LE ANIME NON MORTE

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Nel discorso amoroso “tu sei tutto per me” è un’espressione che compare di frequente. Apparentemente gratificante per l’altro, rivela però una certa morbosità. Il significato di questo “tutto” compromette la stabilità della scena, mettendolo in realtà ai margini l’altro. I significati non sono semplici segni, hanno origine nella disposizione mentale del parlante e diventano di uso comune, danno luogo ad una rappresentazione della realtà; di per sé sono elementi sensibili alle ingerenze emotive e psicologiche, per somiglianza o contiguità (metafore o metonimie), per timologia o ellissi dei nomi. Possono quindi trasformare quello che è vero, rivelando una struttura paranoica; ma ciò dipende dal soggetto nella relazione che instaura con l’Altro. In essa Lacan vede amplificata la struttura di significati che non riesce a controllare, al punto che il suo essere dipende da quello che avviene nel campo dell’Altro. Nella paranoia l’Io è più parlato che parlante, è abitato e perseguitato da ciò che dice questo Altro assoluto; a dominare sono il suo automatismo e il suo linguaggio. L’attenzione del paranoico è rivolta essenzialmente all’Altro, da cui deriva il senso dell’oppressione e della persecuzione. Se la paranoia dimostra l’importanza della struttura sull’Io, nel senso che il soggetto dipende da ciò che avviene nell’Altro, l’isteria determina il desiderio come un piacere insoddisfatto. La paranoia racconta la dipendenza del soggetto dal ruolo dell’Altro, quanto l’isteria il desiderio come desiderio inappagato. Tra paranoia e isteria, rimane comunque sempre l’Io nella sua dipendenza dall’ordine dato dall’Altro. Posto così il desiderio dimostra la prevalenza nella struttura paranoica del significato sul segno, del significante che domina nella lingua e sulla realtà. Il segno è l’elemento fondamentale della comunicazione, ma è il significato ad articolare la relazione, che può essere scollata o meno dal reale sulla base della dominanza dei significanti che si muovono nell’Altro. Dopo la lezione di Jakobson, Levi–Strauss ha fornito un modello all’antropologia basato sulla linguistica strutturale e in particolare sulla fonologia. Con l’analisi del mito e poi del racconto ha concentrato l’attenzione sulla narrazione (e quindi sull’enunciazione); da cui lo sviluppo della narratologia, che puntava l’interesse sulle proprietà strutturali del linguaggio letterario, sulla sintassi delle strutture narrative e non sulla semantica o sulla rappresentazione della realtà. A sua volta R. Barthes, nell’articolo Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, escludeva la referenza, considerandola subordinata in letteratura. La funzione del parlare o raccontare non è di rappresentare, ma di costituire uno scenario verosimile; per giustificare questa posizione Barthes rimandava a Mallarmè, sottolineando che il linguaggio si sostituisca al reale, rimarcando la sua necessità. La realtà frammentata nel linguaggio paranoico viene sostituita dal significato del “sei tutto per me”. Se sul piano linguistico e relazionale tale significato diventa assoluto e pone ai margini la realtà, su quello sessuale è devastante manifestando una natura fortemente patologica. Con la massima “il rapporto sessuale non esiste”, Lacan mostra che nel rapporto sessuale l’uomo cerca di scongiurare il godimento femminile percepito come insaziabile. Gli uomini sono angosciati dal senza limite del corpo femminile e da una domanda d’amore che si presenta senza fondo. Lacan in una lezione del Seminario XVIII (1971) afferma che per un uomo la donna è l’ora della verità, in quanto espone l’uomo a qualcosa che non può controllare. Il “senza fondo” appunto, il vuoto di un piacere illimitato. Da “tu sei tutto per me” a “sono tutte puttane” il passo è breve. Quando gli uomini affermano che la donna sia una puttana cercano di ridurre l’incomprensibilità del piacere femminile. Provano a controllare la tensione che tale infinitezza comporta. Questo tipo di linguaggio dimostra la struttura paranoica della personalità. L’uomo o ha l’erezione o non ce l’ha, una donna può fingere e recitare. L’enunciato “sono tutte puttane” è un modo per esorcizzare l’angoscia indotta dall’infinito femminile. Alcuni uomini vivono la sessualità non solo come un esercizio di dominio, ma come difesa per arginare ciò che spaventa nella sessualità della donna. L’innamoramento è l’antitesi di questo tipo di amore angosciato e semanticamente malato. E’ vita non morte, non per niente il suo anagramma è “anima non morte”. Non ancora impostato rigidamente nei significati, il significante è ancora libero di fluttuare ordinando il discorso. Non è detto che le orecchie percepiscano la parola innamoramento; nell’eccitazione scombinano le lettere per similitudine, assonanza, metafore o metonimie. E ciò che l’innamorato sente in uno scenario sano che integra l’Altro piuttosto che subirlo, non è tanto l’amore quale “sei tutto per me”, narcisistico presagio paranoico di morte (il “ritorno del morto”, R. Barthes) che si muove nelle parole, ma l’interesse per l’altro come una cosa viva, mobile, tipica appunto delle anime non morte.

Da FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO (L’AMORE TRA L’IMMAGINARIO E IL REALE)

L’AMORE E’ UNA GRAVE MALATTIA MENTALE (Platone)

