Un’altra parola è stata sdoganata: ASSEMBRAMENTO. Non si sentiva dall’epoca del Ventennio e ha sostituito termini come relazioni, affetti, famiglia (il blasonato al governo l’ha sovrapposta anche agli ambienti intimi e domestici). Con una connotazione assolutamente negativa rispetto alla socialità promossa e tutelata dalla Costituzione. Assembramenti sono anche le associazioni, le organizzazioni politiche e le libere espressioni di protesta, anch’esse censurate con l’alibi neanche troppo originale di un virus influenzale.
La stampa igienica e la Tv spazzatura la usano con metodo e anche voi con troppa disinvoltura. Attraverso le parole manipolano il vostro pensare, vi fanno assorbire contenuti che non hanno, veicolando una forma di società autoritaria e priva dei caratteri della solidarietà.
A parte la matrice fascista (o nazimaoista) non sottovalutate il lato semantico. Due o più persone non sono un assembramento, mi sembra una sintesi impropria e riduttiva di una realtà più articolata. L’amicizia, il dialogo, la socialità sono un fatto affettivo. Le aggregazioni politiche il bisogno a riunirsi per dare luogo a un corpo sociale. Le orge, pure loro, non le puoi chiamare assembramenti. Hanno qualcosa di poetico, dipende ovviamente da chi hai dietro. La messa e la scuola anche. Non ho mai sentito dire a nessuno: questa sera vieni a casa mia, facciamo un assembramento. La gente normale cena, si incontra, parla. Ci vuole una mente malata per concepire un gruppo di persone come un assembramento.
Fa tanto mandria o gregge, corpo nelle sole funzioni biologiche. Neanche Marx era arrivato a tanto, da quel che so non ha scritto: proletari di tutto il mondo assembratevi. Eppure questa è la neolingua di un dittatoruncolo spuntato chissà come dall’Istituto Luce. Con mille difetti e un solo pregio, quello di non averne nessuno.
Un giorno si dirà del blasonato: quando c’era lui gli assembramenti arrivavano in orario. Anzi no, credere obbedire distanziare. O meglio: È l’aratro che traccia il solco ma è Casalino che lo difende. Ma forse sui libri di storia verrà ricordato con una sola frase lapidaria: visse un giorno da leone e cento li passò a pecora. Perché può anche capitare che quando vai per fottere vieni fottuto
Ieri con RedBavon e Cuoreruotante abbiamo parlato della censura su Facebook. Qualcuno ha scritto Facebook, chi è? Con ironia antifrastica e siamo d’accordo: è il nulla riempito di niente con il vuoto attorno. Tuttavia è un fenomeno sociale vastissimo, numericamente impressionante con due miliardi di iscritti; l’azienda americana li chiama account, ma sono persone con diritto di pensiero e di parola. Red l’ha chiarito benissimo nell’analisi che segue.
post che rispetta le norme dalla comunità Facebook
Santissimo Zuckerberg! Scusa la volgarità!
“Scusa la volgarità? E perché? “ “Quello ogni cosa è peccato! È capace, vede il punto esclamativo … cos’è ‘sta cosa; l’uomo con il puntino sotto, è peccato, noi ci mettiamo con le spalle al sicuro. Scusa le volgarità…” (cit. dalla lettera a Savonarola di Benigni e Troisi in “Non ci resta che piangere”)
La censura di Facebook si è abbattuta sulla bacheca di Giancarlo e ha eliminato il post che indirizzava all’insano contenuto pubblicato in terra di WordPress, frutto della spremitura di tastiere di Cuoreruotante, Giancarlo e me. Motivazione: “contenuto pornografico”.
il nostro post censurato per pornografia
La motivazione fa ridere per almeno tre ragioni:
Non è un articolo ma un link al post su WordPress e le righe di presentazione scritte da Giancarlo sono tutto fuorché “pornografiche”. Abbiamo le prove: l’immagine del post di Giancarlo è sopravvissuta nella mia bacheca. (NdA: Giancà due sono le cose: hai una “reputation” sotto lo sporco delle suole delle scarpe oppure, come direbbe il Marchese del Grillo, io non sono “un cazzo”.).
La commedia sexy all’italiana è classificata come sotto-genere della commedia all’italiana e non nel genere “hardcore” o “XXX. Solo per adulti”.
Non è necessario nemmeno scomodare il gotha della critica cinematografica, ma è sufficiente avere visto qualche film per capire che qualche tetta e culo al vento non fanno “pornografia”: basta fare una passeggiata sulla battigia d’estate, assistere in TV a un qualsiasi show di varietà o passare davanti a un cartellone pubblicitario.
Dall’autorevole Treccani la definizione di “pornografia”: trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, video ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.
Se ne desume che lo scultorio posteriore della Cassini o il giunonico seno della Fenech siano ritenuti dai moderatori di Facebook come “osceni” e che lo scopo del nostro articolo fosse di “stimolare eroticamente il lettore.”.
Chiunque abbia letto anche solo le righe di Cuoreruotante, che apre il trittico di contributi, può comprendere che il moderatore, fan di Tomas de Torquemada, è fuori come una fioriera sul balcone del decimo piano oppure ha molti più problemi di noi tre con la lingua di Dante.
Gli altri due contributi sono scritti da due autori maschi e, dato il tema, il moderatore potrebbe attendersi, come minimo sindacale, almeno della “pruderie”: a parte un lessico più libertino e qualche fotogramma che esalta le decantate doti delle attrici, si tratta di un tributo a un genere che ha fatto storia nel nostro cinema e, stilisticamente, è un divertissement (il mio) e un piccolo saggio (quello di Giancarlo).
Con i suoi due miliardi di utenti (fonte Ansa.it 28 giugno 2017), è chiaro che Facebook è di fronte a una sfida senza precedenti e, comunque, di portata titanica. La società di Mark Zuckerberg, quasi senza accorgersene e nonostante una folta schiera di detrattori e concorrenti, è diventata tra i messa media l’organizzazione più grande e a più ampia diffusione nel mondo.
Due miliardi di individui compresi nell’ampio spettro di varia umanità anche avariata con le loro capacità di intrattenere, informare, emozionare, meravigliare, rattristare, disgustare, annoiare, terrorizzare.
Si stima che il Community Operations Team, la squadra di moderatori di Facebook, forte di 4.500 operatori, per lo più sotto pagati (leggi Underpaid and overburdened: the life of a Facebook moderator – The Guardian, 25 maggio 2017), deve prendere visione di oltre 100 milioni di contenuti ogni mese; ciò significa che ogni moderatore ha mediamente un carico giornaliero di 741 post e, calcolando 8 ore lavorative, ha meno di un minuto per singolo contenuto. In questo minuto scarso deve farsi un’idea e sentenziare sulla conformità ai “Community Standards”, ovvero le regole auto-definite dalla società.
Mark Zuckerberg ha dichiarato che intende rafforzare il Community Operations Team con altre 3.000 risorse; applicando lo stesso calcolo a un numero di contenuti costante (in realtà sono in aumento vista la tendenza alla crescita di nuovi iscritti), il moderatore avrebbe finalmente poco più di minuto per esaminare un singolo contenuto. A leggere certe esternazioni di politici italiani in un minuto io ho problemi a capirli nel loro italiano, che quando va bene è in “politichese”. Di sicuro non ho le caratteristiche adatte per candidarmi a uno dei tremila nuovi posti di lavoro per il Community Operations Team.
La prima reazione quando Giancarlo mi ha comunicato della censura del nostro post non è stata esattamente compita, mi sono lasciato andare a strali dall‘educato “bacchettoni” al – Parental advisory. Explicit Content – “cazzoni“. Interloquire con chi ha deciso di censurare è impossibile perché la piattaforma è “social” fino a un certo punto; diventa “asociale” se vuoi rivolgerti alla società che la amministra. Mi sovviene nuovamente la famosa frase del Marchese del Grillo: “Ah… mi dispiace. Ma io so’ io… e voi non siete un cazzo!“.
Facebook non ha politiche trasparenti, sopratutto nell’applicazione. La prova è nei numerosi e grossolani errori in sono incorsi.
Gli abbagli clamorosi nell’applicazione della censura per i soli contenuti “sessualmente espliciti” si sprecano.
Lo scorso marzo Facebook blocca una pubblicità. Se il moderatore avesse avuto un po‘ più di tempo si sarebbe accorto che la pubblicità era una collezione di opere d’arte e che l’immagine ritenuta offensiva fosse il dipinto “Women Lovers” di Charles Blackman. Giudicate voi l‘”oscenità”:
A settembre dell’anno scorso la toppa più clamorosa:
una delle foto più iconiche mai scattate, nota come “Napalm girl”, che valse il premio Pulitzer al fotografo, Nick Ut, cade sotto la sciagurata mannaia della censura Facebook. Kim Phuk, la bimba all’epoca ritratta nella foto, fece sapere che era rattristata da tale notizia. La foto viene ripristinata dopo la prevedibile e legittima gogna mediatica. Una figura barbina per Facebook tanto che Zuckerberg cita tale macroscopico errore nel suo discorso-manifesto “Building Global Community” pubblicato a febbraio, ne trae spunto per dedicare un capitolo intero e circa un migliaio di parole sul tema “Inclusive Community”.
Zuckerberg è ancora lì sul suo dorato piedistallo, il post citato nel momento in cui scrivo “piace” a 100.597 utenti, ha 14.940 condivisioni e conta 7.000 commenti.
