La parola perversione viene dal latino perversum e richiama a uno stravolgimento non tanto delle regole ma del senso comune o del comune sentire. La società si dà le norme, anche nel campo sessuale e l’individuo si adegua. L’adeguamento è immediato prima ancora che mediato dalla legge, che pure vigila con gli apparati medici piuttosto che con quelli giuridici. E tuttavia come si dice fatta la legge trovato l’inganno, perché il piacere è anarchico e dove ci sono le regole il desiderio esplode o implode a seconda dell’educazione che il singolo ha ricevuto. Quando implode abbiamo tecnicamente una perversione; se il fenomeno diventa sociale il rischio concreto è la rivoluzione. L’apparato medico dello Stato si mette all’opera e diagnostica una perversione di massa. Come ha fatto Massimo Recalcati rinvenendo una nevrosi tra coloro che hanno votato “no” a una consultazione popolare (19 milioni di degenerati). La politica perversa diagnostica la perversione nel dissenso e tutto finisce a tarallucci e vino. Le cose però cambiano, i costumi pure, l’omosessualità non è più una deviazione neanche per il DSM e quelli che erano atti fuorvianti dalle regole vengono assorbiti dalle regole stesse. L’industria del sesso non da oggi ha dato una risposta a tali bisogni e l’intimo, quella che una volta era l’intimità ha finito per riempire gli scaffali dei supermercati. E non solo… (Da Consigli, amenità e facezie sopra l’esercizio del meretricio e dei lupanari.)
Categoria: socilogia
NON SONO STATO, IO
C’è un passaggio rilevante di Marx sulla degradazione dell’uomo della società industriale, non più come soggetto che produce ma in quanto oggetto di consumo: La produzione non produce solo l’oggetto del consumo, ma anche il modo del consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea il consumatore, perché non fornisce solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Consumante e consumato il corpo si modifica, diviene, si trasforma. Ha una sacralità che i tempi della produzione però non assorbono; è stato destoricizzato forzandolo a produrre ricchezza e a dare piacere. Marx contrapponeva l’attuale mistica economica alla più antica civiltà che si ordinava nella distruzione della parte maledetta della merce prodotta. L’eccedenza (il potlàc di Mauss e la dépense di Bataille), l’accumulo di beni non più scambiabili e utili solo ad arricchire il singolo individuo che creano squilibri di potere all’interno della comunità. Il potlàc era la distruzione della ricchezza e in essa dell’autorità, un sacri/ficio (che vuol dire fare-il-sacro). E la sacralità consisteva nella distribuzione (dell’essere nelle cose) in eguale misura, senza la distorsione del corpo come funzione per la produzione e la trascendenza delle cose nel loro valore di scambio.
Mauss nel “Saggio sul dono“, puntualizzava che per i primitivi le merci non erano cose ma fatti sociali, e dunque condividevano il simbolo/valore nella comunità. L’epoca moderna, attribuendo un contenuto spirituale alla merce prodotta, ha fatto in modo che i beni fabbricati dal corpo fossero invece scambiati per il loro valore cultuale (nel simbolo del denaro o dell’oro), interdicendo lo spreco e la distruzione della parte deprecata; risolvendo l’ambi/valenza in un’equi/valenza che annulla le differenze nell’identità di Stato. In quanto portatore di un significante autoritario e dispotico, il corpo si è modificato degenerando in un’identità senza volto. Marx è stato stato molto chiaro su questo punto: una merce si trova in forma generale di equivalente in quanto viene esclusa da tutte le altre merci. E’ solo nel momento in cui tale esclusione si limita ad un genere specifico di merci che la forma unitaria relativa di valore raggiunge la sua consistenza oggettiva. Platone, e la mistica economica da lui derivata, col tò agathòn (ciò che rende buona una cosa e la fa essere o non essere) aveva mosso ad una metafisica delle cose cercando nella trascendenza il loro valore. Marx ha poi rinvenuto nell’oro tale mistica, che chiama equivalente generale, il totem di un’identificazione sociale, appunto la pre/valenza sull’ambivalenza. Nelle civiltà arcaiche l’oggetto prima di essere un mezzo di sussistenza garantiva nell’uso la sopravvivenza della collettività. L’opposto di quanto è avvenuto in epoca moderna, in cui l’eccesso di significato è diventato autoritario all’interno del codice: i bisogni primari vengono risolti in un assetto di simboli e parole che hanno alienato il corpo, espropriandolo della terra e alienandolo dai processi economici. Non si può separare il corpo dagli oggetti che produce. L’oggetto è un frammento del corpo ed è scambiato per fare circolare un senso che lo trascende; la relazione tra il corpo e la produzione ha un significato profondamente teologico e spirituale. Il passaggio dall’essere al Dio ha comportato la degradazione dei simboli e delle elementari strutture delle società, dall’ambivalenza del simbolo (symbàllein) nel dia-bàllein, in un segno autoritario che sopprime ogni forma di reversibilità simbolica e trasforma nel male l’alterità. Una deformità conforme a una metafisica dei costumi che fa della carne e della sessualità (dalla produzione alla riproduzione) il veicolo di un ordine di segni che sublima la consistenza biologica del corpo e lo altera deanatomizzandolo (patologizzandolo) in un santuario ideologico, che non solo genera una ricchezza a cui non partecipa, ma che lo dispone a desiderare consumandoli gli oggetti che esso stesso produce.