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Nei suoi percorsi l’amore finisce per diventare il sentimento degli oppressi e diventa oppressione nei soggetti più deboli. Svincolate dal contesto le pulsioni vengono convogliate nell’altro e questo altro finisce per assorbire emozioni, desideri, fantasie che non sono collocabili altrove. Si tratta in sostanza di una concentrazione di bisogni primari che hanno altra natura oltre a quella banalmente fisiologica della riproduzione e del piacere; qualche volta si mantengono su binari adeguati, altre diventano ossessioni. Le ossessioni ancora una volta sono concentrazioni, raggruppamenti emotivi che rendono il campo affettivo instabile e conducono all’implosione. La causa è storica e sociale, ma fare i conti con qualcosa di così esteso non è semplice e la psicoanalisi non viene in aiuto, si dimostra a volte di ostacolo accentrando l’attenzione sul soggetto piuttosto che sulle dinamiche che lo temprano. Platone scriveva che l’amore è una grave malattia mentale; là dove dovrebbe rompere le catene e rendere quel che chiama anima leggera, diventa un carico che appesantisce l’oggetto, invade soffocandolo il soggetto, stravolge la relazione irrompendo con un sovraccarico emotivo che non le appartiene. Perché l’amore non può essere un peso e deve passare fluidamente da un corpo all’altro; la regola kantiana rimane fondamentale, trattare l’altro come un fine e mai come un mezzo. Non può esserci nulla di intenzionale, l’amore non ha nessuna finalità e non può essere una compensazione. Se è un bisogno rimane inappagato, quando è una domanda non trova risposta. Riporre in un altro individuo la conferma a attese mortificate, porta alla deflagrazione del rapporto, non risolve i bisogni del soggetto, provoca nell’oggetto repulsione e fuga. A quel punto chiamiamo amore quella che è in realtà una ritorsione, rivelandosi per quello che è: concentrazione e violenza sull’altro. L’ultima perversione concessa da uno stato che fa detonare tra le mura domestiche impulsi che hanno spesso un carattere economico, storico e sociale.

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SCUSI, MA LEI E’ ETERESESSUALE?

Il corpo tra godimento e amore

Qualche tempo fa, a proposito della Donna Barbuta, si è sviluppata una discussione su erotismo e identità di genere; il problema si è poi dilatato dalla sfera sessuale a quella affettiva. E’ stato citato Lacan in modo però discutibile e artificioso. Al di là delle colte disquisizioni, il contenuto non cambia. Si è parlato infatti del tramonto del Nome del Padre in termini negativi, distruttivi e moralistici, facendo riferimento a un nostalgico ordine patriarcale dell’Io, del sesso e della società. Riproponendo nella triangolazione edipica la spaccatura tra piacere/godimento e amore. Per Lacan l’amante desidera nell’amato l’amalgama della sua mancanza. “Amare è dare quello che non si ha. Desiderare di avere un posto nel desiderio dell’altro”. E il riferimento all’assenza, al vuoto, alla domanda che completi l’ordine della catena amorosa risulta effettivamente determinante. Massimo Recalcati, ad esempio (non nuovo all’oggettivazione del pregiudizio e alle diagnosi di massa, com’è accaduto per il recente referendum, diagnosticando un disturbo nevrotico ai sostenitori del “no”), sulle orme del maestro francese pare abbia portato l’argomento su un terreno spinoso: “Uomini e donne vivono l’amore in modo diverso ma, secondo Lacan, tutti i modi di amare si muovono su uno sfondo comune, ovvero nell’impossibilità di generare un rapporto sessuale. Il corpo gode dell’uno. Non vi è rapporto tra due godimenti. La pulsione sessuale ci mette in rapporto soltanto col nostro desiderio”. Stimolando il dibattito e reazioni: “L’amore è la possibilità di supplire all’inesistenza del rapporto sessuale, di sopportare la propria solitudine”. Sempre rimarcando che la scomparsa del Padre, del significante fondamentale, l’assenza, porti a uno scollamento tra piacere e amore e in esso alla perdita dell’identità sessuale, dell’Io fino allo sfaldamento della civiltà; e che il soggetto appagato da un piacere immediato e quindi privato del desiderio diventi schiavo, senza volontà e di un godimento reale (rinvenendo nella tensione mancata verso l’Altro l’Es senza inconscio, senza legge, senza confine, senza movimento). Lo spunto polemico è stato come si è detto la transizione dall’identità di genere offerto dalla Donna Barbuta. Poco condivisibile, e di una certa grettezza, risulta la tesi secondo la quale questi corpi plurisessuati siano una compensazione alla dispersione e alla liquefazione dell’individuo nel caos di un godimento narcisistico (e quindi completo e assoluto nella ricomposizione androgina) immediato, considerando tali fenomeni incompatibili con il buon ordine sociale. Il ragionamento è ineccepibile sul piano formale e ben contestualizzato: l’esigenza di accelerazione di produzione e consumo imposta tende a selezionare un soggetto che si adatti e collabori allo sviluppo e all’incremento della società, un soggetto appiattito e recettivo, privo di volontà e senza desiderio o godimento. Questo è, appunto l’Es senza inconscio, senza legge. Ma non si può non storcere il naso quando si vede nella liberazione sessuale senza amore una degenerazione (parola reazionaria) in una schiavitù compulsiva priva di soddisfazione (“La sola liberazione sessuale degna di questo nome sarebbe quella di unire il corpo sessuale all’amore, rispettando la diversità dell’altro”); sottolineando peraltro che il volto barbuto di una drag queen non possa rappresentare l’emblema del rispetto della diversità dell’altro.

Perché non può?