Ho i miei dubbi che il moderatore che ha censurato “Napalm girl” lavori ancora per Facebook.
Secondo Zuckerberg, Facebook sarà un social network con sempre maggiore enfasi sui rapporti umani, promuovendone le interconnessioni. Tale dichiarazione è stridente, se non contraddittoria, con quanto invece succede ogni giorno sulla piattaforma: linguaggio violento, discriminatorio, cyber-bullismo, un campionario male assortito di crudeltà, frustrazione e miseria (dis)umana.
Al di là del linguaggio violento (il pistolotto sull’ “Online Disinhibition Effect” ve lo tiro un’altra volta), la vera questione è se gli utenti siano in sintonia con l’”ambiente” in cui interagiscono, se si sentano a proprio agio nel perimetro fissato dalle regole auto-definite dalla società, dichiarate in modo generico e applicate, come da esempi riportati decisamente più famosi del nostro, con una buona dose di arbitrarietà.
I sacrosanti e tanto cari principi di libertà di pensiero ed espressione su cui Internet è fondata vengono lanciati fuori dalla finestra quando non coincidono con gli interessi del “business”.
La censura è già un’espressione di controllo su una società che è reputata non in grado di auto-selezionare i contenuti adatti e pertanto ha bisogno di un organo di controllo super partes. E sappiamo quanto “super partes” sia vuoto di significato quando vi sono altissimi interessi economici e politici in gioco. Ogni riferimento all’”idolatria del denaro”(cit. Papa Francesco) del capitalismo selvaggio nonché alla censura fascista, nazista, comunista e di qualsiasi regime totalitario odierno è puramente voluto.
Nella fattispecie, i rischi di una censura applicata da un controllo privato ad opera di una società multinazionale sono già sotto gli occhi del cittadino, anche non utente social network: si pensi a quanto è stato riportato sull’influenza delle “fake news” durante la recente campagna elettorale statunitense e delle cosiddette “filter bubble”, cioè il tracciamento del comportamento online dell’utente con lo scopo di offrire contenuti coerenti con le sue preferenze.
Nessuno conosce gli algoritmi e le esatte politiche di Facebook (ma neanche di Google): non temo il rischio d’imbattermi in un contenuto non adatto se non addirittura “osceno”, perché così – fattane esperienza – la prossima volta saprò evitarlo. Ciò che temo è che non saprò mai ciò che è stato cancellato arbitrariamente da Facebook o da Google e considerato “non adatto” per me.
Io rivendico la mia libertà di scelta, oltre che di espressione. Io rivendico come utente della Rete la libertà che Internet ha nel suo DNA.
Se i moderatori di Facebook continuano in questa applicazione arbitraria di regole auto-definite dalla multinazionale di cui sono dipendenti, il rischio è che diventino dei moderni inquisitori.
È inutile negarlo: “Facebook is the king of the social media” (cit. Forbes, 23 marzo 2017). Facebook deve perciò ammettere che gioca un ruolo importantissimo per come decine di milioni di persone vedono il mondo intorno, per come comunicano. Pertanto, è responsabilità di Facebook attuare politiche sempre più trasparenti, con l’obiettivo di specificare il “perché” e il “come” prendono le decisioni se un contenuto è da cancellare e non deve essere visto da altre persone.
L’attuazione di linee guida dettagliate e trasparenti è anche un modo per l’utente per capire il proprio “perimetro” e dove ha sbagliato se il suo contenuto è stato eliminato. Nel nostro piccolo caso, l’evidenza è che la commedia sexy all’italiana e ciò che abbiamo scritto non è un contenuto né “sessualmente offensivo” né tantomeno “osceno”. Perché allora è stato eliminato?
È anche vero che se l’utente conoscesse nel dettaglio le “regole del gioco” potrebbe decidere di non essere più parte di quella “comunità” perché non le condivide e non si sente a proprio agio. Ciò chiaramente stride contro la carta-obiettivo che Zuckerberg ha estratto dal mazzo: “Conquista le due Americhe, Africa, Asia, Europa e un quinto continente a tua scelta”
Firmato:
Tre persone, tre personcine, noi siamo tre personcine per bene che non farebbero male nemmeno a una mosca…
Non c’è solo la censura su Facebook (per gli inserzionisti è in programma un articolo sull’inutilità della pubblicità a pagamento su Fb). All’ingresso nella comunità si leggono due righe: Facebook è gratis e lo rimarrà per sempre. Gratis non vuol dire senza costi e vincoli. Avete presente i viaggi gratis delle aziende che vanno a prendere col pulmino i pensionati per vendere loro pentole e coperchi? Si tratta di quello. La multinazionale americana ha creato un ingranaggio mediatico per far soldi e li fa vendendo prodotti, il resto sono balle. I neuroassenti postano pensieri subilimi e poesie di altissimo livello, ovviamente tra un consiglio per l’acquisto e l’altro. Raccoglie il peggio della comunicazione, perché il peggio è quello sensibile alle proposte commerciali. Si tratta di un quarto della popolazione mondiale, numeri colossali; e se un quarto del pianeta si riversa in quella piazza virtuale i conti con il diritto, la politica e la democrazia dobbiamo pur farli. Non si può liquidare la questione: è casa mia e le regole le faccio io. Non si può fare quando a due miliardi di persone viene limitato o negato il diritto al pensiero e alla parola. Perché questo fa. Facebook è una multinazionale fuorilegge e legittima più dell’illegalità la barbarie: razzismo, omofobia, violenze e minacce morte la fanno da padrone. Il nazismo è apertamente tollerato e il fascismo sponsorizzato come l’espressione più alta dell’intelligenza umana. Il livello è quello ed è riduttivo parlare solo di pentole e coperchi, perché ZuckerMastrota fa politica su scala mondiale raccogliendo consensi tra gli individui socialmente disadattati e intellettualmente ipodotati. Ed è chiara la visione del mondo che ha: censura, razzismo, fascismo, un po’ di clericalismo che fa la sua porca figura, omofobia. Con molta retorica ovviamente e quella appunto è uno dei nomi della politica nella deriva autoritaria; la più feroce e pericolosa, svincolata dall’ideologia. Il mercato e il consumo, solo quello e prima di ogni cosa; i soldi, che si capisce meglio.
post che rispetta le norme della comunità
Mi spiego con un esempio
E’ un po’ che sfoglio la pagina di un noto politico, per motivi professionali più che altro. Al principio assumevo dosi massicce di bicarbonato, poi mi devo essere assuefatto. Quel che accade nella lingua, e in particolare nel linguaggio comune, si riverbera nella vita. Su quel profilo Facebook il termine più ricorrente è invasione, negro (con la g), rom; segue extracomunitario, meridionale storpiato in merdanale, in leggera flessione Roma ladrona. Una ragione c’è, non si sputa nel piatto nel quale si mangia. Ricorrono i neologismi: sinistrato, cattocomunista (il più delle volte con la k), sinistronzo, sinistrotto, piddino, renzino. L’uso del neologismo ha una funzione particolare, tende a circoscrivere l’individuo in un gruppo e il gruppo in un luogo comune con una lingua incomprensibile fuori dal recinto. (Lo stesso accade con le degenerazioni neuronali o psicotiche.) Perché di quello si tratta, le mandrie si uniscono attorno al capobranco che promette ordine e qualche benevolenza. La parola ordine ha una natura apotropaica e curativa quando l’Io perde le sue funzioni. Le parolacce la fanno da padrone: caxxo (con la x), rottinculo, checca, negrodimerda, terrone qualche volta. La grammatica latita, ma si tratta di gente laboriosa, non di sfaccendati intellettuali che hanno tempo da perdere con i dettagli. I concetti sono ridotti al minimo: gravitano attorno a poche idee, confuse neanche tanto; la prima attorno alla quale ruotano le altre è la paura per l’uomo nero che ti tiene un anno intero (come nella filastrocca). La medicina che gli accoliti propongono è il rimpatrio, la galera, la frusta a volte per gli indesiderati. La dinamica della discussione è pressoché la stessa: il mentore scalda gli animi con una domanda retorica e l’esercito infuriato parte in battaglia. Non c’è posto per la discussione, la regola è che a casa nostra facciamo come ci pare e se non vi sta bene fora di ball. Il capitano commenta poco e quando compare sembra un bulletto di periferia che si mette alla guida fomentando la massa inferocita. Non stempera le animosità, istiga piuttosto con un’ironia che a lui sembra sottile, ma che non va al di là della volgarità di certi film anni ’70; la mandria fa muro e tutti insieme si riuniscono a mangiare polenta e osei. I luoghi comuni la fanno da padrone; un luogo comune è un pensiero che fa riferimento a un’abitudine culturale maturata nel sentire popolare. La realtà è un’altra cosa, ma quando c’è un limite cognitivo la comprensione viene filtrata da un’idea tanto diffusa da sembrare verosimile. La verosimiglianza è però lontana dalla verità, come la demagogia e la retorica dalla politica. Non si tratta solo di una disfunzione semantica indotta dalla mancata padronanza del vocabolario, ma di una profonda degenerazione neuroantropologica. Si sente nell’assenza del senso delle parole e appunto nel prevalere dei luoghi comuni. E vengo al punto: la demenza neurolinguistica è caratterizzata dalla perdita del significato e dal deterioramento cognitivo; è una manifestazione clinica della degradazione lobare frontotemporale, associata all’atrofia del giro temporale inferiore e medio.
post che rispetta le norme della comunità
Le persone affette presentano problemi nella denominazione e nella comprensione di parole, nel riconoscimento dei volti, delle cose, delle situazioni, della realtà; la predominanza del verbale o non verbale (e nel nostro caso delle gutturali che dominano sulle articolazioni mature della lingua) riflette l’accentuazione dell’atrofia cerebrale. Alla distruzione del linguaggio si accompagna quella della personalità e a seguire la dimensione democratica e sociale dell’individuo. L’aggressività, la violenza, l’odio sociale verso un fantasma immaginario e minaccioso è uno dei morfemi dello stato paranoico di un poveretto che ha smesso di desiderare in maniera sana e consapevole e ha cominciato a odiare.