Da Gli italiani il sesso (la rivoluzione) lo fanno poco e male
SONO APPARSO A PAOLO BROSIO
Sono apparso a Paolo Brosio. Ieri notte. Dopo lo stupore, perché non ho i caratteri della Beata, mi ha preso comunque le mani. Commosso come ero io alla prima comunione. Ha mormorato qualcosa con quella vocina stridula, ma non so bene. Un’apparizione è pur sempre un’apparizione, gli iiconoclasti non possono capire. E lo so che la notte dovrei dormire invece di andare per sogni altrui. Ma mi piace Paolo Brosio e ogni tanto gli appaio.
SECONDA STELLA A DESTRA
In matematica si dice che due punti si uniscono in una linea retta, tre costituiscono un campo piano, a due dimensioni, ma serve un quarto punto per dare luogo a uno spazio tridimensionale, Questo quarto punto deve essere collocato fuori dal perimetro ordinario. Non è una questione banalmente geometrica, si tratta di un profondo ordine generale. Disponiamo il nostro vivere su un foglio privo di spessore mentre quello che dà un senso è un fuori luogo, qualcosa che sta altrove. La presenza di questa assenza è una costante; assume diversi nomi e si pone come la causa ultima delle cose. Ricercare le cause e i principi primi vuol dire focalizzare quel punto esterno come istitutivo e fondante. E’ una funzione non solo degli individui, ma delle comunità; dalle più piccole a quei mostri della civiltà che chiamiamo Stati. Ogni comunità si organizza sulla base di un finalismo telelogico. Kant aveva compreso la centralità di quella coordinata esterna alle cose e pur non conoscendola doveva supporla per dare un senso a quel che vedeva. Ma era cauto e sapeva che si trattava di qualcosa di affine alla logica, ma non di logica e meno che mai di conoscenza. Il problema nasce col passaggio dalla logica all’ontologia; al quarto punto viene dato un corpo fisico attraverso un cortocircuito del pensiero. La metafisica, che nulla dice del vivere e non estende il sapere, ma dispone l’assetto delle cose fornendo loro una solidità giuridica; stravolge il campo rendendolo tridimensionale. Non troppo lontano è andato Lacan; non tollerando l’assenza e il vuoto, riempiva lo spazio con qualcosa, e questo qualcosa proprio in quanto cosa doveva anche essere presente o reale. Ed è questo il problema: a quella costante che è assenza e mancanza diamo il nome e il corpo della presenza; il vuoto assume una corposità esasperata, gli Stati e i loro ordinamenti adeguano le leggi su qualcosa che non c’è. E nel particolare anche la vita dei singoli individui è abusata da questo al di là della coscienza. Il quarto punto continua ad essere collocato altrove determinando da un non luogo tutte quante le articolazioni dell’esistenza.
