Nelle favole i significanti abitano la narrazione, s’impadroniscono e modificano il racconto, identificano e contestualizzano i personaggi, prevalicano la scena. Il principe non ha un nome e la principessa è solo temporaneamente imprigionata nel corpo di una fanciulla popolare. L’atto precede la potenza e Cenerentola era di sangue blu, anche se non lo sapeva. Difficile trovare la regalità in ambienti degradati, ma nelle favole tutto è possibile. Il tutto prevale sulla parte, svilendo però i protagonisti in una metonimia che annulla le identità. L’identità si vanifica nei processi di identificazione superiori fino ad annullarsi. Svuotata la relazione di una reale affettività e privando l’altro di una realtà ontologica, predomina il significante regale che passa da un corpo all’altro, al di là delle differenze. Non c’è alterità, la domanda si restringe in una solitudine priva di desiderio e la richiesta d’amore è mediata da un eccesso che ordina la scena. In un tale campo privo di un (reale appunto) scambio affettivo non è più il piacere, ma il potere, l’idea, il blasone a passare da un corpo all’altro. Quello che è regale è anche razionale: cenere siamo ma Cenerentola diventiamo.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
CHIEDO LA MANO DI SUA FIGLIA (E NO, O TE LA PRENDI TUTTA O NIENTE!)
Nell’innamoramento la parte indica il tutto o il tutto la parte; si dice della donna che è tutta un sorriso più che ha un sorriso, le braccia diventano un abbraccio e il cuore non è un organo, ma l’immagine dell’altro ricomposto per metonimia. Sei tutta un profumo, per sinestesia implica il coinvolgimento totale del soggetto attivo nella percezione. Funziona così, le parole ordinano e non scompongono, il corpo perde la sua frammentazione e si ricompone per sineddoche nella lingua, ma non solo. L’amore chiede unità, la parola diventa qualcosa di organico che riordina e ricostruisce. L’uso della metafora è più raro, l’immagine della rosa rinvia per figurazione all’organo femminile ma sposta i contenuti altrove, come un’immagine dell’immagine. E’ la negazione del principio di identità, rimanda continuamente a qualcos’altro, a un terzo escluso. La metafora esclude e appunto non include. Il dialogo amoroso circoscrive nel qua ora e non sposta, non richiede immagini. L’altro è l’altro, chi-ama e chia-mando identifica l’altro nell’identità e nel nome, e non in qualcosa di simile o verosimile. E’ un neutro, ma solo in quanto non è imparziale, non annulla la differenza e costituisce dalla continuità il proprio particolare. Barthes parla della possibilità di bloccare la prevaricazione della significazione solo ponendosi al di fuori del linguaggio, in un incidente nella lingua, nel trauma piuttosto che nella trama del discorso. L’oggetto in sé, l’amato, non si può rinvenire nell’ordine dell’enunciazione ma nella sua frattura semantica, nel feticismo per la parola. La denotazione pura (se esiste) non può essere trovata nell’insignificazione, nel neutro, nell’oggettivo. “Il trauma sospende il linguaggio e blocca la significazione” (Barthes). Il grado zero dell’immagine prodotto da questa parola inopportuna si trova nell’assenza di intenzionalità, come nelle fotografie scioccanti, dove l’evidenza irrompe al di là della costruzione estetica e dell’ordine dei significati. Nell’ottuso che fa irruzione, incurante della connotazione ideologica della società di massa, come ciò che è al di là del collettivo immaginario. E tuttavia questo neutro nella lingua che produce immagini perturbanti “non rinvia a impressioni di grigiore, di neutralità, di indifferenza … Può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. Eludere il paradigma è un’attività ardente, che brucia” (Barthes). La metafora è un richiamo, una chiamata nella chiamata, un continuo rimandare a qualcos’altro. È un terzo che invade la scena, mette in secondo piano il corpo e trascende la sessualità, anche quando inventa una nuova forma di linguaggio. Nella metafora si sostituisce un significante con un altro, dando luogo allo stesso significato; la metonimia comporta invece la sostituzione del senso per contiguità. E’ un’abitudine ad associare due termini significandoli. Questa immagine per quanto neutra è fortemente significativa, ha i caratteri della cosa e non della rappresentazione. La forma più diffusa della metonimia è la sineddoche, in cui il tutto sta per la parte e viceversa. Mentre la metafora agisce a livello paradigmatico (frammenta e interrompe il flusso del discorso), in assenza di un temine che non compare, la metonimia si muove a livello sintagmatico (agisce per continuità tra i termini, non crea fratture), e ciò comporta un minor sforzo per la decodificazione. E’ più diretta, non pone nessuna immagine a mediare tra la parola e la cosa, tra l’Io e l’altro. La metonimia è diffusa nei meccanismi della pubblicità perché, desiderando l’oggetto associato al prodotto, siamo portati a desiderare il prodotto stesso (da cui l’abuso del corpo femminile). Questo linguaggio ha la funzione di fornire un immaginario, un luogo comune attraverso il quale, per riflesso, l’oggetto sopporta e esercita la propria intenzionalità erotica. E’ una forma di