Nelle favole i significanti abitano la narrazione, s’impadroniscono e modificano il racconto, identificano e contestualizzano i personaggi, prevalicano la scena. Il principe non ha un nome e la principessa è solo temporaneamente imprigionata nel corpo di una fanciulla popolare. L’atto precede la potenza e Cenerentola era di sangue blu, anche se non lo sapeva. Difficile trovare la regalità in ambienti degradati, ma nelle favole tutto è possibile. Il tutto prevale sulla parte, svilendo però i protagonisti in una metonimia che annulla le identità. L’identità si vanifica nei processi di identificazione superiori fino ad annullarsi. Svuotata la relazione di una reale affettività e privando l’altro di una realtà ontologica, predomina il significante regale che passa da un corpo all’altro, al di là delle differenze. Non c’è alterità, la domanda si restringe in una solitudine priva di desiderio e la richiesta d’amore è mediata da un eccesso che ordina la scena. In un tale campo privo di un (reale appunto) scambio affettivo non è più il piacere, ma il potere, l’idea, il blasone a passare da un corpo all’altro. Quello che è regale è anche razionale: cenere siamo ma Cenerentola diventiamo.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
IL REALE A PALAZZO
C’era e una volta. In principio della favola c’è il verbo, l’azione precede e costruisce la storia. Soggetto e predicato seguono come fossero una cosa sola. Il principe fluisce nella principessa e la sintesi si completa a palazzo. L’aufheben supera e mantiene la negazione della negazione. Il positivo si riafferma nel racconto come qualcosa non più di astratto o intellettuale, ma concreto e razionale; la ragione ordina gli opposti sintetizzandoli, mentre l’intelletto viene isolato dal processo negando l’opposizione. In sostanza: non è dato sapere in che modo il blasonato si unisca alla fanciulla, ma c’è da supporre che la sintesi avvenga in maniera ortodossa. La popolana supera e sublima le origini, il principe ritorna a palazzo, appunto reale. E vissero felici e contenti.
(da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
I MONOLOGHI DI BIANCANEVE
L’amore è fatto di favole e parole. La favola prende il sopravvento e il lupo continua a non essere reale ma lo diventa se c’è chi te lo racconta. L’amore è una storia (una storia appunto d’amore) e le storie, come le favole, sono fatte di parole.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
CHIEDO LA MANO DI SUA FIGLIA (E NO, O TE LA PRENDI TUTTA O NIENTE!)
Nell’innamoramento la parte indica il tutto o il tutto la parte; si dice della donna che è tutta un sorriso più che ha un sorriso, le braccia diventano un abbraccio e il cuore non è un organo, ma l’immagine dell’altro ricomposto per metonimia. Sei tutta un profumo, per sinestesia implica il coinvolgimento totale del soggetto attivo nella percezione. Funziona così, le parole ordinano e non scompongono, il corpo perde la sua frammentazione e si ricompone per sineddoche nella lingua, ma non solo. L’amore chiede unità, la parola diventa qualcosa di organico che riordina e ricostruisce. L’uso della metafora è più raro, l’immagine della rosa rinvia per figurazione all’organo femminile ma sposta i contenuti altrove, come un’immagine dell’immagine. E’ la negazione del principio di identità, rimanda continuamente a qualcos’altro, a un terzo escluso. La metafora esclude e appunto non include. Il dialogo amoroso circoscrive nel qua ora e non sposta, non richiede immagini. L’altro è l’altro, chi-ama e chia-mando identifica l’altro nell’identità e nel nome, e non in qualcosa di simile o verosimile. E’ un neutro, ma solo in quanto non è imparziale, non annulla la differenza e costituisce dalla continuità il proprio particolare. Barthes parla della possibilità di bloccare la prevaricazione della significazione solo ponendosi al di fuori del linguaggio, in un incidente nella lingua, nel trauma piuttosto che nella trama del discorso. L’oggetto in sé, l’amato, non si può rinvenire nell’ordine