Su Facebook è questa la regola ed è una regola politica, non l’eccezione. Il resto, il moralismo, le crociate contro il nudo, il noallaviolenzaalledonne e al bullismo sono solo la sottana dietro alla quale si nasconde il bimbo cattivo dopo le marachelle.
Sono Cuoreruotante. L’articolo che avete ingiustamente censurato porta anche la mia firma. Mi metto per un attimo nei panni di una persona ignorante, leggasi “colei che ignora”, e, cerco, sforzandomi, anche da ignorante, di estrapolare qualcosa di pornografico nell’articolo che abbiamo scritto. Non ci riesco. Abbasso l’asticella delle mie pretese, ancora nulla di vagamente pornografico. Mi ricordo di essere ignorante, allora vado a cercare il significato della parola “pornografia”. Da Wikipedia: La pornografia (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento” e quindi letteralmente “scrivere riguardo” o “disegnare” prostitute) è la raffigurazione esplicita di soggetti erotici e sessuali in genere ritenuti osceni ed effettuata in diverse forme: letteraria, pittorica, cinematografica e fotografica. Bene, ho capito e rileggo. Niente, non abbiamo scritto di prostitute o prostituzione, di atti osceni o indecenti.
Abbiamo dato risalto, con parole semplici e forbite, ad un genere di film prettamente comico, ma ad alto contenuto culturale. Non ci sono termini volgari, immorali o, vagamente, riconducibili ad essi.
Esistono gruppi su Facebook che inneggiano realmente alla prostituzione, che offendono (eufemismo) donne, bambini e chi non la pensa come loro. Trovo ingiustificato il vostro comportamento con la censura dell’articolo e il blocco dell’account di Giancarlo Buonofiglio. Vi invito a spiegarmelo, vi ricordo che io sono ignorante. Grazie
Il non finire mai è il carattere delle cose. Cambiano, perdono di senso ma solo per acquisirne un altro, si rinnovano e non smettono di esistere; finisce un senso e ne comincia un altro. Decontestualizzare mi sembra la parola corretta; la decontestualizzazione non è la distruzione della cosa, ma lo spostamento in un altro luogo. Nello spostamento non c’è una perdita di senso, piuttosto la sua trasformazione.
La vita intima della cosa (ciò che la qualifica nella funzione) non è nell’uso-per dato dalla mano (Das Wesen der Hand,come Vorhandenheit e Zuhandenheit). Nello spostamento le mani compongono e dispongono, a volte indispongono. La scomposizione è il fenomeno più radicale dello spostamento. Stai composto, quante volte lo abbiamo sentito dire? E puntuale arrivava la sberla, la mano appunto che riordinava contestualizzando il corpo del bambino in uno spazio comune. Per le mamme voleva dire: riordina, ogni cosa deve stare al suo posto. Il rafforzativo confermava la regola: ri-, ordina nuovamente; la ripetizione è già un imperativo. Ma i bimbi sono disordinati e disinvolti per una naturale avversione alle regole, anarchici con le imposizioni, ostinati con le prescrizioni; e infatti si indispongono, scompongono e rompono gli oggetti. Oltre naturalmente gli impronunciabili. Cercano un senso al di là di quello già dato, perché alla curiosità dell’infanzia l’impronta dei grandi davvero non basta. Scomporre vuol dire non tanto dividere una cosa, ma metterla fuori posto, fuori dall’ordine a cui le mani l’hanno abituata. Le abitudini diventano prima regole e poi leggi, non è un argomento da sottovalutare; e infatti i fanciulli non lo sottovalutano affatto. Assimilano il Begriff, la struttura intellettuale che rileva (Aufhebend) l’afferrare, begreifen, il comprendere prendendo, padroneggiando e manipolando le cose. Ma ne diffidano fortemente. La mano di Heidegger, che si muove con la callidità del linguaggio è ciò che organizza gli oggetti secondo un ordine. La sua è però una mano adulta, intellettualmente educata a ricomporre il tempo (perché di quello si tratta) secondo il prima e il poi. Apparecchiano la tavola in cui sistemano le cose così come devono stare. Il linguaggio comunica, manipola, prende, proprio come fa la mano toccando quel che la lingua raccoglie. La mano anticipa la parola e dà luogo a una metafisica dell’afferramento imponendo all’oggetto un’intenzionalità; questa cosa la chiamiamo comprensione, ed è la versione scolorita del Begriff. Afferrando le cose le ordiniamo, ossia diamo loro un ordine (ricordate quando le mamme dicevano fai questa cosa? Di norma il dito era puntato e la mano vagamente minacciosa). Le mani assegnano non solo la funzione all’oggetto ma lo definiscono nello spazio e lo limitano nel tempo. In Sein und Zeit sembra che le cose debbano prendere ordini dalle mani e così non è. Heidegger non è un profanatore della cultura, è più simile a un maggiordomo scrupoloso nella pulizia e metodico nel riporre le cose al proprio posto; l’uomo (Dasein) continua ad essere la misura delle cose e le cose non esistono se non in funzione del soggetto. La Fenomenologia aveva però fatto qualcosa di diverso dislocando il soggetto: il decentramento comporta una radicale distorsione anche dell’oggetto, proprio come accade ai bambini che si meravigliano per quello che vedono e non per ciò che sentono dire; esiste qualcosa fuori di loro e questa cosa pur dilatata dalla fantasia la chiamano reale. La realtà piace ai bimbi più delle favole. Li colloca, li definisce, li dimensiona non al di là, ma nelle cose. E li fa sentire vivi. Se esiste qualcosa, la sua esistenza si conferma non in una relazione col nostro percepirla (la percezione è una rappresentazione), ma in autonomia, al di là di quello che siamo. Le cose sono cose e possono fare a meno della nostra presenza.
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La realtà, essendo ciò per cui una cosa è quella e non un’altra, esiste e di vita propria, indipendentemente dall’essere conosciuta o manipolata; la funzione è un accidente e mai qualcosa di sostanziale. Ma gli universali universalizzano collocando gli oggetti in un universo di senso, che vuol dire in un verso solo. Le idee quando pensano il reale secondo la mansione vanificano le parole (il nome che diamo alla cosa) in un vuoto nominalismo. Il reale esiste, è pensabile (a condizione che si conformi il pensiero all’interno dei limiti delle cose, in re o post rem), è esprimibile, ha una collocazione definita nello spazio e nel tempo. Si definisce come specie o categoria ma solo nei contorni dell’ecceità, che è “la causa, non della singolarità in genere, ma di questa singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa” (haec determinate). Il pericolo dell’andare oltre, nell’universale, è di farsi travolgere dall’intenzionalità del senso.
Torniamo alla decontestualizzazione: una scarpa al piede la identifichiamo per quello specifico uso, posta su una parete diventa una scultura, un oggetto puramente estetico; decontestualizzato l’oggetto si libera dalla presa delle mani e del linguaggio, svincolandosi dall’ordine morale prima che da quello intellettuale. Scultura di cattivo gusto il più delle volte, ma con Cattelan abbiamo visto di peggio. In Heidegger c’è la conferma di tutta quanta la nostra storia culturale, quella che fa dell’uomo la misura delle cose, che gli ruotano attorno come alla causa finale. Non è un discorso complesso: immaginate Belen in un centro anziani e capiamo in che modo avvenga l’attrazione. Eppure la tecnologia dimostra proprio il contrario: le cose come oggetti con una propria ontologia sono qualcosa di intimamente eversivo; la tecnica ha tecnologizzato le persone vincolandole alle cose, l’ideologia le ha rese schiave di un’idea, la lingua della rete o delle televisioni ha modificato in profondità il linguaggio, l’arte ha decontestualizzato le cose facendone appunto altro. Questo altro nel quale l’oggetto prende una diversa forma, senso o contenuto può essere affettivo, estetico, pratico. Le cose non passano dall’essere al non essere, non finiscono mai; si svincolano dalle mani e diventano semplicemente altro, vanno a vivere altrove. Cambia la funzione e la funzione è ciò che dava loro il senso. Quando Eraclito scrive (o meglio qualcuno per lui) πάντα ῥεῖ, oltre a delineare la sceneggiatura del noto film con Robin Williams, intende che ad ogni istante che passa non siamo più quelli di prima, che cambiamo, diventiamo difformi, deformiamo. L’argomento non è inconsistente, parliamo di piccoli frammenti di tempo come se nulla fossero; eppure provate a rispondere un attimo! alla consorte quando vi chiede di svolgere un compito, e vedrete che quell’istante viene recepito come come un’era glaciale. L’attimo sarà pure fuggente, ma non è comunque mai negoziabile.