Lacan, pur con tanti meriti, è un pensatore inadeguato alla comprensione di fenomeni (per quanto antichi) che corrono con la velocità del vento. Il suo è un mondo ancorato alla presenza, benché mutuata nell’assenza e nell’immaginario (l’immaginario, il simbolico rimangono presenti come domanda, desiderio, bisogno). E’ inadeguato perché dalla dissoluzione del significante primo non segue necessariamente quella dell’identità e dell’identità sessuale. La domanda, il desiderio rimane ma sciogliendosi senza corposità, organi, ideologia in contesti dinamici che non hanno più confini geografici o culturali. Il corpo del terzo millennio si svuota come si svuotano i contenuti appunto dell’Io, della mente, dell’inconscio. Non è una perdita dell’Io ma semmai un arricchimento. E’ un’opportunità sul piano sociale, giuridico, estetico e antropologico. Oggi non ha senso neanche il documento di identità; ma vai a spiegarlo a un funzionario statale che non siamo più quelli di ieri e che scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, che siamo e non siamo. La violenza è operata piuttosto dal funzionario; è lui a perturbare con l’imposizione di un ordine inesistente il disordine che si muove nell’essere delle cose, nell’imporre una presenza a quello che diviene, muta, si trasforma. La modernità nasce dall’assenza, dalla precarietà dell’essere, da uno svuotamento dell’Io e del corpo. Da una privazione ontologica. Dallo sfaldamento della storia, della cultura, dalla mancanza di Dio. Deleuze in questo è molto più avanti di Lacan. La rete in particolare ci ha disorganizzati, privati dei confini antropologici, giuridici, estetici e sessuali. La velocità aveva già cominciato il percorso destrutturante che in internet è diventato esponenziale. Il corpo è fluido, senza organi, la sessualità pure. Le idee corrono e nel percorso si modificano modificando l’ambiente, l’anatomia, la legge, il mondo, la lingua. Non mi pare che la società ottocentesca raccolta attorno alla triangolazione edipica del focolare domestico fosse migliore di quella attuale, e neanche più ordinata. Mi pare solo infinitamente più noiosa. E’ un momento di incontrollabile trasformazione del mondo, dell’Io, dell’identità anche sessuale, delle relazioni. Del pensiero e della teologia. Il presente è comprensibile solo a partire da una filosofia dell’avvenire; Deleuze aveva cominciato a sganciarsi dalle gerarchie ontologiche, postulando l’univocità dell’essere ma come una pluralità di enti, cogliendola senza universalizzarla in concetti. L’univocità dell’essere permette infatti all’arroganza dell’uno di fare in modo che gli “enti siano molteplici e differenti, sempre prodotti da una sintesi disgiuntiva, essi stessi disgiunti e divergenti, membra disjuncta” e a un tempo che “il senso sia, per tutti gli enti distinti, ontologicamente identico” (Badiou, Deleuze, Il clamore dell’essere). In questo senso la natura è vista come “produzione del diverso”, “somma che non totalizza i propri elementi”, non collettiva ma distributiva, non attributiva ma congiuntiva. “La Natura è precisamente la potenza, ma potenza in nome della quale le cose esistono una ad una, senza possibilità di radunarsi tutte nello stesso tempo, né di unificarsi in una combinazione che sarebbe adeguata ad essa o che l’esprimerebbe interamente in una volta sola”. Nel presentare il desiderio come il fluido che corre per neuroni e ram avrebbe abbracciato le annichilazioni prodotte dalla rete, consentendo al corpo desiderante di dilatarsi nel tempo e nello spazio. E’ stato insomma necessario un altro parricidio, da Lacan a Deleuze. L’essere è polivoco, differente, l’Io e la sessualità pure. Ma vai a spiegarlo al funzionario statale quando deve segnare sul documento d’identità il mio sesso, che già Aristotele non avrebbe saputo cosa scrivere nella casella.

Cos’è il desiderio? Il desiderio è il fluire di pulsioni, mirate per lo più al piacere, non caotiche ma contestualizzate all’interno di un ordine. “Desiderare è costruire un concatenamento, un insieme” dice Deleuze; poiché non si desidera mai veramente qualcuno o qualcosa, si desidera un insieme, un paesaggio nel quale è compreso anche l’oggetto del desiderio, la particolarità desiderata. Il desiderio implica una specie di costruzione e non è mai astratto, ma si sviluppa nel concreto del proprio contesto, insieme di paesaggio e di persone (“Si desidera in un insieme”). Il bere, ad esempio, non è mai desiderato per se stesso, al contrario si desidera anche il paesaggio del bere, il paesaggio in cui bere (in compagnia, dopo una delusione, quando si è tristi). Persino l’alcoolizzato crea relazioni nell’esclusività del suo desiderio, e questo perché il bere rimanda a un problema di quantità: quando si beve si vuole arrivare all’ultimo bicchiere, e “l’alcoolizzato è colui che non smette di smettere di bere”, di essere all’ultimo bicchiere. Il primo bicchiere ripete l’ultimo. Il desiderio fluisce di continuo nell’amore (come tra un bicchiere e l’altro) perché comincia da là; non si desidera quello che non si ama, come non posso volere quello che non conosco. E’ la parte eccessiva dell’amore, l’eccedenza che è però essenza, un’ubriacatura, un delirio che scompone ma anche ricompone: “Crediamo che l’inconscio non sia un teatro, un luogo dove Edipo e Amleto recitano perennemente la loro parte. Non è un teatro, bensì una fabbrica; è una produzione. L’inconscio produce. Funziona come una fabbrica ed è il contrario della visione psicoanalitica dell’inconscio come teatro dove si recita all’infinito il ruolo di Amleto o Edipo. Il secondo tema è il delirio, strettamente legato al desiderio, poiché desiderare è, in un certo modo, delirare. Se si prende un qualsiasi delirio, lo si guarda, lo si ascolta, ci si accorge che non ha niente a che vedere con ciò che pensa la psicoanalisi; non si delira sul padre o la madre, ma su tutt’altro. Il delirio – è il suo segreto – concerne il mondo intero” (Deleuze).

Il desiderio si muove spostando la relazione affettivo/erotica in un altro luogo, svincola dal contesto culturale dell’Io, come avviene ad esempio nella rete. Oltre a trasformarsi può anche mutarsi nel suo contrario; la pulsione così spostata nell’immaginario di una relazione virtuale è libera di diluirsi oltre il proprio corpo, oltre l’Io; meccanismo/schizo che modifica il corpo ridefinendolo nella modernità tecnologica, mettendolo in uno stato di transizione anche biologica. Il fenomeno può manifestarsi coi fatti, e più spesso con le parole nella catena dei significanti. Nel qual caso non è corretto parlare di sublimazione della pulsione, spostamento dell’eros nell’altra scena, in un non luogo appunto dove delimitare la coscienza e nascondere il peccato. La catena e l’ordine dei significanti scorre lungo la rete con una velocità che deorganizza, disturba, non dà il tempo a una contestualizzazione morale, priva della colpa. Il processo è automatico e inconscio e permette un’adeguata scarica di quelle pulsioni sessuali e aggressive altrimenti minacciose e distruttive. Incastrata la pulsione nel principio di realtà in un non luogo, con non-persone, di non-relazioni, la richiesta del piacere può finalmente soddisfarsi senza intaccare il principio di realtà (ragione per cui molto spesso le persone che usano la sessualità in internet non si incontrano nella vita reale; il sogno non deve diventare un bisogno, e l’altro deve continuare ad essere confinato nell’immaginario irreale). E’ piuttosto diffuso come fenomeno; si fa sesso in rete sfogando la libido nell’immaginario di uno schermo, con persone che si amplificano dilatandosi oltre i confini egoici e sessuali. La morale è protetta da questo tipo di incontro, appunto dal non incontro genitale, l’Io dal non avere dato un corpo e una faccia all’altro, con la semplicità di un gioco e senza “rimorso”; mentre la perversione (vista da un’ottica morale) assume la forma di una letteratura, di un’anacronistica pedante prevaricazione ideologica.