IL PAESE DEI TRONISTI
La modernità tecnologica ha reso possibile qualcosa che le vecchie generazioni non conoscevano, la popolarità. Se un uomo ordinario acquisiva notorietà normalmente era per un fatto grave di cronaca; la celebrità rimaneva una prerogativa aristocratica e al di là di una discendenza fortunata coincideva con qualche virtù. Essere riconosciuti voleva dire emergere per qualità, impegno, sagacia, attitudine; comportava una dote che altri non avevano. La comunicazione di massa ha appiattito le differenze, omologato i linguaggi, livellato al basso le abilità. Anche l’istruzione di Stato ha contribuito alla spersonalizzazione sulla base di un astratto principio di uguaglianza che ha finito per mortificare la qualità. La popolarità ha dato l’opportunità all’ultimo disperato di affiorare all’interno di una massa di individui senza nome. I linguaggi della comunicazione, conformati quel tanto che basta a raggiungere il maggior numero di persone, tendono a una lingua media e mediocre che deve indurre a consumare prima che a conoscere o raccontare. In economia si dice che la richiesta muove l’offerta e un popolo educato dalla televisione di Stato, dall’istruzione di Stato, dalla lingua dello Stato (di questo Stato) non è in grado di discriminare tra un prodotto che ha valore e l’altro. Emergono i mediocri, i miserabili, i nullafacenti e i nullaesistenti; non meraviglia che politici e imprenditori di dubbio gusto abbiano l’approvazione e un seguito popolare. Personalmente non li distinguo dai tronisti della De Filippi, ma è un problema mio. Se la richiesta è quella, l’offerta non può che compiacerla. La mediocrità dell’informazione e delle derrate culturali, l’inefficienza di chi ha un incarico pubblico dipendono dalla contrazione del livello di coscienza, di erudizione, di lungimiranza di un popolo che ha perso le radici della civiltà inseguendo il sogno della celebrità. Un sogno appunto in cui anche il più inetto tra gli individui possa identificarsi, annullare le alterità e ottenere il successo fino a credersi stocazzo; costringendo a un’emigrazione che l’Italia non conosceva, quella che porta all’espatrio uomini e donne che parlano di cultura, di scienza, di diritto in paesi nei quali essere famosi è magari bello, ma conoscere, elaborare idee, innovazioni, scoperte è comunque meglio. Ci siamo adagiati nella banalità della lingua e siamo contenti così, con quattro soldi tra mani e il desiderio di spenderli nei luoghi del piacere, che sono poi il cimitero della nostra coscienza.
L’EPIGASTRIO DI NONNA
Nonna scoreggiava. C’è un filo diretto tra la visione del mondo e quel che avviene nell’epigastrio; al di là delle diverse profondità che vanno dal pensiero (più in superficie) alle emozioni (che si radicano piuttosto nella paleocorteccia) quello che conta viene concentrato nella pancia. C’è chi trattiene, gli idealisti e i metafisici per intenderci che pongono una barriera intellettuale tra le cose, e chi come nonna (che era fenomenologa prima ancora che materialista) le avvicina senza sovrastrutture linguistiche o formali. Le cose si possono pensare o vivere, nonna di più a quanto pare le fagocitava. Di per sé già la parola comprensione rimanda alle mani e al corpo che afferrando qualcosa conosce; nella fagocitazione c’è qualcosa di ancora più profondo, la masticazione del pensiero che diventa appunto una ruminazione, con quel che ne consegue sul piano fisiologico. Perché nonna ruttava, seppure arrossendo al momento dell’emissione di quella gutturale il cui suono è pur sempre sgradevole. Faceva brup e qualcosa di simile al raglio di un asino, poi si metteva la mano davanti alla bocca (poi, perché le mani non erano sincronizzate e i movimenti si facevano lenti con gli anni) quasi a scusarsi per essersi lasciata andare ai bisogni ineluttabili. Ed è proprio questo il punto, si lasciava andare verso le cose come se Platone (o Agostino) non fosse esistito. Le idee sono pur sempre portate da intellettuali e il suo era uno stomaco contadino abituato al poco in tavola; l’ho vista inorridire davanti a antipasti raffinati ma non sostanziosi. Le idee appunto che mettono fame e non saziano mai. Nonna non aveva quella forma di analità intellettuale, non tratteneva; si limitava alla sospensione del giudizio quando poteva e se proprio non riusciva evocava dall’intimità ciò che aveva assorbito. Anche i pensieri, che non per niente sono fatti di aria. Non c’è più nonna, era un’altra epoché la sua; con poche certezze, nessuna verità, ma capace di avvicinare le cose nella loro superficiale e sensuale profondità.
