La vita di noi buonisti è faticosa. Dispendiosa anche: compriamo Rolex e maglioncini in cachemire; a volte ipotechiamo la casa, perché la barca magari non serve, però è un cliché e dobbiamo averla. Per mantenere lo status di radical chic ci sottoponiamo ad allenamenti sfiancanti, trenta riflessioni al giorno: leggiamo Adorno più che Marx e non guardiamo la televisione. Dobbiamo tenere pulito l’appartamento, perché i profughi che troviamo in strada li portiamo a casa nostra. Paghiamo le tasse, ma solo per un fatto estetico, per carità. Impopolari, ci guardano con disprezzo quando raccogliamo le deiezioni del cane. Emotivamente coinvolti se qualcuno annega in mare, anche se non lo conosciamo; coste libiche o italiche, non fa differenza. Ci esprimiamo confidando in un italiano decoroso, perché c’è una demarcazione tra la parola e il rutto. A volte mi piacerebbe essere un cattivista; deve essere bello parlare alla cazzo di cane, dissertare di tronisti e commuoversi per i casi umani raccontati dalla D’Urso. Deve essere bello informarsi con Studio Aperto. Pronunciare a voce alta la sentenza ricchione o negro, sparare a un clandestino (che tanto lo sappiamo: sono tutti clandestini.) È bello fare i duri coi deboli, spietati e feroci ma col crocifisso in mano. Frequentare i rave party con Salvini; deve essere bello essere Salvini. Non rispondere di cinquanta milioni di euro, trombarsi la Isoardi, difendere la famiglia tradizionale dopo aver figliato altrove. Mi sto allenando però. E come un mantra ogni mattina evoco lo slogan del Capitano: “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. Deve essere bello non demarcare il confine tra un pensiero e una scoreggia.
Categoria: storie
MI FAI MORIRE DAL RIDERE
Gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso d’amore non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; tuttavia c’è un altro fenomeno sempre presente nelle relazioni amorose, la risata. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere, definendolo con il neologismo Marxlust. La risata come maschera o distrazione rimanda al significato del potere attraverso un meccanismo che preserva la vita privata a detrimento di quella pubblica; provoca un cortocircuito nel senso, un’assenza di significato come rimando al reale) perché le sue intenzioni primarie sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Il riso non è il motto di spirito di Freud e non serve solo per una scarica pulsionale; nasce e si risolve piuttosto nella manque-à-être, rimane nelle fenditure del significato dando accesso non tanto all’Altro grande, ma risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della relazione in quanto trabocca dal discorso e richiama all’assenza di un fondamento nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, strappandolo dall’ordine abituale lo svuotiamo di senso per consegnarlo al nulla. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. La relazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità, non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non unisce l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata sacrifica l’altro, non lo conferma: “Il riso comune … è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio; non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse … Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve” (Bataille). Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem. XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo possibile di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, eterogeneo a quello della parola. La materia della pulsione non è quella della parola; è fatta di un composto simbolico, mentre la pulsione ha una natura erogena. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse e si muovesse il senso, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: quando si parla qualcosa gode. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo si parla per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, modulazioni, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua.
Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Per quanto l’uomo neghi la natura, essa ricompare nelle deiezioni, in un gesto che non è solo negazione dialettica, perché nella risata i termini non sono superati come nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine concettuale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica (se non come motto di spirito), lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là dell’inconscio, trascina nel luogo in cui si apre una ferita che non può rimarginarsi. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia non canalizzabile. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo e attuale sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io, che è una radicale inesorabile erosione della vita. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio, rendendolo assimilabile. E’ una voce che parla dall’infinito prima che dall’inconscio. Più che Freud o Lacan è stato Nietzsche a dare una disincantata spiegazione della risata, in quanto terapia contro la veste restrittiva della moralità logica; una retrocessione dalla ragione così come scorre nel discorso. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito.