dell’enunciazione ma nella sua frattura semantica, nel feticismo per la parola. La denotazione pura (se esiste) non può essere trovata nell’insignificazione, nel neutro, nell’oggettivo. “Il trauma sospende il linguaggio e blocca la significazione” (Barthes). Il grado zero dell’immagine prodotto da questa parola inopportuna si trova nell’assenza di intenzionalità, come nelle fotografie scioccanti, dove l’evidenza irrompe al di là della costruzione estetica e dell’ordine dei significati. Nell’ottuso che fa irruzione, incurante della connotazione ideologica della società di massa, come ciò che è al di là del collettivo immaginario. E tuttavia questo neutro nella lingua che produce immagini perturbanti “non rinvia a impressioni di grigiore, di neutralità, di indifferenza … Può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. Eludere il paradigma è un’attività ardente, che brucia” (Barthes). La metafora è un richiamo, una chiamata nella chiamata, un continuo rimandare a qualcos’altro. È un terzo che invade la scena, mette in secondo piano il corpo e trascende la sessualità, anche quando inventa una nuova forma di linguaggio. Nella metafora si sostituisce un significante con un altro, dando luogo allo stesso significato; la metonimia comporta invece la sostituzione del senso per contiguità. E’ un’abitudine ad associare due termini significandoli. Questa immagine per quanto neutra è fortemente significativa, ha i caratteri della cosa e non della rappresentazione. La forma più diffusa della metonimia è la sineddoche, in cui il tutto sta per la parte e viceversa. Mentre la metafora agisce a livello paradigmatico (frammenta e interrompe il flusso del discorso), in assenza di un temine che non compare, la metonimia si muove a livello sintagmatico (agisce per continuità tra i termini, non crea fratture), e ciò comporta un minor sforzo per la decodificazione. E’ più diretta, non pone nessuna immagine a mediare tra la parola e la cosa, tra l’Io e l’altro. La metonimia è diffusa nei meccanismi della pubblicità perché, desiderando l’oggetto associato al prodotto, siamo portati a desiderare il prodotto stesso (da cui l’abuso del corpo femminile). Questo linguaggio ha la funzione di fornire un immaginario, un luogo comune attraverso il quale, per riflesso, l’oggetto sopporta e esercita la propria intenzionalità erotica. E’ una forma di comunicazione diretta, non mediata. Il corpo dell’altro subisce la sineddoche e le rappresentazioni; per Barthes queste sono il segno dell’erotismo, e tuttavia non l’erotismo in sé, non vanno oltre i confini dell’eufemia, che fornisce una rappresentazione edulcorata dell’altro. L’erotismo si ritrova nel corpo parziale, frammentato, di cui soltanto alcune parti sono significanti. Il corpo erotico non è mai quello tutto intero; le tracce dell’erotismo vanno piuttosto ricercate nel feticismo per il particolare. E tuttavia il frammento del corpo cuore significa la totalità dell’amore, la bocca rimanda all’intero linguaggio (anche del corpo) e chiedendo la mano intendiamo sposarla tutta la fanciulla, non solo la parte. Sineddoche e metafora si muovono nell’immaginario e nel simbolico, ma nella prima sembra prevalere in quanto assenza del simbolo. Il tutto non è l’insieme delle parti, ma una ricostruzione mentale che anticipa ricomponendo il corpo e il discorso. Qualcosa di universale che non c’è se non nel particolare, il symballein (da “symballo”) mette insieme e ordina da fuori (il contrario è diabállein, che significa disunire, porre in discordia, disorganizzare), come il fondo che media tra la parola e la cosa rendendo visibile questo qualcosa. Il reale è sempre soggettivato e simbolizzato; la sineddoche lo dimostra nella sua disposizione ad astrarre la totalità dalla parte, il tutto, l’assoluto dal frammento. L’oggetto è un reale filtrato dal simbolico, se non c’è il simbolo non c’è oggetto (Lacan). E dunque, se hai intenzione di chiedere la mano della fanciulla, rammenta che il padre per sineddoche intende dartela tutta.