BIANCANEVE E LA MELA DI CHOMSKY
La scena è questa: Biancaneve sente bussare alla porta, compare una vecchia megera con una mela bellissima ma avvelenata, la fanciulla la mangia e muore. Poiché la ragazza è tutt’altro che sprovveduta, viene da chiedersi come abbia potuto fidarsi di una sconosciuta. La questione è importante; in primo luogo perché mi ha tolto il sonno da piccolo (e non mi pare una cosa secondaria) e poi perché ci raccontano favole abituandoci a ricevere informazioni, che per quanto improponibili vengono così assorbite senza problemi. Chomsky ha spiegato i meccanismi linguistici su cui costruiscono le favole, ma sembra averne dimenticato uno fondamentale, la sorpresa e il sogno. I punti 5 (rivolgersi alla gente come bambini) e 6 (concentrarsi sull’aspetto emozionale) delle dieci regole per il controllo sociale non spiegano un elemento importante, l’assenso e la complicità della vittima. I pubblicitari in questo sono molto avanti. Quando vuoi vendere un prodotto lo devi presentare come un sogno e non deve mancare il fattore sorpresa. Chomsky dimentica che veniamo abituati alle favole; viviamo nell’attesa del principe azzurro, dell’albero che produce monete d’oro, del paraclito o di qualcuno che si porti via nostra moglie. Attendiamo, sogniamo, e siamo disposti a pagare per una sorpresa. Siamo complici prima che vittime. Avrò letto il libro dei fratelli Grimm decine di volte e il cartone animato l’avrò visto altrettante, e sempre la mia coscienza di bambino mi faceva battere i pugni dalla rabbia. Qualche volta credo di avere anche gridato nel mezzo della proiezione, ma quant’è cretina. Oggi ne vado orgoglioso, avevo una coscienza e non lo sapevo. Andiamo con ordine: arriva una strega brutta come la fame, roba che pure il cane si nasconde sotto al tavolo e Biancaneve la fa entrare. Ecco un altro meccanismo che nasce dalla favola e viene sfruttato nella vita quotidiana, il travestimento. La vecchia è la matrigna cattiva (quella di “Specchio delle mie brame chi è la più bella del reame?”) travestita da mendicante. Il cattivo delle favole si traveste sempre; l’integrità e la coerenza sono cose da buoni. Si traveste perché la cattiveria è intenzionale, finalizzata e il resto davvero non conta. Altro elemento di distrazione è il linguaggio; la matrigna porge la mela alla fanciulla dicendo: “Roba bella, roba bella, voglio regalartene una”. Non dimentichiamolo, le favole nascono dalla lingua e si consumano nella stessa. Abbiamo la ripetizione roba bella/roba bella (come fa quell’altro cacciaballe che da vent’anni ci dice che la promozione è solo per oggi e tutte le volte gli crediamo) e la parola regalo. Ripetendo abituiamo il possibile acquirente al prodotto, lo portiamo nella favola; il regalo macina nelle emozioni scavalcando i processi adulti della riflessione. Le emozioni toccano il desiderio e non c’è ragione che riesca a fronteggiarlo. Il regalo distrae (primo elemento della distrazione sociale in Chomsky), distoglie da altro, serve a: “Sviare l’attenzione dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali”. La parola regalo viene da rex: re, regio, regale, e attraverso lo spagnolo regalo = dono al re, regalare = rendere omaggio al re. Ci sentiamo principi questo è il problema e vogliamo sorprese. Dal latino superprehendere; prendere da sopra, alle spalle. Poi non lamentiamoci se ce lo mettono nel culo.
MEMORIE DI UNO SMEMORATO (dai FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO)
MEMORIE DI UNO SMEMORATO
La mia assenza della memoria era assenza di dio. Adesso erano tranquilli, avevo anche io la mia croce e potevo esercitare la sua volontà, non la mia. Mi avevano dato una guarigione di stato. (Memorie di un ex smemorato).
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Un giorno cominciai a ricordare e mi dimisero. La libertà i medici la chiamano dimissione. Questioni semantiche, ma detta così fa meno paura. Ricostruendo l’Io, mi avevano finalmente dotato di uno di quei cosi elettronici che controlla i detenuti fuori dalla galera, unica libertà concessa dallo stato. Dicevano che ero guarito perché avevo un passato, ma il mio disgusto cresceva. Si erano presi cura di ciò che a loro faceva paura, non della malattia.
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Mi chiusero in una cella con un altro smemorato. Vi farete compagnia, dicevano. Come compagno di disavventura mi avevano dato uno affetto da TGA, quindi un altro vuoto, anche più grande del mio. Smarriva il presente con la frequenza di un battito di ciglia. La cosa divertente era che si presentava ogni dieci minuti. Lo invidiavo per quel suo nascere e morire ad ogni istante.
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Certe malattie sono un problema più per il medico che per il malato. Così per non deluderlo fingevo una sofferenza che non provavo.