Frammenti di un monologo amoroso
LA POLITICA DELLE MANCE
E’ passato un anno dal Referendum Costituzionale, gli assetti politici sono cambiati, il vento della destra xenofoba e filonazista soffia in Europa, ma in Italia sembra che nulla sia accaduto; le strategie sono quelle, le facce le stesse e le promesse anche. Non andiamo al di là degli 80 euro, elemosinati al popolo dopo l’esproprio dello Stato Sociale. La politica delle mance, quella di meglio una pizza in più che niente, non è realismo politico. E’ l’ultimo affronto a un Paese depresso, umiliato, ferito nella dignità. Lo dico agli amici del PD, basta davvero con la politica del pezzo di pane, del voto di scambio, degli impegni e delle parole non mantenute. Scendete nelle piazze, ascoltate, parlate; evitate i proclami, i tweet, le coferenze stampa. La stampa amica e amica non tanto, perché non vi ha aiutato a capire, a sentire, a ragionare. Basta con una politica ripiegata nel quotidiano, la vita è molto di più e voi non siete amministratori di condominio, non siete pagati per quello, ma per proporre una filosofia dell’esistenza. Una cosa è evidente dal voto referendario, i sì che avete preso sono composti al 60% da pensionati. Capite? I giovani, il futuro che oggi state svendendo non li avete convinti. E non bastano i post, l’invasione dei social, i gruppi su Facebook a fare loro cambiare idea; sono meglio di quanto crediate. Basta con la politica del pannolone, che giusto quella ancora vi crede, i ragazzi si aspettano qualcosa di più e quel qualcosa in questi anni gliel’avete tolta, a cominciare da come avete trattato il lavoro; vogliono sognare e sognare non vuol dire promettere; ve lo ricordate cos’è un sogno amici del PD? L’avete soffocato nel doppiopetto, l’abito di regime, sotto le barbette incolte, i sorrisi furbi, le strette di mano nei circoli milardari, piuttosto che nelle piazze. Non credo capiate, non potete e non volete; dopo la scoppola referendaria ancora parlate di legge di bilancio, di stabilità, di establiment come se nulla fosse accaduto, anche là nel palazzo. Se vi fa piacere dateci pure dell’accozzaglia o dei gufi, come facevano i signori con i giullari di corte. L’ennesima meschinità di un potere al declino. Era praticamente impossibile fare peggio di Berlusconi, ma siete riusciti anche in quello. Parole inutili, il Paese lo guidate così, non sapete fare altrimenti. Intanto l’80% dei giovani vi ha voltato le spalle e vi rimane l’elettorato del catetere. Il rammarico è tanto e la rabbia pure; e seppure è vero che qualcuno abbia remato contro, resta il fatto che una giovane classe dirigente (Serracchiani, Orfini, Renzi stesso) che qualche attesa l’aveva suscitata, ha portato il partito di Berlinguer dalla politica delle idee a quella delle fritture di pesce, promettendo spiccioli in cambio di voti.
LE FLATULENZE DI NONNA
Ieri ho ribloggato sbadatamente l’articolo di GengisJokerBaneKhan. Sbadatamente perché non era voluto; per sopraggiunti limiti di età non posso più discutere di sesso orale. L’argomento mi affascina, intendiamoci, sul piano ovviamente filosofico. Parlare di sesso in maniera autobiografica è una cosa da giovani virgulti e qua quel poco che è sopravvissuto lo dobbiamo oramai al Sildenafil; il rischio è di passare per un adolescente di ritorno, o un vecchio satiro che non si rassegna all’entropia della carne. Ci ho però pensato sopra e ho scritto questa cosa; l’articolo è diviso in tre parti: cose che non puoi più fare in età geriatrica; perché è bello essere anziani; le flatulenze quali ultima sublimazione della sessualità.