comunicazione diretta, non mediata. Il corpo dell’altro subisce la sineddoche e le rappresentazioni; per Barthes queste sono il segno dell’erotismo, e tuttavia non l’erotismo in sé, non vanno oltre i confini dell’eufemia, che fornisce una rappresentazione edulcorata dell’altro. L’erotismo si ritrova nel corpo parziale, frammentato, di cui soltanto alcune parti sono significanti. Il corpo erotico non è mai quello tutto intero; le tracce dell’erotismo vanno piuttosto ricercate nel feticismo per il particolare. E tuttavia il frammento del corpo cuore significa la totalità dell’amore, la bocca rimanda all’intero linguaggio (anche del corpo) e chiedendo la mano intendiamo sposarla tutta la fanciulla, non solo la parte. Sineddoche e metafora si muovono nell’immaginario e nel simbolico, ma nella prima sembra prevalere in quanto assenza del simbolo. Il tutto non è l’insieme delle parti, ma una ricostruzione mentale che anticipa ricomponendo il corpo e il discorso. Qualcosa di universale che non c’è se non nel particolare, il symballein (da “symballo”) mette insieme e ordina da fuori (il contrario è diabállein, che significa disunire, porre in discordia, disorganizzare), come il fondo che media tra la parola e la cosa rendendo visibile questo qualcosa. Il reale è sempre soggettivato e simbolizzato; la sineddoche lo dimostra nella sua disposizione ad astrarre la totalità dalla parte, il tutto, l’assoluto dal frammento. L’oggetto è un reale filtrato dal simbolico, se non c’è il simbolo non c’è oggetto (Lacan). E dunque, se hai intenzione di chiedere la mano della fanciulla, rammenta che il padre per sineddoche intende dartela tutta.
C’è una mancanza nelle favole, la risata. Le principesse non ridono mai, i principi hanno un tono grave e serioso, così che quando leggiamo “e vissero felici e contenti”, viene da dire “ma va là”. Ed è strano, perché dove non c’è un sorriso non c’è amore. Nella tecnica narrativa gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; c’è però un altro fenomeno sempre presente nella narrazione amorosa, la risata, ed è proprio quello che manca nella fiaba. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere definendolo con il neologismo Marxlust) perché le sue intenzioni sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Ma quello che conta, nella vita come nelle favole, è altrove, nell’assenza, in quello che non c’è. Il sogno, l’attesa, il principe. Il riso non è solo il motto di spirito di Freud e non serve unicamente per la scarica pulsionale; nasce e si risolve nella manque-à-être, rimane nelle fenditure risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della narrazione, in quanto trabocca dal discorso e richiama a un’assenza nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, lo strappiamo all’ordine abituale, lo svuotiamo di senso. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. Nella favola la narrazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità; non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non lega l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata appunto, che sacrifica desacralizzandolo l’altro. Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem.XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, diverso da quello della parola, pulsionale. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: “quando si parla qualcosa gode”. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo parliamo per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua. Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla, si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine razionale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica, lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un Oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito. Le principesse muoiono, ma c’è subito un principe innamorato pronto a salvarle. Morale della favola: il principe sta sul cazzo alla principessa, ma la poveretta che deve fare? E’ imprigionata in una storia che la vuole in attesa di un aristocratico, non può evadere dai limiti della narrazione. Arriva quindi a palazzo dove appunto “quando si parla qualcosa gode”; e c’è da supporre, che tra una chiacchera e l’altra qualche risata col giullare (da ciullare, che è quello che tromba) finisce per farsela.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
PRINCIPI E PRINCIPESSE
Le favole cominciano (quasi) sempre con lei. L’uomo, il maschio, l’altolocato compare sulla scena solo dopo che il racconto si è dilungato sulle sventure della fanciulla. Figura essenziale, quella del principe, eppure marginale ai fini della narrazione. Nella favola questo essere etereo, inesistente (non ha un nome, è sempre e solo un blasonato), si definisce per privazione; la sua sostanza è concentrata nella presenza o assenza di un altro essere a lui affine ma difforme (per sesso prima che per ceto). Non è diverso da quel che accade nella vita. La consistenza è femminile, i principi compaiono nella storia ma sono destinati alla scomparsa. Ricordo mia madre, che si stupiva del fatto che tutte le sue le amiche fossero rimaste vedove meno che lei. Non so se ve ne siete accorti: moriamo solo noi. Quello che l’uomo è, e che lo significa dandogli un senso, non gli appartiene. Se ha il blasone è in funzione della protagonista. Come nella teologia negativa, nella quale si dice appunto che dio non c’è, eppure esiste. Con mille buon ragioni, per carità. Però poi non stupiamoci se questo essere inconsistente la sera scende a comprare le sigarette, ma si ferma col paggetto di corte. E proprio come nelle favole il principe diventa sempre più una principessa.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