Le mani afferrano gli oggetti e danno loro un senso, si muovono nell’orizzonte del possibile e quando si cimentano con l’impossibile non bastano più. I detrattori parlano allora di adynaton, affermando l’impossibilità che una cosa avvenga subordinandone l’avverarsi a un altro fatto ritenuto impossibile. L’argomento è però debole, retorico, funziona nel linguaggio pratico ma la vita è un’altra cosa. L’impossibile non è il limite dell’oggetto, piuttosto la sua possibilità di trasformarsi o deformarsi in altro.
Dando il nome a uno oggetto lo individuiamo in quel che serve, attribuiamo una categoria e la categoria è un universale che identifica la cosa, la rende identica a se stessa. Con le parole istituiamo una mistica dell’oggetto e dunque una metafisica. E tuttavia la realtà è ciò per cui una cosa è quella e non un’altra, esiste indipendentemente dall’essere conosciuta. Le idee quando pensano l’ideale come reale vanificano le parole in un vuoto nominalismo. Il reale esiste, è pensabile (a condizione che si conformi il pensiero all’interno dei limiti delle cose, in re o post rem), è esprimibile, ha una collocazione definita nello spazio e nel tempo. Si definisce come specie o categoria ma solo nei contorni dell’ecceità, che è “la causa, non della singolarità in genere, ma della singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa”. Il pericolo dell’andare oltre è di cadere nella rete della metafisica e dell’ideologia, dell’abitudine intellettuale a disporre le cose assecondando un ordine. Questo vale tanto nella vita ordinaria, quanto nella sua dilatazione sociale: fuori dal reale non ci sono che le parole e il linguaggio della politica (per la relazione che sussiste tra l’universale e il banale esercizio del potere) lo dimostra pienamente; manca l’arrosto e vende il fumo. C’è una regola in cucina e le mamme la esercitano per lo più con eleganza: gli aromi coprono gli odori di una pietanza deteriorata, rendono appetibile l’alimento andato a male o sgradito ai bambini. E così poste le cose in un senso che rende impossibile l’altro, non solo ne decretano la fine contornandone i confini, ma si comportano come gli imbonitori medievali che si fermavano nelle piazze trafficando le piume dell’arcangelo Gabriello a una plebe ignorante, convinta di sfamarsi con l’arrosto mentre in realtà mangiava la merda.
Nota personale: non so com’è, ma pur nella veneranda devo avere un rigurgito d’infanzia; non ho un Io tautologico, non ragiono in termini idealistici e penso che la verità non necessiti della mia presenza. Sono certo che possa fare a meno della mia ontologia. Non sono un metafisico e la veritas (come) est adaequatio rei et intellectus (la verità come corrispondenza della cosa e dell’intelletto) mi sembra una forma di delirio. E così guardo alle cose per quello che sono (come i paradossali oggetti delle foto) e per lo più mi piacciono, le spoglio e le scopro ogni giorno. E ogni giorno mi sembrano meravigliose.
Il nostro tempo verrà ricordato come quello dei quiz (o dei test, per dirla in un modo più professionale). Ce n’è di tutti i generi e per le diverse tipologie. Quelli per misurare il QI, la personalità, l’orientamento politico, il Rorschach; ne ho anche trovato uno che valuta la capacità di sopportazione al pecorino e ‘nduja mangiati a Ferragosto. I quiz sono semplici, danno risposte immediate e spesso compiacenti, forniscono qualche conferma e ognuno ha l’illusione di aver capito qualcosa di sé. I più gettonati sono ovviamente quelli di psicologia, sintetici, inconfutabili, veloci e l’oracolo si esprime in pochi minuti più che in anni di autoanalisi. Quelli che affondano nella sessualità sono parimenti ricercati: ti piace il sesso e quanto ti piace, come lo fai e dove lo fai, quante volte e perché. Con chi sembra irrilevante e sul perché il più delle volte tacciono. L’erotismo è indagato con questo insolito strumento che ha il carattere di soppesare la personalità in un contesto più ampio, diffuso, socialmente accettato. Qualcuno dopo i test si adegua alla sentenza, ma i più perseverano nelle abitudini; perché un test è solo un test e si fa più per curiosità che per una reale morbosità o interesse, mentre la vita è pur sempre un’altra cosa.
Qualche tempo fa mi sono cimentato anche io coi quiz, scrivendone qualcuno. Uno in particolare (dal mio De rerum contronatura) lo riporto qua: sono domande per valutare il grado di omosessualità, latente o meno, nascosta o orgogliosamente palese. A margine ci sono anche le soluzioni.
DOMANDE
1) Vi trovate in una camera d’albergo con una donna meravigliosa. E’ nuda, distesa sul letto, vi chiama. Cosa pensate?
a) Che cosa vuole da me?
b) Chissà se mi presta lo smalto
c) Certo che l’idraulico è proprio carino
2)Tornate prima dal lavoro. Vostra moglie è a cavalcioni sull’idraulico. Cosa fate?
a) Chiedete all’operaio il numero di telefono
b) Chiedete a vostra moglie chiarimenti sulle lezioni di ippica
c) Chiedete di partecipare
3) Cosa fate prima di un rapporto sessuale?
a) Leggete la biografia su Maria Goretti
b) Telefonate ad un amico e chiedete come comportarvi
c) Telefonate all’idraulico
d) Non avete mai avuto un rapporto sessuale
4) Che cosa fate dopo un rapporto sessuale?
a) Ricominciate
b) Abbracciate la vostra compagna
c) Abbracciate l’idraulico
d) Non avete mai avuto un rapporto sessuale
5) Cos’è l’orgasmo?
a) Un programma di studio universitario (tale Programma Orgasmus); come lo chiamano gli studenti
b) No…n..lo..sa…p……ete!!!
c) E’ quell’intensa sensazione di piacere che provate quando pensate all’idraulico
6) Dove si trova il punto “G”?
a) Di sicuro tra la “f” e la “h”
b) Nella regione periuretrale della parete vaginale anteriore
c) Sul glande
d) Sull’idraulico
7) Quali sono le dimensioni medie del clitoride?
a) 1 mm
b) 1 cm
c) 18 cm (?)
8) Quale parte del corpo vi eccita di più in una donna?
a) Le scarpe
b) Il seno
c) La sacca scrotale (?)
9) Che metodo contraccettivo usate?
a) Il profilattico
b) La pillola (?)
c) Il coito interrotto
10) Quale di questi animali ad ogni singola eiaculazione produce 1 litro di liquido seminale?
a) L’uomo
b) Il maiale (non per caso è chiamato “porco”)
c) L’idraulico (non per caso ci state assieme)
11) Quale delle seguenti disfunzioni è la più frequente nel sesso maschile?
a) Eiaculazione precoce
b) Difficoltà erettiva
c) Difficoltà a distogliere lo sguardo dal televisore
d) Eccessiva lubrificazione vaginale che provoca difficoltà a contenere il pene (?)
12) La fantasia erotica più comune nei maschi è:
a) Andare in giro senza mutande
b) Guardare due femmine che fanno all’amore
c) Leonardo di Caprio
13) Quali sono le vostre zone erogene?
a) Il pene soprattutto
b) La vagina (?) soprattutto
c) In centro, vicino piazza S. Babila
14) I preliminari sono per voi:
a) Un modo sicuro per convincere la vostra compagna a stirarvi le camicie
b) Una scusa per arrivare tardi al lavoro (del tipo: “Mi scusi direttore se ho fatto tardi, ma mia moglie stamattina ha richiesto i preliminari”)
c) Quei 15 minuti a fine partita che precedono i tempi supplementari
15) La pratica più richiesta alle prostitute è:
a) Il sesso orale (da non confondere con il turpiloquio; nel senso che se la fanciulla si limita ad insultarlo il cliente è più che legittimato a non pagare)
b) Il sesso anale (scegliendo con oculatezza la meretrice; nel senso che se la fanciulla è dotata di un clitoride che supera i 18 cm il cliente è più che legittimato a non abbassarsi i pantaloni)
c) Il sesso vaginale (richiedendo alla passeggiatrice serietà e deontologia; nel senso che se la fanciulla vuole farlo accoppiare con una borsa da viaggio -è ad esempio straniera e confonde la parola vagina con valigia- il cliente è più che legittimato a mandarla a cagare)
d) Il sesso manuale (pretendendo una rigida ortodossia; nel senso che se la fanciulla vuole limitarsi ad infilargli le dita negli occhi o a pettinarlo il cliente è più che legittimato a iscriverla a un corso accelerato di sessuologia)
e) Il sesso strano (mettendo da subito un limite alla perversione; nel senso che se la fanciulla pretende non solo di frustarlo ma di cospargerlo di benzina e di dargli fuoco; il cliente è più che legittimato a rivolgersi all’ autorità)
16) Il seno per voi è:
a) Un discutibile ornamento
b) Un utile passatempo
c) Un incubo scolastico (seni e coseni)
d) Peccato che l’idraulico ne sia sprovvisto
17) Il termine bondage indica un tipo di piacere estremo ricercato per la pericolosità; qual è nel sesso la cosa che più vi attrae, ma che ad un tempo temete?