Internet, dove la relazione affettiva viene spostata in un’altra scena, ha consentito al principio di morte di irrompere nell’Io senza rimozione e senza il sacrificio pulsionale. Reich (e poi Marcuse) obietta che il discorso di Freud è viziato da un concetto destoricizzato della civiltà, configurando il principio di realtà come una mistificazione. Si convince infatti che una nevrosi sorga dalla rinuncia alla soddisfazione, da un inappagamento sessuale. Da un frammentazione senza ricomposizione del desiderio. Tale origine viene trovata nell’”impotenza orgastica”, ovvero nell’incapacità di una completa scarica dell’eccitazione. L’energia vitale non liberata provoca un ingorgo nell’organismo (“stasi sessuale”) responsabile di fornire ai sintomi nevrotici una diffusione. Come in un teatro, dove in scena sale finalmente il desiderio, questo tipo di relazione destoricizzata e decolpevolizzata consente all’Io la soddisfazione della pulsione e una buona aderenza alla realtà. La realtà è oggi dinamica e in movimento, rizomatica, il corpo il perenne transizione, frammentato nella lingua al punto da concentrare la femminilità in una figura equivoca come la Donna Barbuta, l’Io in una continua tensione. La vita non è più quella domestica, ripetitiva, consumata nella relazione madre-figlio-padre, tanatologica che sapeva di incenso, ma anche nascostamente di zolfo. L’aderenza a un principio di realtà così fragile e inafferrabile, veloce, contaminato comunque sempre dalla pulsione di morte, è però non di meno precaria, a un passo alla dissoluzione. Il disagio persiste. Il collasso è sempre in agguato.

FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO - Giancarlo Buonofiglio

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LA VITA E’ UNA CAMICIA STROPICCIATA

Non c’è progressione nell’intenzione di ricerca, la filosofia fa vedere meglio, nulla di più: “Il mio metodo è quello di rilevare errori nel linguaggio. Sto usando la parola ‘filosofia’ per l’attività di rilevazione di tali errori” (Wittgenstein)

FACCIAMO PULIZIA

Abbiamo un’idea distorta della filosofia, come qualcosa che si esercita nelle aule universitarie e che è di proprietà di un ristretto numero di persone. Niente di più sbagliato, la filosofia non è materia scolastica, ma un naturale disporsi verso le cose, cercando di andare loro incontro, di capirle. Anche nel metodo, il rigore, la logica non mancano negli esercizi quotidiani; come quando una casalinga stira e con abitudine (e l’abitudine è una forma della logica che pone una relazione secondo il prima e il poi) piega le camicie evitando accuratamente di stropicciarle. C’è più filosofia in quelle mani acculturate nella ricerca di un ordine che in tanti libri pieni di parole ma vuoti di sostanza. E c’è anche tanta teologia; la quale mi pare serve appunto a non prendere una brutta piega. Gli adolescenti di norma sono anarchici e vestono stropicciato; a riportare decoro nei costumi con una fondazione delle regole ci pensano le mamme. Stirare equivale a prendere un concetto per renderlo funzionale all’idea che abbiamo del mondo. Talvolta a dimostrare l’esistenza di Dio o la sua immanenza nelle cose. Non sempre siamo coscienti della portata filosofica dei comportamenti ordinari, è vero. Ma nulla toglie a quel che chiamiamo filo-so-fare, che vuol dire l’amore-so-fare; seguendo un filo come in un discorso che non manca di criterio scientifico. Perché anche nei piccoli gesti, nella consuetudine di certi movimenti manuali c’è tanta impensabile episteme, come pure è epistemologia ciò che la madre insegna alla figlia nella normale istruzione giornaliera. Le cose si fanno così, perché è con quel metodo o con quei modi che si ottengono i risultati. E se il risultato è un piatto saporito o una camicia smacchiata tanto meglio; c’è della scienza anche quando si dosa il sale in una pietanza e nella quantità di sbiancante che si versa sull’indumento, e va appresa come qualunque altra disciplina. Naturalmente parliamo di svariati metodi e non di uno solo, come tutto quel che riguarda le esperienze teoretiche prodotte da una necessità pratica. La filosofia non è un insieme di verità di cui entrare in possesso o un metodo stabilito: “Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire ci sono differenti terapie” (Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, § 133). Si tratta piuttosto di indagare i modi in cui si presentano le espressioni linguistiche che articolano il mondo, educando a vederlo con perspicuità, disincanto, facendo pulizia. Avete presente quando le mamme chiedono qualcosa? Ebbene la verità già la conoscono, basta loro un’occhiata. Misurano piuttosto il modo col quale vi rapportate al mondo e che per naturale propensione all’idealismo coincide con il loro Io. Questa pluralità dei metodi risponde all’esigenza di rimanere coerenti con quel che si dice. O meglio, di rimanere fedeli alla forma di vita così com’è predisposta nell’ambiente familiare. “Dire, mi meraviglio di questo e di quest’altra cosa ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così … Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l’esistenza del mondo, poiché non posso immaginarlo come non esistente” (Sull’etica, in Lezioni e conversazioni sull’etica… Milano, Adelphi, 1976, pp. 1-18, pp. 13-14). Qualcosa di simile a quanto accade con la critica dell’evidenza di alcuni truismi enunciati da G. E. Moore (“esiste un corpo umano che è il corpo”, “questo calamaio è alla sinistra di questa penna”) che Wittgenstein smonta analizzando la grammatica del linguaggio. Una casalinga non dice “hai un corpo sgualcito o sporco” e meno che mai si perde in astruse considerazioni logiche. I pantaloni non sono in terra a destra della lavatrice, vanno messi dentro. Punto.

