DIARIO DI UN MORTO
Adesso che sono qua ho capito. L’unica verità è che non c’è una verità. Dicono che la morte sia capace di dare una risposta alla domanda fondamentale, quella che toglie il sonno. La verità è che è inutile anche la domanda, quando si muore si muore e basta. Il problema è di non aver vissuto, questo mi rode. Morire senza essere stato in vita, esiste per un uomo una condanna più grande?
L’hanno portata stanotte. E’ incredibilmente bella, non riesco a smettere di guardarla. Ha gli occhi blu, pelle morbida e liscia, bianchissima. Le labbra sono rosse e carnose, abbandonate in un sorriso limpido e quieto. Il volto è disteso, dolce come quello di chi ha vissuto e amato, la morte sembra averlo graffiato appena. Un uomo chissà da qualche parte starà consumandosi nella disperazione. L’hanno vestita di bianco, come una giovane sposa. Non ho potuto fare a meno di lambire la sua bocca. Non era un bacio, molto di più, come quando si intrecciano i rami di una rosa promettendosi qualcosa di eterno.
Ho lasciato la mia anima altrove. Devo pur averla un’anima. Credo stia scontando il mio inferno. Lei sta di fianco a me e non posso averla. Non conosco pena più grande, incontrarla proprio adesso. Ogni notte mi lacera il desiderio e il giorno è pure peggio. E’ la mia condanna e il mio tormento.
L’ho baciata e ribaciata ancora, sperando che non si svegliasse. Ogni notte mi alzo, lascio il mio loculo e mi inginocchio sulla sua bocca. Appoggio appena la mia, dolcemente sfiorando quelle labbra che sanno di paradiso. La guardo per ore e mi pare di non avere mai visto niente di più bello. Il desiderio di baciarla mi tiene vivo e ogni notte mi sembra una meravigliosa giornata di sole.
Stamattina hanno interrato Giovanna de Angelis, una giovane donna dai tratti delicati, pelle morbida, occhi vivi ma arresi, sfiorita mi pare troppo presto. Sembra sia morta di cirrosi; beveva e come tutti per dimenticare. Chissà cosa poi. L’ho guardata a lungo, portava i segni di una crudeltà vissuta sulla pelle. Tutto quel dolore non era riuscito a cancellare la nobiltà del volto, aveva anzi conservato serenità e un certo candore. Bella come tutte le donne. Aveva sofferto e ho avuto la sensazione che avesse in qualche modo scontato il suo inferno. Pacata più che rassegnata; niente avrebbe potuto procurarle sofferenza. L”inferno è già qua (pensai alzando le spalle) e rimane una parola vuota quando si è bruciati nel rogo della vita.
Il defunto di fianco mi ha raccontato il paradiso, pare lo abbia visto. Non lo so, ma tutto quel bagliore, quella inamovibile quiete, l’armonia, l’assenza di disperazione e vuoto, tutta quella domestica tranquillità mi ha messo in apprensione. Comincio a temere che il suo paradiso sarà per me un inferno.
Ambrogio De Toma l’hanno appena portato. E’ un ometto minuto, ceruleo, smunto, vinto dalla vita. Ha le mani piccole, doveva fare lavori non manuali, di poco conto. Un impiegato direi, ma di basso livello. Sposato male, porta segni di una radicata infelicità. Se quella con il ghigno è la moglie, la sua dipartita non deve essere stata tanto dolorosa. Sulla sua tomba ha fatto appuntare con una certa rassegnazione: “Qualunque posto, anche questo, è sempre meglio di casa mia”.
I cimiteri non sono posti allegri, si sa. Noiosi per chi li abita. Unico svago i volti dei congiunti, con quel finto dolore e un malcelato sorriso quando abbandonano le salme. E poi i nuovi arrivati, quelli sì che portano una ventata di allegria; come quando a scuola entrava uno nuovo e gli davamo il benvenuto con le pernacchie. A me tutto sommato è andata bene, il mio vicino di loculo deve essere uno tosto. Sulla sua lapide c’è scritto: “Vi aspetto con impazienza”.
Avevo sempre pensato al mio epitaffio. Mi faceva stare bene. Un uomo dovrebbe sceglierlo per tempo, prima dei salamelecchi impersonali e adulatori. E così finalmente mi ritrovo sul capo la mia bella iscrizione: “Qua giace un uomo senza pace, uno che parlò tutta la vita e manco qua tace”.
Una mattina di maggio non mi svegliai. Il medico non poté che constatare l’insuccesso della sua scienza davanti a un corpo inutilizzabile. Ero una cosa e anche fastidiosa; mi liquidò con un secco “deceduto”. Lo scrisse con disprezzo guardando quello stupido pezzo di carne che sfuggiva alla sua manipolazione. Più di tutto avevo deluso le sue aspettative morendo. Credo abbia anche borbottato “che stronzo” dietro al feretro.
Credo di essere morto appena venuto al mondo, unica cosa degna di nota nella mia biografia. Poi non ho combinato gran che. Il mio necrologio è stato: “Qui riposa, per la seconda volta …”. Appuntato dalla penna di un briccone che mi conosceva bene.
Sono morto il 20 maggio del 1970. Di crepacuore, dicevano. In realtà sono morto d’inedia e di noia. Non mi è dispiaciuto. Morire è stato nulla. Vivere era peggio.
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