a) Irrompere in un confessionale mimando un rumoroso orgasmo come la protagonista del mitico Hanry, ti presento Sally
b) Vestirsi con una maglietta rosa con su scritto “baciami stupido” ed entrare in un circolo di neonazisti
c) Guidare a fari spenti nella notte, per vedere se è poi tanto difficile morire
d) Indossare l’ampallang, il tubetto di metallo che i nativi del Borneo inseriscono nel glande per migliorare il piacere del partner
e) Comprare le fragole all’uranio che il supermercato svende con l’offerta 3X2 per fare tutte le cose che avete visto in 9 Settimane e mezzo
18) Narra la leggenda di un tale che andato a cercarsi nel deserto si perse. Pregò che qualcuno lo cercasse. Nessuno lo cercò. Scoprì allora che cercarsi è bene, ma essere cercati è comunque meglio. Se voi foste quel tale, da chi vorreste essere cercato?
a) Da un gruppo Balint di signore in cura per ninfomania
b) Da Monica Bellucci
c) Da una guida turistica
d) Dal sottoscritto (parliamone)
e) Dall’idraulico
19) E’ meglio un uovo oggi… che:
a) Un ovulo domani
b) Il cugino Filippo (citazione purtroppo autobiografica) dopodomani
RISPOSTE
DOMANDE 1-2-3-4-5-6-7-8-9-10
Prevalenza di risposte A: a voi il sesso non interessa. Ma siete comunque ricambiati. Probabilmente da piccoli al chirurgo che vi praticava il taglio del prepuzio deve essere scappato di mano il bisturi, o l’ostetrica al momento della vostra nascita può avere tirato la parte sbagliata, che ora necroticamente conservate in un barattolo di formaldeide assieme al cordone ombelicare. Magari siete vittima di un errore cromosomico o di una natura matrigna, forse addirittura lo scherzo di un Dio col senso dell’umorismo. Sta di fatto che Heidi rispetto a voi sembra un’erotomane, e se non vi chiudete in convento siete comunque sulla strada per fondare un partito politico. Una curiosità: come avete risposto alla domanda numero 4?
Prevalenza di risposte B: non siete un uomo ma un complesso vivente di contraddizioni; la dimostrazione che non solo Dio c’è, ma che probabilmente ci odia. Oscillate infatti tra l’universo femminile e quello maschile nell’indecisione più completa. Ma non è un problema grave. Forse anzi è addirittura un vantaggio dal momento che il sabato sera avete il doppio delle possibilità di rimorchiare. La cosa che stupisce della vostra personalità è il fatto che non proviate imbarazzo nell’indossare con il gessato blu e la cravatta i tacchi a spillo o le calze a rete. Qualche distonia sarebbe bene correggerla, perché, lo capite anche voi, che uno scaricatore di porto villosiso, con la barba incolta e dei bicipiti che fanno invidia a Mastrolindo, non può parlare con la voce di una soprano, né tanto meno ancheggiare come la Fracci. Insomma, quando vi assentate dal lavoro dovete per forza giustificarvi dicendo che avete le vostre cose?
Prevalenza di risposte C-D: probabilmente non avrete avuto il tempo nemmeno di leggere i risultati del test impegnati come siete a correre dietro all’idraulico. Anche se vi chiamate Umberto, avete moglie e figli e le vostre gonadi continuano a produrre testosterone in quantità industriale. Bravi. Una sola raccomandazione: se alle domande numero 7 e 8 avete risposto C fareste bene ad iscrivervi ad un corso di anatomia.
DOMANDE 11-12-13-14-15-16-17-18-19-20
Prevalenza di risposte A-B: va bene che a voi dell’universo femminile non può fregarne di meno, ma uno sforzo per non passare da deficienti potreste farlo. Ricordatevi che in genere i maschi non hanno problemi di lubrificazione vaginale (risposta D alla domanda numero 11). Sciocchini.
Prevalenza di risposte C-D-E-F: siete rimasto uno spermatozoo, per quanto un po’ cresciuto e alle soglie del quarto decennio. Ma uno spermatozoo molto particolare, l’unico che quando veniva lanciato nel corpo della femmina (ricordate?) invece di dirigersi verso l’ovulo cercava di fecondare gli altri spermatozoi. Tanto tempo è passato da allora, vissuto ai margini di una comunità virile e guerriera che vi ha tenuti a distanza; eppure nonostante tutto parte di quell’istinto primitivo dovete averla conservata. E’ solo cambiato l’oggetto del vostro desiderio; e se una volta correvate dietro ad amorfi animaletti che assomigliano a Claudio Bisio, oggi più pragmaticamente rincorrete quelli che lo ricordano per fenotipo e morfologia.
Risposta G: caro Filippo, è inutile che fai il test sotto falso nome, ti ho riconosciuto. Non hai motivo di vergognarti, tanto più che sono a conoscenza dei tuoi gusti sessuali. Fin da piccolo, ricordi? Quando giocavamo a nascondino e tu candidamente dicevi: “Se mi trovi mi puoi violentare; se non mi trovi sono nell’armadio”.
La pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva; attira, corteggia, stimola l’azione e il comportamento. Il messaggio pubblicitario, breve ma ripetitivo, riproposto all’inverosimile lusinga, lambisce il desiderio, non aiuta però a conoscere. Ha una lingua elementare e emotiva, perché se il prodotto è di largo consumo deve arrivare a chiunque. Una valvola mitralica non necessita di essere pubblicizzata. Il tecnico la compra sulla base di informazioni che dettagliano l’oggetto per quello che è. Non sempre il prodotto è buono, è vero, ma a quel punto ci sono le leggi e una valvola difettosa manda il paziente al Creatore, ma il chirurgo diritto in tribunale. Tra ciò che si dice dell’oggetto e l’oggetto deve esserci una corrispondenza o quantomeno l’articolo è tenuto a rispettare i requisiti minimi di sicurezza e funzionalità. Questo per dire che ci sono prodotti che non richiedono la pubblicità perché la qualità e una buona gestione del mercato li fa vendere e altri invece, la maggioranza delle cose, in cui la qualità risulta marginale per la vendita. Ma è cosa nota, un pessimo prodotto si vende comunque, basta saperlo raccontare. Ci sono cose inutili, di cui non abbiamo bisogno, spesso dannose che vendono moltissimo. Altre più modeste nella comunicazione ma con caratteristiche superiori rimangono sullo scaffale del supermercato. La discriminante che stabilisce il successo di un prodotto è proprio la pubblicità, una buona campagna di marketing non racconta l’oggetto, lo rende desiderabile finché crea il bisogno e spesso anche una reale dipendenza. Quante volte avete sentito dire: mio figlio mangia solo i biscotti del Mulino Bianco? Ecco, non è vero; o meglio la mamma fa in modo che lo diventi. Lasciato il bambino in una foresta solo con i biscotti all’olio di palma, li mangia eccome e magari anche la confezione e la commessa che glieli ha venduti. La cui commestibilità peraltro (parlo della commessa) non è mai stata veramente provata.
Analizziamo come esempio lo spot di Gavino Sanna: il Mulino Bianco ha acquisito credibilità, racconta una storia (il mulino, il prato, le spighe di grano) e la famiglia pur vivendo isolata, in un’abitazione medievale, in mezzo al nulla è felice perché ha tutto ciò di cui ha bisogno, i biscotti che benché riportino l’avvertenza sulla confezione “non contiene olio di palma”, sono stati (il più delle volte) maneggiati con lardi idrogenati, edulcoranti e altro ancora; che abbiano inquinato la Salerno-Reggio nel trasporto dal mulino a casa vostra, che il grano provenga da Chernobylpassa come un peccato veniale. Le mamme sanno che l’olio di palma fa male e i pubblicitari lo ricordano loro ogni volta che possono. Non ho mai veramente capito perché non ci sia allora la scritta “non contiene uranio o acido arsenioso”. Vabbè. La pubblicità ha istruito le persone prima ancora delle università e conosciamo i danni che provoca l’olio esorcizzato con una competenza pari se non superiore a quella di un medico internista. Ma il Mulino Bianco è un marchio e un marchio dà fiducia e poi l’ha detto la televisione. Abbiamo votato un pubblicitario per vent’anni, non stiamo parlando del nulla. La pubblicità non veicola solo il consumo, in realtà fa qualcosa di più radicale, racconta l’attualità, non guarda al futuro ma al presente. Le interessano i soldi, quelli che abbiamo ora non quelli improbabili di domani. E’ così racconta storie reali più del reale stesso. Guardando Ernesto Calindri che beve il Cynar al tavolo in una strada trafficata, si capisce subito che siamo negli anni ’50 o ’60, oggi se va bene gli automobilisti ti stirano, dopo ovviamente averti fregato il digestivo. Oppure il povero Franco Cerri che ha vissuto un decennio nella lavatrice per convincerci che stare a mollo nel Bio Presto è meglio che tuffarsi nel mare dei Caraibi; oggi sarebbe un comportamento antisindacale. O ancora il gentiluomo che con una flessione sicula dice alla moglie: “Io ce l’ho profumato”, insorgerebbero le donne del mondo civile. Che dicesi civile proprio perché se anche ce l’hai profumato, non puoi comunque dirlo a nessuno e meno che mai a un esponente del sesso femminile. Per non dire di quella signora che confessava alla nipotina che Gennarino (pur gran lavoratore) non aveva il pesce come Santuzzo suo. Qua si configura proprio il reato di molestia a un minore, e non mi pare poco. Una pubblicità del genere sarebbe oggi improponibile. E’ però inutile dilungarsi, ma tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla famiglia Boccasana. chiudo questo scritto con alcune immagini promozionali, normali una volta e assolutamente inconcepibili nel nostro tempo. Per inciso, mi piacciono più di quelle attuali; hanno dell’ironia e un nobile artigianato della parola che Oliviero Toscani se lo sogna. La pasta Barilla “ditalini” non scioccava nessuno, veniva richiesta con tanta naturalezza quanto ingenuità. Come quel condomino in uno spot degli anni ’90 che sentita la vicina ricciolina e desiderata gridare con rabbia: “Esco e vado col primo che incontro”, si fermava davanti alla porta dicendole con un sorriso alla Pozzetto/Johnny Depp: “Buonaseraaaa”. Qualunque mora dai capelli increspati e con un Diavolo per boccolo oggi gli risponderebbe: e tu, che cazzo vuoi?