Si potrebbe dire che il discorso vale anche per tutti i mestieri e non solo quello casalingo; ma proprio non so. L’ambiente domestico mi sembra vero, legato ai nostri bisogni intimi, è lo spazio affettivo, emotivo, conoscitivo nel quale ci muoviamo con libertà di linguaggio; non è il luogo dell’Io, ma l’Io in una sua profonda dilatazione. Tra le grammatiche del quotidiano mi sembra quella più aderente alle nostre necessità epistemiche. Una casalinga che organizza la giornata della famiglia ha riti che sembrano preghiere, risolve sottili questioni teoretiche, mostra un’insolita attitudine matematica, formula giudizi analitici, risolve dubbi, la cucina assorbe gli aromi e gli odori, decora l’ambiente con il suo gusto estetico. I mestieri sono un’altra cosa, la finalità è la produzione e la vendita; nella casa alberga invece il sapere per il sapere. E questo se non ricordo male è uno dei nomi che diamo alla filosofia. Il sapere per il sapere; perché come scriveva Aristotele: “La filosofia non serve a niente; ma proprio perché libera da legami di servitù nessuna scienza le sarà mai superiore”. La filosofia non è serva (quante volte sentiamo la genitrice dire: “Non sono la tua serva”), questo è il punto; i mestieri che producono un reddito sono servili e accomodanti, complici a volte. Non tendono al bene, quasi mai hanno un rapporto con la verità e raramente producono felicità; c’è anche chi ha visto in quelle forme di lavoro alienazione e abbrutimento, autodistruzione. Ma è un’altra storia. Le mamme quando chiedono pretendono risposte, non divagano mai, hanno un metodo e si muovono in un ambiente empirico. “Il metodo corretto della filosofia è propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi … Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. (Tractatus, 6.53-7)”.

La filosofia descrive i modi con cui usiamo parole e proposizioni, poiché è a causa di un loro uso perverso che si sviluppano teoremi incapaci di dare conto della verità. La frase “il mondo non esiste”, o “il mio corpo esiste”, è impropria perché si fonda sul presupposto metafisico dell’esistenza. Parimenti quando diciamo alla mamma “nessuno”, alla sua richiesta di sapere chi era al telefono. Quel “nessuno” manca di soggettività, non è oggettivabile, è qualcosa di manifestamente metafisico, insensato sul piano delle proposizioni ordinarie del vivere quotidiano. Non ha volto ed è irritante. La filosofia deve delineare le condizioni di senso che rendono corretta una certa espressione linguistica. E il senso deve avere un nome (di quella “zoccola”, come appunto dice mamma non potendo indagare oltre).

La prima delle condizioni del filosofare è che noi parliamo in un mondo che preesiste, e rispetto al quale non ha senso il dubbio scettico, perché la sua formulazione è la prova che disponiamo di un linguaggio che ci rende partecipi di un gruppo; e al cui interno stirare camicie o fare filosofia sono attività equivalenti. Stiro ergo sum, il fondamento c’è e a una casalinga epistemica non interessa andare oltre. Contraddire una mamma comporta a vederla difendere il principio di non contraddizione con la pantofola in mano; è empirista prima che agnostica, rinunciate ai paralogismi. Perciò Wittgenstein scrive: “La mia vita mostra che so” (Della certezza, Torino, Einaudi, 1999, § 7). La conoscenza è l’espressione di quanto apprendiamo nella vita, sappiamo ciò che abbiamo imparato. La filosofia è un modo di osservare, guardare. spiare anche dal buco della serratura. Disciplinare la descrizione dell’esperienza, darsi regole non significa costituire una precettistica. Le stesse definizioni che Wittgenstein ha elaborato, quali il gioco linguistico e la forma di vita, mutano di senso a seconda del contesto d’uso in cui vengono adoperate. Non diversamente da una casalinga ha infatti ripulito la filosofia da ogni ambizione fondante. La filosofia non fonda e non istituisce, mostra il modo in cui il pensiero può articolarsi, ma non cosa deve pensare; è una filosofia del come, non del che cosa. Alle mamme interessano i risultati, non danno un metodo di studio al figlio quando fa i compiti. Si limitano a chiedere il giorno dopo, quanto ti ha dato la maestra? E non è proprio un chiedere, perché la domanda è analitica e sintetica. D’altra parte, le cose si propongono immediatamente allo sguardo e ricercare una spiegazione dietro l’apparenza significa compiere un’opera di mistificazione, la ricerca delle cause e dei principi primi è un esercizio come si è detto metafisico. Le mamme indagano, questo sì; ma si limitano ad osservare la forma secondo cui avviciniamo le cose, le quali appaiono e si presentano per come effettivamente sono. I pantaloni sono rotti e vanno rammendati, il bambino al limite si rimprovera ma raramente mi è capitato di sentire chiedere “com’è successo?” Non c’è progressione nell’intenzione di ricerca, la filosofia fa vedere meglio, nulla di più: “Il mio metodo è quello di rilevare errori nel linguaggio. Sto usando la parola ‘filosofia’ per l’attività di rilevazione di tali errori” (Wittgenstein, Lectures, Cambridge, 1932-1935, pp. 27-28).

Veniamo ora al succo del discorso, anzi al frullato che all’animale casalingo piace di più. La filosofia è un’attività terapeutica e nel concetto di terapia sono presenti l’educazione e le regole. Come quando le mamme dosano il detersivo per il bucato, parimenti ripuliscono “Le parole dal loro uso metafisico al loro uso corretto nel linguaggio” (Filosofia, Roma, Donzelli, 1996, § 88). Come si arrivi a dare una presentazione perspicua dei fatti linguistici e antropologici, non è però immediatamente chiaro neanche a Wittgenstein. Se infatti afferma già dal Tractatus che la filosofia deve ripulire linguisticamente il pensiero e non formulare teorie sul linguaggio, per mostrare che alcune proposizioni filosofiche non sono fondate, occorre prima aver puntualizzato come funziona il linguaggio, e cioè avere elaborato una teoria. E tuttavia proprio l’elaborazione di una teoria del linguaggio è insensata nel momento in cui si ipotizza la sua essenza. Wittgenstein risolve il paradosso intendendo la filosofia come un’attività che procede con l’esibizione di esempi di costruzioni semantiche che affidano al lettore il compito di pensare per conto proprio (Filosofia e Ricerche filosofiche).