COSE CHE NON PUOI FARE IN ETA’ GERIATRICA
Gli ostacoli sono di ordine psicologico e somatico; morali no, gli anziani sono infinitamente più licenziosi dei ragazzi. Il Diavolo non li vuole più e allora non rimane che pontificare. Non puoi guardare con interesse una fanciulla o approcciarla come farebbe un giovane, il rischio è che la stessa inveisca contro il vegliardo laido e sporcaccione, esponendolo al diniego e alla riprovazione dei passanti. Vecchio porco, ricoglionito, ha un piede nella fossa ma vuole esumare la mummia dal pannolone, se Renzi non gli dava gli 80 euro era meglio (congiuntivi a parte il senso non cambia). Insomma ci siamo capiti e non è bello. L’anziano non può rincorrere una giovane per strada, l’osteoporosi, l’artrosi, la sciatalgia e spesso l’enuresi non glielo consentono. Qualcuno poi ha l’enfisema, difficile starle al passo. Il bacio diventa complicato con la protesi dentaria e sa anche di Kukindent; le mani causa artrite si serrano ai fianchi come tagliole e ci vuole molta fantasia per assimilarle alle carezze; l’epidermide a pelle di daino non scivola su quella levigata; le resurrezioni sono rare e si fanno sempre più insoddisfacenti, il vecchio prima che a una disfatta si espone al ridicolo: non sa neanche lui se quello che sente nel cuore è amore o uno scompenso atriale. Se è un anziano a dire: mi fai morire, ebbene è meglio prenderlo in parola.
PERCHE’ E’ BELLO (TUTTO SOMMATO) ESSERE ANZIANI
Una ragione si deve pur trovarla per andare avanti, perché ai vecchi rode proprio il culo. Quando qualche neurone sopravvive ancora, vedono bene che mentre loro fanno briscola al circolo degli ottuagenari, i nipoti si accompagnano con ninfette che provocano le rigidità a tutti note. Alla fine il risentimento è abbastanza naturale; vero è che la natura sia diventata impietosa e consente loro di perpetuare il rancore oltre ai limiti fisiologici. Una volta la fine sopraggiungeva prima ancora del deterioramento organico e mentale; le cose sono però cambiate. Malauguratamente o per fortuna, fate voi. L’anziano gioca a bocce o a poppe (come ho sentito dire), dal filosofo Karl Poppe; è un epistemologo per erotica assonanza. Non esce la sera ed è libero di farlo, nessuno gli chiederà mai se sta male, se la ragazza lo ha lasciato, se ha problemi a socializzare. I vecchi stanno a casa e si sa. Guardare i cantieri è uno sport eccitante e travolgente, gli sbarbati non possono capire. Il gusto di dare buoni consigli arriva con l’età e il giudizio (lapidario ed è il caso di dirlo) stimola un rigurgito di piacere: ai miei tempi ! Con quel che lascia intendere la sentenza: non come voi debosciati e drogati; finocchi qualche volta (perché tanto i giovani sono sempre e comunque attratti dalle aberrazioni: e per il vetusto vuol dire tanta droga e poca figa). La pensione, vabbè lasciamo stare, con quella non ci campano e non infierisco. Il privilegio della badante qualcuno però ce l’ha e l’amore al catetere è un’esperienza unica e irripetibile (anagraficamente parlando). Rutto libero e flatulenze varie, il corpo che si decompone espelle tossine aeriformi; rispetto ai giovani gli anziani possono concedersi qualche disinvoltura lasciandosi andare ai piccoli legittimi godimenti del corpo in decadenza. Ma questo è appunto il prossimo argomento, che è anche un caro dolce ricordo di nonna Cecilia. Sorda come una campana, che rombava tranquillamente per casa le commoventi esternazioni. Inconsapevole del fatto che i parenti ci sentivano invece benissimo.