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Più di tutto mi impegnavo a non ricordare il mio nome, lo vivevo come un marchio d’infamia. Ho sempre avuto l’immagine di una scolaresca all’appello ogni volta che mi sentivo chiamare, e sempre mi veniva di rispondere “assente!”. Non ero smemorato, mi ero assentato.
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Avevo dimenticato tutto. Non solo dio, che non avevo mai incontrato. Ero come uno straniero in una terra sconosciuta. Guardavo la mia gente, quella che mi avevano fatto credere fosse a me simile per abitudini e cultura, arraffare, delinquere anche nelle piccole cose, per poi smoccolare veleno contro chi la amministrava. Non era amnesia, era disgusto per questi esseri dissimili e difformi. Scordavo finalmente le mie radici e la nausea che mi procuravano.
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L’uni-verso è una strada piena di divieti di accesso, con quei cartelli blu e freccia bianca che obbligano a viaggiare in una sola direzione. Io avevo preso la vita contromano. La chiamavano amnesia e invece soffrivo di una banale apostasia.
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La violenza comincia quando al nostro Io viene dato un nome. Col nome diventiamo una persona e nello specifico quella e non un’altra persona. Come individui ci rendono appunto individuabili. Ho provato a spiegarlo al funzionario che era venuto a censirmi, che sono e non sono, di incasellarmi come un essere in transizione, incerto, instabile se preferiva. Ma pare che lo stato non riconosca la categoria. L’impiegato ragionava col principio di identità. E io un’identità proprio non l’avevo.
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Quante piccole improbabili identità. L’identità presuppone un Io sempre uguale a se stesso. Ma io non sono sempre uguale, io divengo.
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Mi guardavo lungamente allo specchio, specie al mattino. E non mi riconoscevo, non vedevo niente alle spalle di quell’uomo, c’era solo un incomprensibile presente. Cercavo la storia, la vita in quel volto incupito come da un dolore appena sfiorato. Sembrava sgombro di tutto, anche da se stesso. Mi piaceva, per carità ma avrei dato non so cosa per un ricordo. Non avevo memoria di nessuno spasmo; avevo davanti il nulla e, questo sì, che mi spaventava.
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Ogni volta che vado all’anagrafe mi prende l’ansia. La carta di identità in particolare. Ci ho messo tanto a perderla un’identità e che fa, me la ritrova un triste funzionario comunale?
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Non avevo niente, solo silenzio. Il vuoto nella memoria acuiva il mio sentirmi altrove. Ero come su un’isola, ed ero solo. Non mi lagnavo, ondeggiavo anzi su una zattera piuttosto comoda. Il vociare della gente, quello sì che mi infastidiva, pareva un inutile bla bla. Ci ridevo pure delle facce che vedevo, con quelle cupe espressioni di finta allegria. Come quando in un film sfasi le immagini dalle parole; una cosa comica appunto. Sentivo di bambini che esaurivano mamme già esaurite, uomini alle prese con disturbi ordinari, che sono fastidiosi proprio a causa dell’abitudine e dell’immancabile ripresentarsi a ogni maledetto giorno. Cosicché manco la notte li lasciavano riposare, pensavo, in attesa di vivere la stessa giornata, sempre e solo quella. Ecco il vantaggio di essere rimasto senza memoria, ogni giorno per me era comunque nuovo. La chiamavo vita questa cosa e per loro era invece una malattia.
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Non ricordavo niente. Prima dimenticavo e basta. Le chiavi di casa, la macchina, il volto del vicino che mi ostacolava il passaggio sulle scale, con quell’alito acre e violento che rendeva sgradevole il buon giorno, chiedendomi chi davvero fosse. Poi ci ho preso gusto e la cosa ha cominciato pure a piacermi. Entravo in una stanza, in un locale e non riconoscevo le pareti, le facce, le voci, gli odori. Era come ricominciare ogni giorno, libero dai tegumenti familiari. La sensazione di vuoto però la ricordo, e cercavo di tornare sui miei passi, interrogandomi su quante volte ero passato per quella via. Ma anche la pace che quell’assenza mi dava. Mi sentivo bene, alla fine. Senza vincoli, amici, colleghi, costrizioni parentali. E vivevo, per la prima volta, con una leggerezza che non conoscevo. Avevo lasciato il mio Io da qualche parte e non lo cercavo e non volevo trovarlo. Ero felice, il resto non m’importava.
DAI FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO
(Per una scelta stilistica e culturale scrivo “Dio” con la minuscola; lo dico perché qualcuno mi ha rimproverato, ricordando che le elementari le ho fatte anche io G. B.)
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