In qualche modo la casalinga costruisce un linguaggio e quello finisce per ordinare il mondo. Un mondo domestico, familiare e pulito; non ragiona in termini metafisici o immaginari. Non costruisce illusioni, afferra piuttosto il desiderio (perché è di quello che parliamo quando pronunciamo la parola filosofia), lo porta dove non possa far danni facendolo esplodere altrove, proprio come fanno gli artificieri. Le illusioni sono metafisica, non come la intendeva Aristotele però. La “meraviglia” con cui comincia il suo Libro è desiderio (ορεγονται) e il desiderio è rivolto alle cose naturali (φυσει). La natura aristotelica è qualcosa di aderente alla vita, al di qua del nomos. Come ho detto sopra, la filosofia non è materia scolastica, ma un naturale disporsi verso le cose prima che alle idee. C’è anche un altro elemento interessante nell’incipit aristotelico, Παντες ανθρωποι, tutti gli uomini, nessuno escluso tendono al sapere, a meravigliarsi, a desiderare. Le mamme lo sanno bene, basta loro un’occhiata sull’epidermide del figlio. Anche nelle illusioni il desiderio è presente, ma è un desiderio povero, falsamente votato all’educazione, detonato in quel che conta. Non nasce da un bisogno filosofico, ma dalla necessità di ordinare i capricci e gli stropicciamenti della vita. La filosofia non si occupa di capricci e non ama l’ordine pur mettendo in ordine; le mamme non vendono fumo e si arrabbiano anzi se fumiamo. Dove c’è ordine non può esserci meraviglia. Ed è questo il punto: il disordine è necessario alla sua esistenza di domestico filosofico, pur tra mille lamentele e la minaccia del battipanni. La camicia stropicciata è la ragione e il senso del suo ragionare con le mani e con la scopa. Non per niente Wittgenstein scriveva che: “Il lavoro filosofico è propriamente … un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose e su cosa si pretende da esse”. E quello che desidera una casalinga filosofica è una camicia e una vita stirata.

Di prosssima pubblicazione

FAMMI GODERE

Lacan contrappone godimento e amore. Nel Seminario XX si chiede che cosa sia il godimento, rispondendo che “è ciò che non serve a niente”.

 

Lacan contrappone godimento e amore. Nel Seminario XX si chiede che cosa sia il godimento, rispondendo che “è ciò che non serve a niente”. Sottolinea che non c’è alcuna finalità nel piacere e che il piacere è sempre fine a se stesso. L’amore è l’alternativa a questo tipo di godimento chiuso in sé che nasce e muore nel corpo. Stando alle sue parole si tratta del godimento del corpo dell’altro e implica il corpo come sostanza. Il problema come l’ha impostato Lacan è se esista qualcosa oltre al piacere limitato nel corpo; lo psicoanalista riconosce che il godimento sia qualcosa di fondamentale ma sottolinea che non è un segno d’amore. L’amore si soddisfa nella relazione con l’Altro grande e non attraverso il corpo. Implica il corpo sessuale, ma si completa nel segno e il segno è prima di tutto una forma di riconoscimento. Nel Seminario X Lacan aveva teorizzato l’amore come “amore del nome”, amore per ciò che definisce quello che è reale in un soggetto. Ma se l’amore è amore del nome, il corpo che funzione assume all’interno del discorso amoroso? Inseguendo l’ordine delle idee più che la realtà dei fatti, pare abbia dimenticato che anche il corpo sia un segno. Come tutti gli altri segni è infatti privo di rimandi, non ha un significato e non ha geografie o contenuti al di là delle sue funzioni. La psicoanalisi dà al corpo un significato, nominandolo appunto, come a suo tempo ha fatto la religione costringendo il piacere nei confini della carne.