LE FLATULENZE DI NONNA
Nonna scoreggiava. Nella vita o ti scoraggi o scoreggi; c’è un filo diretto tra la visione del mondo e quel che avviene nell’epigastrio; al di là delle diverse profondità che vanno dal pensiero (più in superficie) alle emozioni (che si radicano piuttosto nella paleocorteccia) quello che conta viene concentrato nella pancia. C’è chi trattiene, gli idealisti e i metafisici per intenderci che pongono una barriera intellettuale tra le cose, e chi come nonna (che era fenomenologa prima ancora che materialista) le avvicina senza sovrastrutture linguistiche o formali. Le cose si possono pensare o vivere, nonna di più a quanto pare le fagocitava. Di per sé già la parola comprensione rimanda alle mani e al corpo che afferrando qualcosa conosce; nella fagocitazione c’è qualcosa di ancora più profondo, la masticazione del pensiero che diventa appunto una ruminazione, con quel che ne consegue sul piano fisiologico. Perché nonna ruttava, seppure arrossendo al momento dell’emissione di quella gutturale il cui suono è pur sempre sgradevole. Faceva brup e qualcosa di simile al raglio di un asino, poi si metteva la mano davanti alla bocca (poi, perché le mani non erano sincronizzate e i movimenti si facevano lenti con gli anni) quasi a scusarsi per essersi lasciata andare ai bisogni ineluttabili. Ed è proprio questo il punto, si lasciava andare verso le cose come se Platone (o Agostino) non fosse esistito. Le idee sono pur sempre portate da intellettuali e il suo era uno stomaco contadino abituato al poco in tavola; l’ho vista inorridire davanti a antipasti raffinati ma non sostanziosi. Le idee appunto che mettono fame e non saziano mai. Nonna non aveva quella forma di analità intellettuale, non tratteneva; si limitava alla sospensione del giudizio quando poteva e se proprio non riusciva evocava dall’intimità ciò che aveva assorbito. Anche i pensieri, che non per niente sono fatti di aria. Non c’è più nonna, era un’altra epoché la sua; con poche certezze, nessuna verità, ma capace di avvicinare le cose nella loro superficiale e sensuale profondità.
TWO BEER OR NOT TWO BEER
Questo non è un articolo, non è una raccolta di aforismi, non ha la solidità di un’inchiesta o lo scrupolo della riflessione. A volte le parole escono così, senza pensarci e capita a tutti. A me insolitamente spesso, ma credo dipenda da un eccesso alcolico. Bipolare? Non so. Di sicuro il vino ammorbidisce quella cosa che chiamiamo identità. Diciamo che sono disponibile anche nella versione sobria. Ma vi consiglio fortemente l’altra.
Appartengo a quelli che dicono “smetto quando voglio” e poi non vogliono. Ci dovrà pur essere un paradiso esclusivo per queste anime nobili che s’impegnano con una promessa e la mantengono.
D.SOC/62
Il giudizio nasce dalla sobrietà, richiede una mente lucida e un cuore astemio. Chi giudica è freddo, indifferente, manca di una reale passione per la vita. E spesso è anche male informato.
D.SOC/50
Beviamo come se non ci fosse un domani, questo ha di buono il vino: rende attuale e legittimo quello che non lo è. Il problema è che il domani arriva e le foto rimangono.
D.SOC/51
Il malinconico è angosciato dal bicchiere vuoto, non lo tocca, osserva, non beve e lo lascia là. Manca dello spirito religioso che porta svuotarlo e della fede in qualcuno che comunque glielo riempia. L’empietà dell’astemio ha il tono dell’apostasia, ma anche della disperazione.
D.SOC/52
Ci sono quelli che credono alla reincarnazione, alcuni alla trasformazione, altri ancora alla transustanziazione. Per quanto mi riguarda mi fermo alla fermentazione, a un Dio immanente ad alta gradazione. La mia metafisica è tutta qua e scorre nelle vie epatobiliari.
