboleggiata dalla foresta) e il lupo, l’uomo è visto come il predatore da cui guardarsi. Ma, pur non mancando l’erotismo nelle storie popolari, sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano, frutto come si vede di una certa morbosità e di un gretto intellettualismo da parte degli adulti.

Un aspetto invece interessante è l’antropofagia. La fiaba ha origine nel contesto europeo piegato dalle carestie, durante le quali non erano infrequenti i casi di cannibalismo (emblematiche sono la carestia francese del X secolo e la grande carestia del 1315-1317). Soprattutto nelle versioni più antiche delle fiabe la figura antropofaga prendeva la forma di un’orchessa, un mostro di sesso femminile, piuttosto che da un lupo (di sesso maschile, la cui antropofagia era riconosciuta come qualcosa di ordinario nelle vita quotidiana) e ciò fa pensare a come questi racconti si siano evoluti per rispondere alle diverse esigenze educative.

Per concludere. La fiaba è un racconto mitico costituito da immagini e personaggi archetipici. Jung scrive che le fiabe consentono di studiare l’anatomia della psiche meglio delle discipline scientifiche, in quanto presentano in forma pura i processi dell’inconscio collettivo e riproducono modelli del comportamento archetipico (von Franz, 1996). Occorre mettere da parte la cultura per ascoltare ciò che il simbolo ha da dire. Marie-Louise von Franz ha dedicato parte del suo lavoro proprio all’interpretazione psicologica della favola. Sottolineava che tutte le fiabe descrivano il Sé, l’archetipo fondamentale della psiche e l’obiettivo della vita. Nel libro Le fiabe del lieto fine; psicologia delle storie di redenzione (2004) la von Franz analizza il lieto fine a partire dalla trasformazione e la liberazione in quanto possibilità di arrivare al Sé. Le fiabe caratterizzano non solo l’equilibrio di un individuo, ma offrono anche un metodo terapeutico. Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello, per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz, 2009). Ciò vuol dire che la fiabe presentano gli archetipi nella forma genuina e pura, offrendoci un alfabeto e un metodo per comprendere i processi della psiche collettiva. Mentre nei miti, o in qualunque altro materiale letterario più elaborato, rinveniamo i modelli della psiche umana rivestiti di elementi culturali, nelle fiabe l’invadenza culturale è presente in misura limitata; riflettono più direttamente i modelli profondi della psiche. La ragione di un’interpretazione psicologica delle favole, per la von Franz consiste nell’effetto rigenerante, nella reazione emotiva, in quell’incomprensibile equilibrio che producono: “L’interpretazione psicologica è il nostro modo di raccontare storie; avvertiamo ancora lo stesso bisogno, aspiriamo ancora al rinnovamento che scaturisce dalla comprensione delle immagini archetipiche”. E aggiunge con autocritica: “Sappiamo bene che l’interpretazione è il nostro mito” (von Franz, 1996). Nel suo libro Le fiabe interpretate, l’autrice schematizzava le fasi per una corretta interpretazione, con una tecnica che ricorda quella strutturalista: introduzione (c’era una volta; la formula indica una collocazione fuori dallo spazio e dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e perciò comune, collettivo); personaggi (numerare i personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico); esposizione (l’inizio del problema, la crisi e le difficoltà che caratterizzano la fiaba, che vanno analizzati per comprenderne la natura); avventura e lisi (l’avventura, che può durare molte pagine fino a giungere al vertice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, l’esito finale; il racconto termina poi in tragedia o si conclude felicemente”). In ultimo ci sono le formule conclusive, “rite de sortie”, così dette per non rimanere imprigionati nell’universo infantile dell’inconscio collettivo. Una caratteristica della fiaba che non ritroviamo in altri generi come miti e leggende, è che la conclusione può anche essere ambigua, ossia una conclusione felice sottolineata da un commento negativo del narratore. Fiaba, sogno e gioco sono l’espressione del processo di simbolizzazione e dell’interazione del bambino con l’ambiente circostante. Il problema rimane quello di non farsi sequestrare dal racconto (Barthes) e di svincolarsi dalla lingua. La letteratura prende il sopravvento fornendo le regole dei comportamenti adulti. Può anche essere qualcosa di positivo, nel caso l’identificazione avvenga con l’eroe buono, ma il pericolo è di ritrovarsi imprigionati in un ruolo, peraltro legato ai modelli simbolici dell’infanzia. Si è detto della componente sessuale nella favole, il ruolo impedisce la consapevolezza dei comportamenti e limita la circolazione del desiderio. Biancaneve, Cenerentola, Pinocchio desiderano e sono in cerca del piacere. Nelle lingua di un bambino, fatta di metafore e metonimie, è più che evidente e il rischio è quello di circoscrivere questo fondamentale processo di crescita e di equilibrio nell’economia della psiche all’interno di quel contesto semantico a cui abbiamo dato il nome di favola. La trasgressione, la disubbidienza sono un modo per svincolare il desiderio dai binari del linguaggio e dalla narrazione. Si converrà che per il bambino che ascolta il racconto rimangono la parte più eccitante, quella che viene percepita con maggiore intensità. Non c’è analogia tra fiaba, favola e sogno, sul piano linguistico e simbolico rappresentano esperienze comuni. Peirce distingueva tra tre tipi di segno: quello “iconico” (che assomiglia al suo referente; ad esempio il disegno di un cane), quello “indessicale” (che mantiene una relazione di causa col referente; le nuvole come segno della pioggia), e quello “simbolico” (che non ha nessuna relazione col referente). Favole, sogno e gioco dimostrano l’arbitrarietà del segno e la convenzionalità delle proposizioni. Imbrigliato nella lingua il desiderio non è più libero di circolare alla ricerca della realtà svincolata da una narrazione; produce allora una rappresentazione o una pantomima sulla spinta di un’esigenza morale. Metafora e metonimia precedono però non solo la lingua ordinata in un sistema semantico, ma la morale stessa. Jakobson partendo dalla distinzione tra dimensione verticale e orizzontale del linguaggio (che si collega a quella tra langue e parole), parlava di una sistematizzazione del linguaggio sull’asse sintagmatico o su quello paradigmatico. L’asse sintagmatico è quello sul quale gli elementi linguistici si dispongono in una linea; quello paradigmatico è il ricettacolo dal quale si attingono gli elementi da sistemare sull’asse sintagmatico. Ad esempio, nell’enunciato Il cane morde il gatto, ogni parola è disposta sintagmaticamente lungo l’asse orizzontale, ma posso attingere paradigmaticamente dal genere dei nomi per sostituire a “gatto” o a “cane” altre parole e ottenere una nuova frase: il papà morde il panino. Per Jakobson, questa distinzione sui due assi corrisponde alla distinzione tra metafora e metonimia. La metafora presenta la sostituzione di qualcosa sull’asse paradigmatico; la metonimia su quello sintagmatico. Da questo punto di vista, la favole e la fiaba (come il sogno) sono un lingua onirica che si costruisce sulle sostituzioni continue tra i due assi, giocando con metafore e metonimie. Il contenuto morale afferra il linguaggio in una sedimentazione, elaborando i termini lo irrigidisce in una catena semantica che impedisce il passaggio dall’asse paradigmatico a quello sintagmatico. E ciò in sostanza vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato o domato dalla morale il desiderio conduce, come in una favola, prima o poi a dominare quello dell’altro.

 

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