PRINCIPI E PRINCIPESSE
Le favole cominciano (quasi) sempre con lei. L’uomo, il maschio, l’altolocato compare sulla scena solo dopo che il racconto si è dilungato sulle sventure della fanciulla. Figura essenziale, quella del principe, eppure marginale ai fini della narrazione. Nella favola questo essere etereo, inesistente (non ha un nome, è sempre e solo un blasonato), si definisce per privazione; la sua sostanza è concentrata nella presenza o assenza di un altro essere a lui affine ma difforme (per sesso prima che per ceto). Non è diverso da quel che accade nella vita. La consistenza è femminile, i principi compaiono nella storia ma sono destinati alla scomparsa. Ricordo mia madre, che si stupiva del fatto che tutte le sue le amiche fossero rimaste vedove meno che lei. Non so se ve ne siete accorti: moriamo solo noi. Quello che l’uomo è, e che lo significa dandogli un senso, non gli appartiene. Se ha il blasone è in funzione della protagonista. Come nella teologia negativa, nella quale si dice appunto che dio non c’è, eppure esiste. Con mille buon ragioni, per carità. Però poi non stupiamoci se questo essere inconsistente la sera scende a comprare le sigarette, ma si ferma col paggetto di corte. E proprio come nelle favole il principe diventa sempre più una principessa.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
IL LUPO E LE FOCACCE
Non abbiamo che una versione condita delle favole, come certi piatti delle mamme che insaporiscono le verdure per renderle appetibili ai bambini. Quelle originali hanno altri contenuti e la narrazione non è proprio da minori. il lupo mangia la nonna e non c’è il lieto fine nei racconti più antichi. Le favole, pur nascendo in contesti popolari venivano scritte da signori aristocratici ed erano rivolte al popolo ignorante per farlo fantasticare. A mia mamma quando lamentava la fame, la nonna non dava il pane (che era conservato per la cena), raccontava una storia. Il racconto forse non saziava, ma rendeva sopportabile l’attesa. Come si dice: focacce et circenses. Nella versione di Charles Perrault la bimba viene mangiata dal lupo e la storia finisce così. Il lieto fine era una cosa da signori; i protagonisti magari vissero felici e contenti, ma da principi e nel palazzo. Nelle edizioni più antiche il lupo-nonna offre a Cappuccetto Rosso un piatto a base dei resti dell’ottuagenaria; in altre ancora a contenuto equivoco, il lupo chiede alla bimba di spogliarsi e di mettersi a letto con lui. Nelle favole come nella vita il cattivo cucina sempre la verità e la cottura aiuta a digerire quello che non è commestibile. Un amico che faceva il cuoco nelle osterie ammetteva che più il cibo era scadente (come certa carne decomposta che viene speziata per coprire gli odori) più passava il tempo sulla fiamma. Non per niente Gualtiero Marchesi (che di cucina qualcosa capisce) ama dire: “Avete presente quante vite può avere un arrosto? Basta un profumo a cambiarne la sorte”. Personalmente metterei una scritta sui libri delle fiabe, come sui pacchetti di sigarette: CUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
SESSO (dai Frammenti di un monologo amoroso)
L’innamorato gode di un sesso antinomico. Desidera il polimorfismo e tale fluidità semantica lo impaurisce e lo attrae. E’ alla ricerca di una sessualità priva di significante, vissuta in un improbabile presente. L’apostasia di una carne che sente finalmente libera, leggera, viva è fonte di riflessione e eccitazione. L’erezione necessita di un corpo demitizzato, svuotato di una storia simbolica e concentrato unicamente nel piacere.
Per il titolo avevo pensato a “Memorie dal sottosuolo”, ma pare che qualcuno l’abbia già usato. Ho ripiegato su “Cronache dall’epigastrio”, anche perché non era mia intenzione discutere di inconscio, pensiero o anima. Il mio sottosuolo si trova nella pancia e il libro racconta appunto le sue cronache. Non amo i totalitarsmi dell’Io e le sue aberrazioni metafisiche. Esiste qualcosa fuori di me e questa cosa la chiamo reale. Mi hanno insegnato che questo altro da me sia la realtà, e mi piace. Mi piace perché mi colloca, mi definisce, mi dimensiona nella cosa. E mi fa sentire vivo. Se esiste qualcosa, la sua esistenza si conferma non in una relazione col mio percepirla, ma indipendentemente da quello che sono. Non ho un Io tautologico, non mi va di delirare in termini idealistici e penso che la verità non necessiti della mia presenza. Sono certo che possa fare a meno della mia ontologia. Non sono un metafisico e la veritas (come) est adaequatio rei et intellectus (la verità come l’adeguatezza o corrispondenza della cosa e dell’intelletto) mi pare una forma di delirio. E così guardo alle cose e per lo più mi piacciono, le spoglio e le scopro ogni giorno. E ogni giorno mi sembrano meravigliose.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.