D.SOC/53
La moderazione che chiamiamo virtù è uno dei nomi con cui temperiamo i bisogni. E’ un fatto estetico e sociale che dà una regola al piacere, misurando il bicchiere, contenendo l’euforia.
D.SOC/55
E’ sufficiente un grado di moralità per mantenersi astemi, ma ci vuole una forte gradazione alcolica per sentirsi liberi.
D.SOC/58
L’alcolista è un borderline; non barcolla, il passo instabile è quello di un uomo che cammina sulla linea che separa la normalità dalla follia. E l’alcolista ha la lucidità di non cadere nella normalità, ma anche la paura di sprofondare nella follia.
D.SOC/59
Il mio materialismo ha radici storiche ma non ideologiche, ha le sue ragioni nel vino. E’ un materialismo diabetico. La dialettica è cosa da uomini mansueti e con la glicemia in ordine, a me invece rode proprio il culo.
D.SOC/60
Quelli che hanno paura di ubriacarsi sono gli stessi che temono di innamorarsi, di difendere un’dea, di farsi carico di una passione. Sono quelli che dicono “solo un dito” quando qualcuno versa loro del vino. Misurano la vita con quel dito e giusto quello assaggiano.
D.SOC/61
Qualcuno sarà seppellito e tornerà polvere, qualcun altro cremato e ridiventerà cenere. Per quel che mi riguarda penso proprio che mi imbottiglieranno.
D.SOC/63
Viviamo in un’epoca contorta, temiamo più l’etilometro che un test di gravidanza.
D.SOC/64
La cirrosi non è una malattia, ma un traguardo. Citaz.
D.SOC/65
Le tre regole della pace: un politico deve nascondere al popolo la verità, ai giornali è richiesto di trascurarla e un uomo non deve mai dire a sua moglie che è ingrassata.
D.SOC/70
La verità è impietosa. La esercitiamo col cinismo e la crudeltà dell’uomo che ha inventato la bilancia.
D.SOC/71
La verità è la virtù dei pazzi, un bisogno dei bambini e una necessità per quelli che soffrono di amnesia.
D.SOC/72
La verità è l’alibi dei bugiardi.
D.SOC/73
La verità è la deformazione degli uomini predisposti alla gastrite.
D.SOC/74
La famiglia è il luogo nel quale un uomo finisce di penare e comincia a brontolare.
D.SOC/79
Un buon padre di famiglia è un uomo con una moglie fedele, figli responsabili, una casa onorata, lo stipendio fisso e che nonostante queste sventure resiste al bisogno di suicidarsi.
D.SOC/80
Un uomo si sposa quando è stanco di trattenere la pancia dentro. E infatti diciamo che è spossato (o che lo abbiamo spossato).
D.SOC/81
E’ amore se quando sei ubriaco ricordi non solo come si chiama, ma l’indirizzo di casa, barcollando fino alla sua porta prima di andare in coma etilico.
D.SOC/84
Mi piacciono le persone che nonostante tutto non finiscono mai di volersi bere.
D.SOC/85
L’astemio è un ateo che ha paura di confrontarsi col silenzio del suo Dio.
D.SOC/90
L’alcol attenua i postumi della sobrietà.
D.SOC/91
Le persone non sono indifferenti o prive di un carattere sociale. Spesso mancano di quella disposizione dello spirito che è il vino: più che aride sono a basso contenuto alcolico.
D.SOC/93
Sono fiducioso, il bere trionfa sempre sul male.
D.SOC/94
Matrimoni e governi durano fin tanto che gli uomini sono ubriachi.
D.SOC/96
Se dovessi diventare come Sgarbi, vi prego, sopprimetemi.
D.SOC/97
Il vino ha la proprietà di farmi vedere belle le persone, amplifica le emozioni addolcendole, rende gradevole il loro cattivo gusto. Il mio spirito sociale (e la mia compassione) funziona fin tanto che sono ubriaco.