IL LUPO E LE FOCACCE
Non abbiamo che una versione condita delle favole, come certi piatti delle mamme che insaporiscono le verdure per renderle appetibili ai bambini. Quelle originali hanno altri contenuti e la narrazione non è proprio da minori. il lupo mangia la nonna e non c’è il lieto fine nei racconti più antichi. Le favole, pur nascendo in contesti popolari venivano scritte da signori aristocratici ed erano rivolte al popolo ignorante per farlo fantasticare. A mia mamma quando lamentava la fame, la nonna non dava il pane (che era conservato per la cena), raccontava una storia. Il racconto forse non saziava, ma rendeva sopportabile l’attesa. Come si dice: focacce et circenses. Nella versione di Charles Perrault la bimba viene mangiata dal lupo e la storia finisce così. Il lieto fine era una cosa da signori; i protagonisti magari vissero felici e contenti, ma da principi e nel palazzo. Nelle edizioni più antiche il lupo-nonna offre a Cappuccetto Rosso un piatto a base dei resti dell’ottuagenaria; in altre ancora a contenuto equivoco, il lupo chiede alla bimba di spogliarsi e di mettersi a letto con lui. Nelle favole come nella vita il cattivo cucina sempre la verità e la cottura aiuta a digerire quello che non è commestibile. Un amico che faceva il cuoco nelle osterie ammetteva che più il cibo era scadente (come certa carne decomposta che viene speziata per coprire gli odori) più passava il tempo sulla fiamma. Non per niente Gualtiero Marchesi (che di cucina qualcosa capisce) ama dire: “Avete presente quante vite può avere un arrosto? Basta un profumo a cambiarne la sorte”. Personalmente metterei una scritta sui libri delle fiabe, come sui pacchetti di sigarette: CUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
Per il titolo avevo pensato a “Memorie dal sottosuolo”, ma pare che qualcuno l’abbia già usato. Ho ripiegato su “Cronache dall’epigastrio”, anche perché non era mia intenzione discutere di inconscio, pensiero o anima. Il mio sottosuolo si trova nella pancia e il libro racconta appunto le sue cronache. Non amo i totalitarsmi dell’Io e le sue aberrazioni metafisiche. Esiste qualcosa fuori di me e questa cosa la chiamo reale. Mi hanno insegnato che questo altro da me sia la realtà, e mi piace. Mi piace perché mi colloca, mi definisce, mi dimensiona nella cosa. E mi fa sentire vivo. Se esiste qualcosa, la sua esistenza si conferma non in una relazione col mio percepirla, ma indipendentemente da quello che sono. Non ho un Io tautologico, non mi va di delirare in termini idealistici e penso che la verità non necessiti della mia presenza. Sono certo che possa fare a meno della mia ontologia. Non sono un metafisico e la veritas (come) est adaequatio rei et intellectus (la verità come l’adeguatezza o corrispondenza della cosa e dell’intelletto) mi pare una forma di delirio. E così guardo alle cose e per lo più mi piacciono, le spoglio e le scopro ogni giorno. E ogni giorno mi sembrano meravigliose.
E’ una delle favole a contenuto morale. Non tutte hanno questa finalità, le più belle rimangono le storie senza senso. Truffaut diceva che i film non servono a mandare messaggi, e aveva ragione; se ho un messaggio invio un telegramma. La struttura della favola dei maialini è banale, e la banalità penalizza il racconto. Tre fratelli, di cui due sfaticati e un lupo. Il lupo non manca mai, nella sintassi morale è necessario a dare corposità alla narrazione. La cosa ricorda Kant, che non credeva in dio, ma doveva pur supporlo per darsi una ragione dei fenomeni morali. Era un paralogismo, ma quanto ci piacciono i paralogismi e appunto le favole. I due perditempo alla fine si ravvedono; viene premiato l’impegno del maialino laborioso, che ha saputo costruire la casa coi mattoni piuttosto che con la paglia. Vorrei vedere la faccia di Jimmy quando riceverà la notifica di Equitalia. Perché la morale notifica sempre qualcosa ai porcellini laboriosi, gli altri non ne hanno bisogno. E’ una storia che manca di stupore (io per esempio mi ci sono sempre annoiato), per quanto nel fondo abbia in comune con le altre storie l’abreazione del piccolo lettore, che impara a controllare l’angoscia facendo bruciare il culo al canide. E non è bello e mi pare immorale.
(DA Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)
Tempo di bilanci. E i bilanci (si sa) hanno un peso. 26 “libri” (chiamiamoli così), una media di 150 pag. a tomo. Ognuno dei quali è stato stampato (più o meno) 300 volte. Circa 1170000 pagine. Se una pagina pesa (mettiamo) la metà di un grammo, fa mezza tonnellata di carta. Non solo braccia rubate all’agricoltura, ma ho sfalciato mezza foresta amazonica.
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