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Deleuze è andato decisamente al di là di questa visione chiesastica. Il corpo è senza organi, non è organizzato o organico, non è funzionale ad uno scopo. Non è una macchina riproduttiva o un simulacro, non è un ingranaggio. Il corpo dell’uomo una volta misticizzato è stato ridotto a carne finalizzata alla generazione di una prole da integrare nei meccanismi capitalistici e quello della donna a una macchina riproduttiva. Il corpo non è ordinato, è frammentato; racconta dell’inconscio e della potenzialità a fare e a produrre; è il desiderio stesso in quanto vita produttiva che muove a organizzare sempre nuove connessioni. Puro desiderio veicolato in qualsiasi altra sua parte, anche in quelle prive di connotati strettamente sessuali. Prima che da significati affettivi, emotivi o sessuali il corpo è abitato e segnato da tensioni politiche e porta nell’anatomia le tracce della sua storia. Come sottolinea Deleuze nelle Lezioni su Spinoza, anche il corpo individuale è un frammento del sociale, un progetto politico che nella ricerca del piacere crea relazioni e fornisce un ordine ai sistemi; non si può comprendere isolandolo dai contesti di cui è una parte. In riferimento a Spinoza, Deleuze non smette di affermare che non basta evocare l’immanenza (le idee, la morale, dio), bisogna costruirla con le mani prima che con il pensiero. Socialità e razionalità seguono dall’azione del corpo. “Non si nasce esseri sociali”, come pure non si nasce razionali ma si diventa. Divenire sociali e razionali dipende dagli incontri e gli incontri seguono a loro volta dalle percezioni. Per Spinoza la percezione è un problema politico, dal quale deriva ogni cosa che riguarda la vita degli uomini. Ogni incontro è una composizione di termini, una relazione che esprime il grado di potenza. Un’inadeguata percezione dei corpi e dell’altro condurrà ad una distorta e sbilanciata composizione della società. E tuttavia psicoanalisi e religione vincolano il corpo nella rassegnata accettazione della sua incapacità a costituirsi liberamente al di fuori dei processi produttivi. il risultato è di limitare le funzioni del piacere e le sue facoltà all’interno della produzione sociale costituita dalla paura, dal timore, dal bisogno di certezze. Il potere costruisce sistemi di controllo basati sulla disperazione a cui fornisce un dio come speranza. Si serve della paura, che è uno dei nomi della schiavitù. E la schiavitù è una deformazione anche del corpo che porta alla detonazione della potenza, a un’implosione. Psicoanalisi e religione hanno dimostrato di essere al servizio del potere e dell’ordine; Lacan non si discosta da questo esercizio reazionario. L’accusa che Deleuze e Guattari muovono alla psicoanalisi è che dopo aver scoperto il desiderio inconscio ha rinunciato alla portata rivoluzionaria mettendosi a servire il padrone. E infatti precisa Deleuze che il culto psicoanalitico dell’Edipo si regge sull’obbedienza alla legge autoritaria del padre. Anche la psicoanalisi ha concentrato le indagini sul corpo come sostanza godente, isolandolo però dal contesto. Ha rimarcato che l’esperienza centrale dell’amore sia quella di amare il nome come se fosse un corpo e di amare il corpo in quanto nome del soggetto. Amare il nome come se fosse un corpo significa che pronunciando il nome dell’amato l’Io prova un certo godimento. Ma nel nome si muove il principio di identità, del sempre uguale a se stesso. A Lacan sfugge la comprensione del movimento, l’immanenza, il divenire che è nelle cose, nel corpo, nella vita. Il non essere o la polivocità dell’essere frammentato non fa parte del suo orizzonte intellettuale. E infatti ripete che amare il corpo come un nome significa amare il corpo dell’altro non come una parte, concentrando appunto la sua completezza nel nome come qualcosa di unico e irripetibile. Lacan distingue due modi della soddisfazione: la soddisfazione del godimento e la soddisfazione dell’amore. La soddisfazione del godimento si articola in quella del bisogno istantaneo, mentre la soddisfazione dell’amore si completa con quella del desiderio in quanto desiderio dell’Altro. Nell’appagamento del godimento c’è qualcosa di urgente, imminente e non immanente, mentre la soddisfazione dell’amore (intesa come un completamento del segno) rimanda piuttosto al simbolico del desiderio. Per Lacan il godimento non serve a niente ed è un esercizio che manca di relazione; gli contrappone l’amore come desiderio dell’Altro. Si serve quindi del termine autismo per definire la struttura del godimento limitata nell’uno. Il godimento del corpo è sempre godimento dell’uno fuori dalla relazione ed è mortale nella sua essenza. Non può esserci amore dove il desiderio è costretto in un simulacro di significati quale è il corpo come lo descrive Lacan. Ricorda semmai una statua votiva da contemplare più che un essere vivente da amare. Il godimento non serve, è vero, ma solo perché non è servile. Avvicina e non solo i corpi, struttura le relazioni, ordina il molteplice in un’etica. Dà un senso alla realtà che è fatta di carne e sangue piuttosto che da spirito. E’ qualcosa che completa l’altro con l’Altro senza escluderlo, che svuota l’Io dai contenuti e dai significati rendendolo libero di muoversi, sconvolgendole, all’interno delle sedimentazioni cultuali. Questa tensione al piacere di un corpo che è privo di organi e svuotato di significati o nomi è un bisogno intimo di libertà. Una voce che chiama da lontano e riporta all’ordine la “sostanza (come) ciò che è in sé e viene concepita per sé” (Spinoza). Il corpo desidera, vuole, prova piacere o sofferenza, se non lo nutri muore. Non è un’anima; ha diritti e bisogni primari. Il primo e il più importante di questi bisogni lo chiamiamo amore.

Dai FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO sito web del libro alla pagina

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COS’E’ UNA LETTERA D’AMORE?