D.SOC/98
Vorrei contestare a quelli che mi rimproverano di non servire a niente, che posso comunque essere usato come cattivo esempio.
D.SOC/101
La letargia è il carattere degli uomini troppo qualificati per alzarsi dal letto e interagire con individui che sono sfuggiti per puro caso alla selezione naturale.
D.SOC/104
La civiltà è quella cosa che spinge un uomo mansueto ad abbandonare il letto e lo fa diventare selvaggio nel traffico.
D.SOC/105
Il mio scetticismo è radicale, spinto fino alla letargia; ho lo stato d’animo di uno che si sveglia con il desiderio di darsi alla pazza noia.
D.SOC/113
Contrariamente a quel che si pensa, le idee rivoluzionarie non dipendono da colpi di genio o di testa. Il più delle volte vengono dai colpi di sonno.
D.SOC/115
Un uomo realmente rivoluzionario è quello che ha un sogno e la cattiva intenzione di usarlo.
D.SOC/116
Ma a quelli che si alzano al mattino hanno sequestrato la famiglia?
D.SOC/117
Odio quelli che chiedono: che fai nella vita? Perché, devo fare qualcosa?
D.SOC/118
L’ozio non è un vizio, ma uno stile di vita.
D.SOC/119
Sono un italiano medio, anche io soffro di inerzia. Ma un anno o l’altro cambio vita.
D.SOC/120
CHIEDO LA MANO DI SUA FIGLIA (E NO, O TE LA PRENDI TUTTA O NIENTE)
Nell’innamoramento la parte indica il tutto o il tutto la parte; si dice della donna che è tutta un sorriso più che ha un sorriso, le braccia diventano un abbraccio e il cuore non è un organo, ma l’immagine dell’altro ricomposto per metonimia. Sei tutta un profumo, per sinestesia implica il coinvolgimento totale del soggetto attivo nella percezione. Funziona così, le parole ordinano e non scompongono, il corpo perde la sua frammentazione e si ricompone per sineddoche nella lingua, ma non solo. L’amore chiede unità, la parola diventa qualcosa di organico che riordina e ricostruisce. L’uso della metafora è più raro, l’immagine della rosa rinvia per figurazione all’organo femminile ma sposta i contenuti altrove, come un’immagine dell’immagine. E’ la negazione del principio di identità, rimanda continuamente a qualcos’altro, a un terzo escluso. La metafora esclude e appunto non include. Il dialogo amoroso circoscrive nel qua ora e non sposta, non richiede immagini. L’altro è l’altro, chi-ama e chia-mando identifica l’altro nell’identità e nel nome, e non in qualcosa di simile o verosimile. E’ un neutro, ma solo in quanto non è imparziale, non annulla la differenza e costituisce dalla continuità il proprio particolare. Barthes parla della possibilità di bloccare la prevaricazione della significazione solo ponendosi al di fuori del linguaggio, in un incidente nella lingua, nel trauma piuttosto che nella trama del discorso. L’oggetto in sé, l’amato, non si può rinvenire nell’ordine dell’enunciazione ma nella sua frattura semantica, nel feticismo per la parola. La denotazione pura (se esiste) non può essere trovata nell’insignificazione, nel neutro, nell’oggettivo. “Il trauma sospende il linguaggio e blocca la significazione” (Barthes). Il grado zero dell’immagine prodotto da questa parola inopportuna si trova nell’assenza di intenzionalità, come nelle fotografie scioccanti, dove l’evidenza irrompe al di là della costruzione estetica e dell’ordine dei significati. Nell’ottuso che fa irruzione, incurante della connotazione ideologica della società di massa, come ciò che è al di là del collettivo immaginario. E tuttavia questo neutro nella lingua che produce immagini perturbanti “non rinvia a impressioni di grigiore, di neutralità, di indifferenza … Può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. Eludere il paradigma è un’attività ardente, che brucia” (Barthes). La metafora è un