I funzionari statali sono aristotelici e forse vanno pure oltre. Non si limitano al principio di non contraddizione e di identità, la relazione che dispongono tra il prima e il dopo è più simile al principio di individuazione che a qualcosa interno alla persona o a un corpo che è in continuo divenire e mai interamente definibile, neanche nel nome. Ma col nome ci rendono individui e individuabili, ed è questo che interessa allo stato. Chiamano generalità la nostra essenza (οὐσία) o carattere anagrafico e noi dobbiamo fornirle quando sono richieste; ma è una qualità vuota di senso perché non ci definisce sostanzialmente e non costituisce quello che siamo, se non di lato; e tuttavia paternità, luogo di nascita e residenza servono a collocarci in uno spazio e nel tempo e tanto basta. Lo stato idealista (ogni stato lo è) non riconosce la categoria del singolo e del diverso, la dissolve in un’universalità che precede dando consistenza giuridica al particolare. Che in sostanza vuol dire doveri prima ancora che diritti. La specie o il genere vengono prima dell’individuo e si sostituiscono ai suoi bisogni, anche sui documenti dove quello che realmente siamo caratterizzandoci è alla voce segni particolari. Particolari, come qualcosa di accidentale e marginale, utili però a distinguere nello specifico una persona dall’altra e dunque comunque sostanziali. Giustificano con l’universalità del diritto le infinite articolazioni dei doveri. Lo dico perché ero all’anagrafe comunale e l’impiegato pretendeva le mie generalità; nome, cognome e luogo di nascita per intenderci. Come se in quelle parole ci fosse l’identità o il senso della mia vita. Io ho provato a spiegare che non sono identico, che sono e non sono, che entriamo e non entriamo due volte nello stesso ufficio comunale. Confondeva il nome con l’essenza (τί ᾖν εἶναι), che nel linguaggio aristotelico significa “ciò per cui una certa cosa è quello che è e non un’altra”. La parola essenza indica ciò che determina l’oggetto o l’individuo e corrisponde alla visione ideale della realtà determinata dalle categorie mentali; che a quanto pare non sono particolarmente articolate nei funzionari dello stato. L’impiegato chiedeva di identificarmi col particolare e dunque con quel che c’è di accidentale e contingente in me, ma che contrassegnava come qualcosa di determinante, immutabile, di significativo per distinguermi all’interno della specie o nel gruppo. E meno male che il manipolatore di paradossi sono io, più contraddittorio di così non poteva essere. Voleva l’essenza e cercavo di fargli capire che sono assenza; e questa cosa non l’ho veramente capita, pur non essendo digiuno di filosofia e teologia. Poi mi è venuto in mente Duns Scoto e ho recepito che il burocrate mi stava sostanziando teologicamente, prima che giuricamente o con categorie antropologiche. Il ragionamento sottostante doveva essere più o meno questo: le cose sono uniche e particolari nelle loro caratteristiche individuali e tuttavia hanno una natura condivisa. Piero e Luigi hanno qualcosa in comune che li distingue da tutti gli altri del gruppo, da un cane o una scarpa; ciò che li apparenta è la natura umana. Ma allora perché Piero e Luigi sono diversi se la loro essenza è la medesima e se condividono la stessa forma? Non è per la forma che si distinguono e neppure per la materia, che non è (sempre secondo la definizione aristotelica) “privazione” e “passività”, ma essa stessa è attività e si delinea secondo una specifica individualità. L’ecceità (o haecceitas) propriamente, che è la concreta individuale differenza che permette di distinguere una cosa dall’altra e per la quale ogni essere individuale è unico e originale: “La causa, non della singolarità in genere, ma di questa singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa (haec determinate)”; (D.Scoto, Opus oxoniense, II, distinctio 3, Questioni 2-4).
L’ufficiale allo sportello voleva dotarmi di una carta di identità e con la parola identità intendeva qualcosa che non cambia, di continuativo secondo appunto il prima e il poi, di sostanziale e che non muta nel tempo. Ho provato a contestare, l’identità mi sta stretta; ci ho messo tanto a perderla e che fa, me la ritrova un miope funzionario comunale? Gli ho chiesto piuttosto di appuntare sul documento che sono un essere in transizione, assente più che essente; in divenire se preferiva, incerto, instabile cercando una parola appropriata che fosse assimilabile dal suo stomaco peripatetico. Ma niente, non ha voluto sentire ragioni; non mi aspettavo che avesse letto Eraclito, quello non aveva neanche visto il film “L’attimo fuggente”. Funziona così in questo Paese, invece di leggere il libro i miei connazionali aspettano che esca il film. Ho rinunciato a discutere e alla sua domanda perentoria: “Lei chi è?” non ho potuto che rispondere con nome e cognome e mi sono appunto identificato (nella sostanza vuol dire che mi sono reso identico a me stesso e con quel che si aspettava lo stato per bocca dell’impiegato). Mi ha dato del polemico, ed era inutile spiegargli che la parola polemos richiama a un’armonia profonda, a una radicale e incomprensibile per lui unità dei contrari. Mi sono limitato a farfugliare il Frammento 53 di Eraclito: “Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι …” (“Polemos è padre di tutte le cose…”). Voleva il mio nome, solo quello e nient’altro; come il Diavolo quando chiede l’anima, il resto non gli interessava. Perché l’anima è quella, presente, non diviene e non cambia. E’ la misura del tempo secondo memoria, intelligenza e volontà, come diceva Agostino. Facoltà che rimandano appunto a qualcosa di immobile e che rimane inalterato. Tre vite ma una vita sola, un solo spirito, una sola essenza. La memoria soprattutto in cui risiederebbe (per il funzionario agostiniano) la sostanza di quel che sono e che mi specifica come questo e non un’altra persona; ciò che nella mia memoria non ricordo, non può far parte di me o della mia identità: “Quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza” (La Trinità, XI, 11-17). Avevo insomma davanti un raffinato teologo e non ci capivamo, la filosofia è un’altra cosa. Io ero Skoteinòs, oscuro per la sua logica lineare che non gli faceva concepire il panta rei (lo dico a chi non ha visto il film, “tutto scorre” secondo la formula lessicale di Simplicio in Phys., 1313, 11, rileggendo il frammento 91 di Eraclito) e quello non seguiva il mio ragionare, che alla fine era meno paradossale del suo. Avete mai parlato con un hegeliano? Spiegateglielo se ci riuscite che il divenire non è una progressiva presa di coscienza dell’assoluto, racchiuso nei limiti antitetici, quanto piuttosto risiede nella modulazione di un’identica sostanza (“Tutte le cose sono Uno e l’Uno tutte le cose”).
Nella domanda “ma lei chi è?” non c’era solo l’ordine di un pubblico ufficiale che chiedeva di identificarmi, di rendermi identico a me stesso; c’era piuttosto la richiesta di adeguarmi all’idea universale, di riconoscermi nel genere di uomo che lo stato e il dipendente comunale avevano in mente. La carta di identità altro non fa che annullare la categoria del diverso, dissolve le alterità nell’identità. Inutile spiegargli che le cose vengono prima, mentre le parole e le idee sono mero flatus vocis; se non aveva visto il film con Robin Williams di certo non aveva letto Roscellino o Abelardo. La mia identità, il mio nome doveva essere in re o ante rem; ma io ho non ho mai assorbito quella forma di egocentrismo e non prevarico le cose; potevo parlargli di post rem, che è forse là che si trova quello che conta. Ma ho desistito, alle sue orecchie che sapevano di incenso e logica aristotelica poteva anche sembrare una cosa sconcia. In pratica, dietro quel “chi è” c’era la volontà di sostanziarmi e il discorso era profondamente teologico. Il termine essere si predica univocamente, nello stesso significato, sia delle cose create e finite, sia dell’essere increato e infinito, cioè in sostanza Dio nelle sue funzioni. Così ragionano i teologi. Ciò non significa che l’essere sia il genere più ampio che al suo interno contiene tanto Dio quanto le cose: si tratta piuttosto della determinazione comune a tutto ciò che esiste. L’essere è il primo oggetto dell’intelletto e tramite la sua azione è possibile conoscere il resto. E’ una bella idea l’ontologia, ma la vita è un’altra cosa. Rimango fermo sulle mie posizioni, gli universali sono cose da aristocratici, la realtà è fatta da enti individuali, da assenza più che da presenza, dal nulla prima che dall’essere.