PERCHE’ GLI INNAMORATI SCRIVONO LETTERE D’AMORE

La lingua è tiranna in quanto costringe a parlare, a nominare, a disporre in un ordine. Nominare significa identificare, imporre all’altro un’identità. E’ per questo che Barthes invita a fingere con la lingua, a nascondersi nelle parole, dove per l’appunto abitualmente veniamo individuati. Ma per sottrarsi alla lingua è richiesta una scrittura intransitiva, spersonalizzata, desoggettivata e tuttavia intima e radicale. Lo scrittore è capace di silenzio, di eccedenza. Come l’innamorato che ama, ma non per sua scelta. E infatti “Innamorato” si pronuncia nella forma passiva. “Io sono innamorato”, abitato dall’amore. L’amore non dà un ordine, non è funzionale; l’innamorato è fuori posto, come lo scrittore a cui si assimila per una profonda contiguità col racconto amoroso. L’ipergrafia, il bisogno di mettere nella scrittura le emozioni, le poesie, un certo lirismo nel comportamento derivato anch’esso dalla scrittura, come a colmare con un flusso di parole la distanza con l’altro. Anche in senso grammaticale l’amore è coniugale, una coniugazione di termini. L’innamorato parla (comincia così il libro di Barthes, Frammenti di un discorso amoroso) e la parola segue dal flusso della scrittura. L’amore si muove dall’Io all’altro e nel ritaglio semantico in cui costringe la relazione, la sottrae all’intervento di qualunque altro (il nome dell’Io e dell’altro circoscritti dal segno “cuore” ha questa intenzione sacralizzante, il témenos che contiene e protegge il theos). In questo consiste la discrezione dell’amore, la sua “solitudine costitutiva”. La parola d’amore è una parola che proprio tacendo diventa eccedente. Questa parola silenziosa come quella dello scrittore, disturba perché non è funzionale, è anarchica, senza norma, sediziosa. L’innamorato si viene a trovare in una dimensione straordinaria ripetto alle comuni regole della comunicazione. Che la sua sia una scrittura straordinaria lo dimostra il bisogno di ricostruire lo scenario anche quando la narrazione viene a mancare. Narrazione e Io sono infatti continui nel discorso. L’Io ha un crollo quando perde la sua narrazione, o sono presente buchi che devono essere riempiti ritrovando gli anelli perduti nella catena. L’assenza di storia è come un appuntamento mancato, un significante smarrito, la sovversione della successione narrativa, della logica, dell’Io, dell’ordine si riflettono nel carattere frammentato del testo scritto, che difatti anche nella forma della lettera predilige quella poetica, del verso isolato, dell’interruzione a margine. Nasce e muore ogni giorno, l’innamorato va di continuo a capo. Il lirismo dell’innamorato racconta dell’ambivalenza del linguaggio, la tendenza a coprire e scoprire; si esprime in una forma che riferisce della possibilità di bleffare con la lingua, di imbrogliare il potere, attraverso quell’altro elemento sempre presente nel discorso: la significanza, come ciò che eccede, il senso che viene incontro (le sens obvie). L’amore scritto o raccontato come metafora di tutto ciò che è eccezionale, improduttivo, non funzionale. È il corpo innamorato a creare un disturbo nell’equilibrio dei sistemi interni all’ordine del discorso. I limiti del corpo sono i limiti del lingua, la sua frantumazione porta il corpo a frammentarsi fino a perdere l’organicità. Nella relazione l’amante prende coscienza delle potenzialità, ma anche dei limiti del proprio corpo. Nel momento in cui sente il corpo, lo avverte nella sua fragilità come qualcosa di estraneo e non duraturo, che ha un termine. Amare significa sentire la morte sulla pelle come qualcosa di inesorabile. Il rapporto amoroso viene raccontato come una perdita di sé e una tensione verso l’altro. Gli amanti sono eccedenti rispetto all’ordine; equivoci e “transgredienti” (Bachtin). Fluiscono di continuo l’uno nell’altro come se non avessero un’identità o un corpo. Il corpo innamorato è infatti contrassegnato dall’inquietudine per l’assenza dell’altro, come un lutto che anticipa la fine della relazione; la paura dell’abbandono viene esorcizzata con la richiesta continua di rassicurazioni (“giurami che mi ami”). Per Barthes il rapporto d’amore si propone come il luogo del desiderio, come metafora dell’eccedente (Bataille, Baudrillard), del disordine, della frammentarietà. C’è in Barthes un rispetto profondo per l’incertezza. Nell’amore come nella scrittura l’Io è decentrato, perde di consistenza. Diventa una scrittura del corpo e nell’immaginario si presenta nella forma radicale del “ti amerò per tutta la vita”. La scrittura d’amore, in quanto riscrittura, esonda dall’ordine della lingua e si fa “perversa” (Barthes), instabile, porta a estraniarsi dall’appartenenza a una specie in quanto specificarsi, dal perdurare nel proprio essere nel principio di identità. Sovverte le normali regole della comunicazione. La lingua comunica (e scomunica, desacralizza) mentre la parola si muove al di là della comunicazione, non ha bisogno dell’altro. Il significato di una parola non è solo verbale, linguistico, ha anche componenti che derivano dalla funzione pratica, dall’uso. Una parte del significato di una parola sta nel significato che produce in combinazione con altre parole. E’ contestualizzato in un ordine sistemico di interazione, il cui significato è determinato dal codice. La parola si restringe o si dilata, svuotandosi o riempiendosi di contenuti; la grammatica ordina poi la struttura. L’uso della parola è una scelta individuale che risente delle influenze psichiche. La scelta delle parole richiama a un contenuto profondo, legato ad associazioni “inconsce”, oppure consapevoli ma isomorfiche, proprie dell’individuo prima che della collettività e non sempre spiegabili, ma mai prive di senso. Wittgenstein si concentra ad esempio nella modulazione della voce, nella pronuncia, nelle espressioni facciali che accompagnano l’attività di parlare. Saussure considerava il discorso un atto lineare, nel senso che ogni espressione si succede all’altra, non vi è mai espressione contemporanea di più elementi. Ma esistono come eccezione a questa regola i “tratti soprasegmentali”, ossia le modalità espressive che accompagnano l’atto linguistico. La dimensione soprasegmentale suggerita da Wittgenstein aggiunge uno spessore affettivo-tonale alla parola. In una scrittura attraversata dal desiderio diventano determinanti il parlare indiretto, la metafora, la metonimia, il neologismo, la parodia, l’ironia, le diverse “forme del tacere” (Bachtin), non essendo praticabili nel consueto uso della lingua. E ciò spiega il carattere frammentato, ossia la prevalenza delle parole sull’ordine del linguaggio; la parola poetica più che la prosa, l’immagine isolata, il segno elementare, la grafia fine a se stessa che ritaglia i nomi circoscrivendoli (sacralizzandoli e sacrificandoli) dal contesto in un cuore, o anche l”incisione dei nomi su un tronco. Wittgenstein vedeva il linguaggio come un esercizio di traduzione intersemiotica tra immagini mentali e affetti e parole. La relazione si delinea come un’attività traduttiva, parimenti a quella interlinguistica, caratterizzata da anisomorfismo. Un sentimento tradotto in parole e poi ritradotto in sentimento (una ritraduzione) non porta allo stesso risultato. C’è una lingua che scorre nella lingua, con significati che vanno al di là dei significati. L’amore vuole essere corrisposto, proprio perché è una corrispondenza. Una lettera d’amore racconta della disponibilità alla frantumazione della totalità. Affonda la penna nell’immaginare più che nell’immaginario, nella significanza della significazione prima che nel simbolico; è la pratica del significare che precede la comunicazione. La scrittura segnata dalla parola amore, precede il parlare ed è nella sostanza amore per l’altro. Più che un dialogo è però un monologo. Lo dimostra la prevaricazione della parola sulla lingua quando scriviamo una lettera amorosa. Saussure distingueva tra “lingua” e “parola”; la prima rappresenta il momento sociale del linguaggio ed è costituita dal codice di strutture e regole che un individuo eredita dalla comunità, senza poterle inventare o modificare. La parola è invece il momento individuale, intimo, sregolato, mutevole e creativo del linguaggio, la maniera in cui il soggetto “utilizza il codice della lingua per esprimere il proprio pensiero personale”. La lingua si giustica nell’uso e l’uso dipende da un’abitudine che ordina dando, nella regola alle parole, un senso alle cose. A differenza dalla lingua la parola non è un elemento rigido ma in movimento; è soggetta alle modificazioni indotte dall’intervento simbolico, culturale o emotivo. Si muove nell’eccedenza (l’ampio uso del superlativo per indicare l’altro, la punteggiatura esasperata, il ricorso a nomignoli, come se la lingua non bastasse a se stessa), dove l’assenza diventa “rispondenza” prima che corrispondenza, mantiene la domanda in una tensione costante. La lingua comunica, afferisce, mentre la parola differisce (différance); è attraversata dal desiderio indipendentemente dalla comunicazione, non ha bisogno dell’altro.

DA I FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO (l’amore tra l’immaginario e il reale)

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