richiamo, una chiamata nella chiamata, un continuo rimandare a qualcos’altro. È un terzo che invade la scena, mette in secondo piano il corpo e trascende la sessualità, anche quando inventa una nuova forma di linguaggio. Nella metafora si sostituisce un significante con un altro, dando luogo allo stesso significato; la metonimia comporta invece la sostituzione del senso per contiguità. E’ un’abitudine ad associare due termini significandoli. Questa immagine per quanto neutra è fortemente significativa, ha i caratteri della cosa e non della rappresentazione. La forma più diffusa della metonimia è la sineddoche, in cui il tutto sta per la parte e viceversa. Mentre la metafora agisce a livello paradigmatico (frammenta e interrompe il flusso del discorso), in assenza di un temine che non compare, la metonimia si muove a livello sintagmatico (agisce per continuità tra i termini, non crea fratture), e ciò comporta un minor sforzo per la decodificazione. E’ più diretta, non pone nessuna immagine a mediare tra la parola e la cosa, tra l’Io e l’altro. La metonimia è diffusa nei meccanismi della pubblicità perché, desiderando l’oggetto associato al prodotto, siamo portati a desiderare il prodotto stesso (da cui l’abuso del corpo femminile). Questo linguaggio ha la funzione di fornire un immaginario, un luogo comune attraverso il quale, per riflesso, l’oggetto sopporta e esercita la propria intenzionalità erotica. E’ una forma di comunicazione diretta, non mediata. Il corpo dell’altro subisce la sineddoche e le rappresentazioni; per Barthes queste sono il segno dell’erotismo, e tuttavia non l’erotismo in sé, non vanno oltre i confini dell’eufemia, che fornisce una rappresentazione edulcorata dell’altro. L’erotismo si ritrova nel corpo parziale, frammentato, di cui soltanto alcune parti sono significanti. Il corpo erotico non è mai quello tutto intero; le tracce dell’erotismo vanno piuttosto ricercate nel feticismo per il particolare. E tuttavia il frammento del corpo cuore significa la totalità dell’amore, la bocca rimanda all’intero linguaggio (anche del corpo) e chiedendo la mano intendiamo sposarla tutta la fanciulla, non solo la parte. Sineddoche e metafora si muovono nell’immaginario e nel simbolico, ma nella prima sembra prevalere in quanto assenza del simbolo. Il tutto non è l’insieme delle parti, ma una ricostruzione mentale che anticipa ricomponendo il corpo e il discorso. Qualcosa di universale che non c’è se non nel particolare, il symballein (da “symballo”) mette insieme e ordina da fuori (il contrario è diabállein, che significa disunire, porre in discordia, disorganizzare), come il fondo che media tra la parola e la cosa rendendo visibile questo qualcosa. Il reale è sempre soggettivato e simbolizzato; la sineddoche lo dimostra nella sua disposizione ad astrarre la totalità dalla parte, il tutto, l’assoluto dal frammento. L’oggetto è un reale filtrato dal simbolico, se non c’è il simbolo non c’è oggetto (Lacan). E dunque, se hai intenzione di chiedere la mano della fanciulla, rammenta che il padre per sineddoche intende dartela tutta.
(Dai Frammenti di un monologo amoroso: l’amore tra l’immaginario e il reale)
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INTERVISTA / l’amore per una persona dello stesso sesso non toglie nulla alla famiglia tradizionele
intervista a A cura di Francesco Sansone
Ringraziando gli autori e i critici del Mondo Espanso
ANCHE LE PRINCIPESSE LO FANNO
E’ strano, puoi odiare all’aperto chiunque e nessuno si sorprende o storce il naso. L’odio sembra essere la regola e non stupisce. Per amare ti devi nascondere, appartare come un ladro. Eppure non rubi e non togli niente a nessuno.