Nel nome è presente il principio di individuazione, come ciò che permette ad un’individualità di presentarsi come tale; ovvero e in termini aristotelici, come sostanza singola o prima. Rimuove la tensione originaria verso il non essere che pure è sempre presente; svolge un ruolo di rilievo nel rapporto che sussiste tra forma, materia e categoria. Come ho detto si può far risalire tale principio (che con mille buone ragioni Schopenhaueridentifica con quello di ragione) ad Aristotele. Il peripatetico affermava infatti che la sostanza dotata di esistenza (dunque individuabile) è solo ed esclusivamente quella singola, o sostanza prima, ossia l’individuo composto dall’unione di forma (categoria universale) e materia (che conferisce le caratteristiche individuali). Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham sono andati però oltre. Il primo avendo una concezione realista degli universali proponeva una mediazione tra materia e forma che consentisse il sussistere della sostanza singola; la quale consisteva di una proprietà (ecceità) che doveva sommarsi alla quidditas e alla materia. Ockham sostenne più direttamente l’inutilità del principio di individuazione in quanto, da convinto nominalista, considerava l’universale come pura determinazione concettuale, mentre le uniche realtà esistenti sarebbero quelle individuali. Ma allo stato e ai suoi dipendenti a quanto pare piacciono più le parole di Tommaso, che distingueva la persona dalla natura umana: la persona è il soggetto che agisce concretamente, mentre la natura è ciò che permette alla persona di agire; ciò che caratterizza la personalità o la sostanza della persona sarebbe insomma tale sussistenza, mentre l’attività intellettuale e della volontà appartiene alla natura o essenza spirituale. Sempre secondo l’Aquinate la persona è il sussistere di una individualità umana nella sua concretezza, mentre la natura è ciò per cui una persona è un essere umano; la natura individuale si delinea come ciò per cui una persona possiede proprietà e accidenti in modo unico e irripetibile. L’identità della persona è radicata nella natura e per attuarsi deve essere sussistente e spirituale; per essere un esistente concreto, e non rimanere a livello di definizione astratta, la natura umana deve perpetuarsi in una sostanza, diventando sostanza prima. Dal momento che il soggetto sussistente è il supposito, la persona umana può essere definita anche “supposito di natura razionale”. Essendo pura forma, l’anima non è l’essere come Dio, ma ha l’essere. Non è puro essere, ma è un essere-questo, limitato e causato; eppure possiede l’essere in modo tanto immediato e diretto da trasmetterlo al corpo. Per questo Tommaso definisce l’anima spirituale “la forma sostanziale del corpo” (Summa, I, 76, 1). Come si vede sempre di idealismo parliamo, accade ogni volta che vogliamo dare un ordine logico al mondo; la pulsione al paralogismo pare incontenibile. Non diverso è il concetto di Aufhebung, che per quanto introduca un elemento vivo all’interno della rigidità dialettica, implica la tensione dei contrari, da superare però al culmine del processo la contraddizione conservandola migliorata. Tale trazione nel discorso filosofico si adatta alle intenzioni di Hegel: nel processo di sublimazione un termine o concetto è al tempo stesso conservato e modificato attraverso l’interazione con un altro termine o concetto. La sublimazione si presenta come il motore della dialettica stessa. I concetti “essere” e “nulla” sono entrambi preservati e modificati attraverso la sublimazione per dare luogo al concetto del “divenire”. Parimenti la “determinatezza”, o “qualità” e il “numero” o “quantità”, sono preservate e sublimate nel concetto di “misura”.
Il principio di individuazione non è insomma distante da quello di ragione. Se è possibile individuarsi, non è a causa della collocazione del tempo secondo il prima e il poi, ma per una particolare tensione ebbra di attualità. Ciò che è immediato è senz’altro vero, perché è conosciuto senza la mediazione intellettuale; in questo senso Nietzsche parla di conoscenza tragica contrapponendola alla conoscenza ideale, che con la logica ha legittimato la menzogna. Il principio di individuazione, in quanto artefatto, non può costituirsi come verità proprio perché non coincide con la realtà, ma con l’immagine di un sogno. L’impiegato chiedeva in sostanza di adeguarmi al suo sogno e alla mistificazione operata dallo stato, pallido surrogato di quel che è vero. Ma io sono un ente reale, non onirico, assente e non essente, attuale ma non presente, al di là di quella cosa che chiamano identità e che è solo la scoria di ciò che l’impiegato appunta nel documento secondo una successione del tempo. Qualcuno la chiama coscienza, altri con un eccesso di romanticismo coscienza infelice; ma allo stato e ai suoi funzionari non interessa la prima e chiudono gli occhi davanti all’ultima. Tutto scorre e l’Io diviene, ma non la rigidità filosofica dello stato e dei suoi funzionari.
Me so ‘namorato de na donna che quanno s’arza e me bacia nun me fa sentì le labbra sue ma quelle de tutte le donne messe ‘nsieme. Me guarda con quell’occhi di mandorla e ciliegio e mi fa sentì desiderato, come se nun avesse mai fatto l’amore. Io dico che so n’omo fortunato d’avella ‘ncontrata, perché con un bacio me cambia la giornata. E quanno che fuori piove speciarmente, mentre la pioggia cade all’infinito, che me fa sentì davero rincojonito.
Ogni volta che vado all’anagrafe mi prende l’ansia. La carta di identità in particolare. Ci ho messo tanto a perderla un’identità e che fa, me la ritrova un triste funzionario comunale?
MEMORIE DI UNO SMEMORATO
La mia assenza della memoria era assenza di Dio. Adesso erano tranquilli, avevo anche io la mia croce e potevo esercitare la sua volontà, non la mia. Mi avevano dato una guarigione di stato. (Memorie di un ex smemorato).
Un giorno cominciai a ricordare e mi dimisero. La libertà i medici la chiamano dimissione. Questioni semantiche, ma detta così fa meno paura. Insomma mi misero in libertà proprio quando riuscirono a sistemare le briglie. Ricostruendo l’Io, mi avevano finalmente dotato di uno di quei cosi elettronici che controlla i detenuti fuori dalla galera, unica libertà concessa dallo stato. Dicevano che ero guarito perché avevo un passato, ma il mio disgusto cresceva. Si erano presi cura di ciò che a loro faceva paura, non della malattia.
Mi chiusero in una cella con un altro smemorato. Vi farete compagnia, dicevano. Come compagno di disavventura mi avevano dato uno affetto da TGA, quindi un altro vuoto, anche più grande del mio. Smarriva il presente con la frequenza di un battito di ciglia. La cosa divertente era che si presentava ogni dieci minuti. Lo invidiavo per quel suo nascere e morire ad ogni istante.
Certe malattie sono un problema più per il medico che per il malato. Così per non deluderlo fingevo una sofferenza che non provavo.
Più di tutto mi impegnavo a non ricordare il mio nome, lo vivevo come un marchio d’infamia. Ho sempre avuto l’immagine di una scolaresca all’appello ogni volta che mi sentivo chiamare, e sempre mi veniva di rispondere “assente!”. Non ero smemorato, mi ero assentato.
Avevo dimenticato tutto. Non solo Dio, che non avevo mai incontrato. Ero come uno straniero in una terra sconosciuta. Guardavo la mia gente, quella che mi avevano fatto credere fosse a me simile per abitudini e cultura, arraffare, delinquere anche nelle piccole cose, per poi smoccolare veleno contro chi la amministrava. Non era amnesia, era disgusto per questi esseri dissimili e difformi. Scordavo finalmente le mie radici e la nausea che mi procuravano.
L’uni-verso è una strada piena di divieti di accesso, con quei cartelli blu e freccia bianca che obbligano a viaggiare in una sola direzione. Io avevo preso la vita contromano. La chiamavano amnesia e invece soffrivo di una banale apostasia.
La violenza comincia quando al nostro Io viene dato un nome. Col nome diventiamo una persona e nello specifico quella e non un’altra persona. Come individui ci rendono appunto individuabili. Ho provato a spiegarlo al funzionario che era venuto a censirmi, che sono e non sono, di incasellarmi come un essere in transizione, incerto, instabile se preferiva. Ma pare che lo stato non riconosca la categoria. L’impiegato ragionava col principio di identità. E io un’identità proprio non l’avevo.
Quante piccole improbabili identità. L’identità presuppone un Io sempre uguale a se stesso. Ma io non sono sempre uguale, io divengo.
Ho un’intolleranza all’Io, mi provoca aerofagia. La causa della mia amnesia si trova nella pancia, non riesco proprio ad assimilare un’identità. .
Ogni volta che mi radevo affondavo il rasoio e mi procuravo piccoli tagli. Cercavo nelle gocce di sangue qualcosa che mi facesse sentire vivo e nel dolore di ricordare quella parte di me che non riuscivo a vedere. E più premevo la lama, più il bruciore esasperava una memoria nella carne. Credo fosse un modo per sottrarmi, per un istante solo, a un presente che era fatto di niente.
Mi guardavo lungamente allo specchio, specie al mattino. E non mi riconoscevo, non vedevo niente alle spalle di quell’uomo, c’era solo un incomprensibile presente. Cercavo la storia, la vita in quel volto incupito come da un dolore appena sfiorato. Sembrava sgombro di tutto, anche da se stesso. Mi piaceva, per carità ma avrei dato non so cosa per un ricordo. Non avevo memoria di nessuno spasmo; avevo davanti il nulla e, questo sì, che mi spaventava.
Ogni volta che vado all’anagrafe mi prende l’ansia. La carta di identità in particolare. Ci ho messo tanto a perderla un’identità e che fa, me la ritrova un triste funzionario comunale?
Parlano di identità e vuol dire che devo essere uguale a me stesso. Sono troppo anarchico per incatenarmi a un simulacro del mio Io masturbandolo con una tautologia e perbene quanto basta per non desiderare la duplicazione di qualcosa di cui non vado fiero.
Chiamiamo personalità la memoria di ciò che sono stato ieri, con una buona probabilità di esserlo anche domani. Un disturbo della personalità non ha la continuità del ricordo ed è scettico su quella eventualità.
La follia è l’ostinazione nella diversità; la persona normale costruisce un’identità e tutta la vita cerca di individuarsi. La differenza è sostanziale: la follia è sociale e mai individuale, il matto ha la lucidità e il buon gusto di non voler essere identico a se stesso.
Mi sono perso non so quante volte. Mi perdevo perché non avevo nulla da cui tornare, non trovavo nemmeno la strada di casa. Una casa è fatta di ricordi prima che da muri. E la mia era vuota, non l’avevo riempita d’amore, non ne ero capace. Mi allontanavo da me stesso e mi cercavo altrove. Non avevo dimenticato, la realtà è che non avevo proprio vissuto. E forse avevo anche cessato di esistere. Il dottore mi guardò appena, ma non negli occhi, e scrisse su un foglio amnesia dissociativa generalizzata.
Non avevo nulla, solo silenzio. Il vuoto nella memoria acuiva il mio sentirmi altrove. Ero come su un’isola, ed ero solo. Non mi lagnavo, ondeggiavo anzi su una zattera piuttosto comoda. Il vociare della gente, quello sì che mi infastidiva, pareva un inutile bla bla. Ci ridevo pure delle facce che vedevo, con quelle cupe espressioni di finta allegria. Come quando in un film sfasi le immagini dalle parole; una cosa comica appunto. Sentivo di bambini che esaurivano mamme già esaurite, uomini alle prese con disturbi ordinari, che sono fastidiosi proprio a causa dell’abitudine e dell’immancabile ripresentarsi a ogni maledetto giorno. Cosicché manco la notte li lasciavano riposare, pensavo, in attesa di vivere la stessa giornata, sempre e solo quella. Ecco il vantaggio di essere rimasto senza memoria, ogni giorno per me era comunque nuovo. La chiamavo vita questa cosa e per loro era invece una malattia.
Non ricordavo niente. Prima dimenticavo e basta. Le chiavi di casa, la macchina, il volto del vicino che mi ostacolava il passaggio sulle scale, con quell’alito acre e violento che rendeva sgradevole il buon giorno, chiedendomi chi davvero fosse. Poi ci ho preso gusto e la cosa ha cominciato pure a piacermi. Entravo in una stanza, in un locale e non riconoscevo le pareti, le facce, le voci, gli odori. Era come ricominciare ogni giorno, libero dai tegumenti familiari. La sensazione di vuoto però la ricordo, e cercavo di tornare sui miei passi, interrogandomi su quante volte ero passato per quella via. Ma anche la pace che quell’assenza mi dava. Mi sentivo bene, alla fine. Senza vincoli, amici, colleghi, costrizioni parentali. E vivevo, per la prima volta, con una leggerezza che non conoscevo. Avevo lasciato il mio Io da qualche parte e non lo cercavo e non volevo trovarlo. Ero felice, il resto non m’importava.
Normare è controllare, come nominare è identificare; l’identificazione è già uno degli aspetti della normalizzazione, con la quale si chiede a un individuo di diventare identico a se stesso. L’identità è una tautologia che conferma nel singolo il carattere universale dello stato. Quel che c’è al di là, l’alterità, è qualcosa di patologico e di deviato, di difforme. Il diverso o la deformità come categoria antropologica non è assorbibile dal conformismo di massa così com’è espresso dalla moderna società tecnologica. Collocare la reazione (o alterità) altrove, nei luoghi della perversione vuol dire mantenere inalterato l’ordine, dare una regola e imporre di rispettarla. Sistemarla in una dialettica di opposizione che separa nettamente giusto e sbagliato, normale e anormale, il bene dal male. Un potere di questa natura non può che invadere ogni aspetto della sessualità, del corpo, dei sentimenti e della società nella quale sono collocati; le relazioni di potere sono immanenti, non sono una sovrastruttura che esercita da un tribunale il ruolo della censura. I rapporti di forza, multiformi, in costante divenire, instabili, si muovono dal basso per poi diffondersi attraversando tutta quanta l’esperienza sociale senza individuarsi in maniera assoluta.
Lo stato nella sua attività di assimilazione del disordine (del particolare nell’universale) assorbe la diversità nell’identità; ad ogni cittadino dà un documento che lo individua come quella persona piuttosto che un’altra. In quanto individuali siamo individuabili, ed è questo che gli interessa. Lo stato chiama la diversità carattere, come appunto certifica nella carta di identità, e delimita le caratteristiche di ognuno come qualcosa di marginale e mai di sostanziale. E’ una forma di idealismo storico e di assolutismo ideologico che non riconosce ciò che fa di una vita quello che è: l’originalità e la discontinuità. Perché l’identità presuppone un Io sempre uguale, mai in divenire e lo stato impone la contraffazione, chiedendo a ognuno di diventare la copia di se stesso.
Nell’identità si muove una prassi sociale repressiva e autoritaria, prende la forma dell’ideologia e coincide con l’adattamento e la tautologia di uno stato che informa la coscienza e impone di rievocarla ripetendola. Chiedendo a ognuno di identificarsi nell’identità che esso stesso dà. La chiamano carta di identità e con quella carta lo stato risolve le particolarità, i caratteri, la diversità in una verosimiglianza che ripete nel predicato quello che è già detto nel soggetto, imponendo al singolo di individuarsi come soggetto privo di oggetto, l’Io come Io. E’ evidente che dietro il concetto di identità si muova quello più antico di anima e di sostanza, un’ideologia e una metafisica, la mistica dell’Io come incondizionato produttore di se stesso. Per questo è necessario ripensare il principio di identità a partire dalla diversità perché ogni determinazione è un’identificazione.
La conoscenza non ha un casellario degli oggetti, li pensa attraverso la loro mediazione, assimilandoli e soprattutto differenziandoli, mettendoli in conflitto. Un pensiero tautologico, che risolve l’oggetto nel soggetto individuandosi e identificandosi in esso, che rispecchia nel pensiero il soggetto pensante piuttosto che l’oggetto del pensiero è in realtà privo di una riflessione. Pura ideologia. Dove non c’è riflessione non c’è contraddizione dialettica e senza dialettica non può esserci una teoria filosofica.
Se il Paese si è impoverito (il consumo pro capite è appena sopra la Bulgaria e la Romania), se lavoratori, donne, anziani si sono visti strappare i diritti dalle mani, se nella classifica sulla felicità l’italia si colloca al cinquantesimo posto (dietro al Nicaragua e l’Uzbekistan)
Dunque: su alcuni gruppi nei Social (anche dai nomi impegnativi e che richiamano all’etica, la politica, la filosofia) bisogna pubblicare gattini e cagnolini, i cuoricini sono graditi, le frasi degli adolescenti sull’amore sono fortemente promosse, il ciaone ha un altissimo indice di gradimento. Poi gli stessi gruppi specificano con gravità notarile: è severamente vietato parlare di politica (e tradotto vuol dire esprimere un’idea), includere link pubblicitari a margine (ergo i libri non ci interessano), di Dio e la morale non si può scrivere, i post che raccontano qualcosa della vita vengono motteggiati o schifati (a seconda dell’educazione di chi commenta) e gli autori bannati. Quanto ci piace bannare. Ma si sa non c’è il tasto “non mi piace” e allora davanti a un pensiero che non si capisce, che va al di là, che disturba i morti di sonno (e di figa perché quella va alla grande) i membri (si chiamano proprio così tra loro ed è una cosa che stupisce: a me l’idea d’essere considerato un membro con una testa, o una testa di membro non fa impazzire) ripiegano su neologismi raffinati come nonciromperelaminchia. E sono i migliori, i censori acculturati (o meglio i membri con la laurea) che si cimentano armati di una dotta oratoria allo scopo di prevalere nella disputa risultano francamente noiosi oltre la narcolessia. Alla fine la dialettica è: sono piùi intelligente io gne gne e tu sei una testa di cazzo. Nei gruppi c’è anche una misteriosa figura antropologica, l’amministratore (altrove si chiama admin e anche quel termine non è bello, vuol dire ad minchiam) che ricopre il ruolo di leader maximo e pare compiacersi nelle palingenesi approvando o censurando, iscrivendo o bannando. Se non puoi essere Dio in questo Paese un posto da amministratore comunque lo trovi.
Intanto:
i Paesi che leggono di più al mondo sono l’India (10 ore e 42 minuti settimanali) e la Cina. Per una strana coincidenza sono anche le economie che corrono (7,5% crescita del pil indiano nel 2015 e 7,3% quello cinese). Sembra ci sia un rapporto tra la latitanza italiana in termini di lettura e l’economia che annaspa, Neghiamo però l’evidenza e diciamo che non c’è una relazione nei fatti. Se il Paese si è impoverito (il consumo pro capite è appena sopra la Bulgaria e la Romania), se lavoratori, donne, anziani si sono visti strappare i diritti dalle mani, se nella classifica sulla felicità l’italia si colloca al cinquantesimo posto (dietro al Nicaragua e l’Uzbekistan) la colpa è ovviamente della politica; solo quella. Noi non siamo responsabili, da sempre andiamo a letto con la coscienza pulita. Dopo naturalmente aver condiviso un ciaone e cercando tra le foto dell’amatriciana almeno un po’ di figa (che non guasta mai).
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