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Questo libro è dedicato unicamente ai viziosi (che altri chiamano porci); voi che siete puri e casti non apritelo nemmeno: sareste capaci non solo di turbarvi ma di prenderci, come tutti gli apologeti della castità, addirittura gusto. Perversione in cui siete ineguagliabili maestri. La sua attenzione è invece rivolta a quanti sono già usi alle grette turpitudini della carne, o a chi alle grette turpitudini della carne per lo meno pensa con timorato desiderio. Se qualche dubbiosa Giovanna D’Arco volesse cercare di redimersi lo legga perciò pure, senza timore; apra ai demoni della sua anima perduta e tragga da questo blasfemo catechismo tutto il giovamento possibile. L’estasi salutare dell’apostasia. Queste lezioni d’amore sono infatti un piccolo vademecum sui godimenti della vita, un indispensabile breviaro ad uso di chi ha deciso di convertirsi. Dal basso. Di genitale in genitale nei sentieri profilattici della voluttà. Chi avverte tali mistici pruriti allora apra e legga: è già un’anima immonda. Se queste pagine saranno state capaci di salvare il testosterone dal suo quotidiano martirio io mi riterrò soddisfatto. E più che soddisfatto mi sembrerà di unirmi a voi in una rituale palingenetica orgia bacchica. Alla faccia dei roghi. Godete dunque più che potete e senza rimorso: pentimento o non pentimento l’inferno comunque vi attende. Ma godete in compagnia (anche in tre, in quattro, in venti … se credete) e mai in solitudine (che altri chiamano autoerotismo). E che questo libretto possa aiutarvi nella definitiva liberazione del piacere.
Senza tante ipocrisie: ognuno affronti il suo toro per le corna e che Pasifae lo accompagni nella discesa agli inferi. Con buona pace per i moralisti di turno (che altri chiamano rompiballe).
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IL PRINCIPE SENZA REGNO E SENZA VERITA’
IL PRINCIPE SENZA REGNO E SENZA VERITA’
Un funzionario illustrissimo mi ha chiesto cosa avrei fatto da qua a un anno. Lo voleva per iscritto. Voleva una conferma austera e fiscale. L’ho guardato: “Caro signore, non so cosa farò domani. Non posso prendere un impegno per uno che tra un anno sarà un’altra persona”. Il suo bisogno di stabilità mi ha fatto pensare ai mutui e a come la società ci mutualizzi. Dalla cassa mutua alla cassa da morto. Non ho bisogno della prima e non mi piace pensare alla seconda. Ma ci prendono la vita, questo sì, e la rendono immutabile. Non assumono filosofi all’agenzia delle entrate, è evidente. Lo stato nella sua magnanimità ha istituito una mutua della verità. Come per le malattie, ogni corpo è uguale a un altro; è incapace di distinguere, assimila. Cura le alterità e munisce appunto ognuno di una carta di identità. Chiede di identificarti con te stesso, di autocertificarti. La prima ordina nel disordine, il principio di ragione prevale su quello di realtà e l’ultima trasforma un individuo in un essere individuabile. L’individuabilità riconosce la difformità, ma la circoscrive e l’assorbe nell’affinità. Questa cosa il funzionario la chiamava verità. Ma la verità non mi appartiene e peggio ancora non le appartengo. Non ho quel senso della proprietà che è la continuità. Sono un principe che non ha regno, privo di casato e senza blasone. Non cammino per luoghi comuni e per quanto riconosca nobiltà alla giustizia faccio fatica ad assimilarla a qualcosa che si chiama diritto, come se avesse un principio e una fine. Non misuro il tempo secondo il prima e il poi, e non discrimino tra vero e falso. Vivo il presente e mi piace così tanto che ogni volta dico “e poi?”. Quella sintesi di attualità che definiamo vita davvero non mi basta mai. Mi ha rimproverato, il funzionario: “Lei vive nelle favole!”. Caro signore dove vuole che viva un principe, nel suo angusto domicilio (fiscale)?
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
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