E’ OTTUSO, MA MI PIACE TANTO

In questa fenomenologia dell’amore, il corpo racconta la sua alterità rispetto all’ordine delle cose e del discorso. È il corpo innamorato, segnato da qualcos’altro a far implodere l’equilibrio su cui si sostiene.

Nelle dinamiche amorose, la parola si carica di significati forti e radicali e il discorso si svuota di un ordine. Sono fenomeni complessi. Non solo per il sovvertimento delle regole semantiche, che diventano un ginepraio di assurdità, ma per l’irragionevolezza, la contraddittorietà, l’incomprensibilità di certi contenuti e talvolta esilaranti boutades. Cose improponibili nel linguaggio quotidiano, ma che sembrano essere la norma nei fatti amorosi. Una di queste ripete: “è brutto ma mi piace”, oppure “è uno stronzo, ma sono pazza di lui”. Che sei pazza e hai un cattivo gusto è “ovvio”, ma è interessante questa tua ostinazione, e ancora più merita un approfondimento tanta “ottusità”: se ti provoca disagio e un certo disgusto, perché ti piace così tanto?

FRAMMENTI DI

Hoepli, Mondadori, Ibs, Feltrinelli

Barthes individua ne “Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenstejn” (1970) due piani del senso: quello informativo (proprio della comunicazione) e quello simbolico (della significazione). Esaminando la pellicola “Ivan il terribile” rinviene però anche un altro senso, la “significanza” che è di difficile integrazione nell’ordine della lingua. Rivolge le sue indagini esclusivamente al simbolico e alla significanza e scrive che il senso del simbolico è intenzionale, evidente, senza ombre (“senso ovvio”, da “obvius”, ciò che viene incontro); quello della significanza è ostinato, inafferrabile, impronunciabile (“senso ottuso”, da “obtusus”, che significa smussato, arrotondato, liscio e perciò complicato da afferrare). Con questo elemento Barthes intende rivalutare le facoltà delle immagini di rimandare a un senso avulso agli altri sensi esprimibili con il linguaggio. L’ottuso non è intenzionale, non ha un significato, non appartiene alla lingua o alle parole (“Il senso ottuso è un significante senza significato”); non è solo l’oggetto dell’ottusità, ma è l’Io stesso a diventare ottuso. Il suo modo di raccontare e raffigurare è quello della significanza che non ha l’impudenza della significazione, nulla della sua oscenità. L’ottuso è riservato e discreto, percettibile appena. Esorta a uscire dalla scena, piuttosto che a disturbarla; si comporta come il sublime dell’Analitica che afferra uno sguardo e invita a seguirlo altrove. Come certi uomini tenebrosi, teneri ma incostanti, crudeli e delicati che appunto “fanno impazzire” rendendo tossico, ma in una continua tensione, lo scenario amoroso. Le sens obtus è ostinato e sfuggente, calmo ma irritabile; è tenace, seduce, infiamma, rapisce. Per figurazione l’ottuso rimanda all’arrotondamento, all’addolcimento della significanza rispetto alla significazione. E’ lo smussamento di ciò che è spigoloso, fastidioso tanto è attuale; l’addolcimento di un senso troppo chiaro e troppo presente. Ma è anche ciò che sfugge alla presa, che sorprende e ridefinisce. Mette fuori posto, colloca altrove. “Mi fa soffrire ma lo amo”, fa dire l’ostinazione dell’innamorata. L’arrotondamento comporta la difficoltà di afferrare, come ciò che non si lascia com-prendere; l’angolo ottuso, a differenza di quello retto che richiama alla simmetria e all’identità, può variare, si muove, è instabile, deforme, grottesco. Non ha bisogno di un altro speculare. Sul piano della relazione comporta che esso esprima quello che non fa parte della lineareità del rapporto, ma la sua discontinuità e la sua frattura. Il senso ottuso è proprio della significanza che scaturisce dall’identità, dall’integrità della significazione. E’ una specie di sporgenza più che un altro senso, un contenuto che eccede al senso dell’ovvio. L’ovvio della significazione e l’ordine del discorso vengono frammentati da questa inclinazione al diverso della significanza. Il senso dell’ottuso è improduttivo; come un significante svuotato di significato, rimane sterile. Non rappresenta e non comunica niente. L’ottuso irrompe come qualcosa di innaturale, aberrante, che non ha una finalità: “Sembra spiegarsi al di fuori della cultura, del sapere, dell’informazione … appartiene alla razza dei giochi di parole, delle buffonerie, delle spese inutili; indifferente alle categorie morali o estetiche (il triviale, il futile, il posticcio e il pasticcio), sta dalla parte del carnevale” (Barthes, 1982). Questo Altro privo di volto sopraggiunge sulla scena senza nessuna strategia, alterità o intenzionalità. Si presenta nella forma di un grottesco che manca di rimandi, come ciò che ha un senso in sé, che butta l’occhio, rispetto al quale l’Io si pone in una relazione di non-indifferenza. Sta in un angolo, guarda la donna, la turba, le prende la mano e se la porta via. Freud vedeva un fenomeno analogo all’ottuso nel disgusto e lo metteva in relazione con l’isteria. Il disgusto è la risposta isterica di fronte al corpo concentrato nel solo piacere, riconoscendo in esso i caratteri che sono propri del fuori scena; una reazione al disordine che nel corpo diventa nausea o vomito bulimico (in quanto eccedenza della significazione). La presenza di un piacere rimosso che non si può soggettivare e che comporta la riduzione del corpo a oggetto. E quando il corpo è ridotto alla sola carne compare il dégout, un malessere che esprime il disagio del soggetto nell’assumersi la responsabilità del piacere nel proprio corpo. Il disgusto è il racconto della mancata specularizzazione dell’Io nel corpo, la sua malformazione e la sua malinconia. Si tratta di un fenomeno ambiguo perché racconta il piacere in modo negativo. L’altra parte del disgusto è che esso indica la concentrazione del corpo-amoroso nel corpo-carne. Il disagio di fronte a questo osceno eversivo che giunge sulla scena stravolgendola non è il bisogno di sottrarsi allo scambio sessuale. Sopraggiunge -è vero- la negazione anoressica, ma nel disgusto prevale prima che il disagio per il piacere dell’altro, una reale re-pulsione (una pulsione respinta) che scompagina le regole dell’Io e l’ordine del corpo. Cosa che ostacola ogni possibile equilibrio. La reazione al piacere come opposizione alla domanda, serve a preservare l’identità che si identifica in una riproposizione di quello che è l’ovvio nella lingua. Il rifiuto del cibo può prendere nell’anoressia le forme del disgusto, del vomito fino alle forme strutturate delle fobie alimentari. Non per niente la fame d’amore, o la sua eccedenza bulimica, quando si trasforma in rabbia e disgusto fa dire all’innamorata: “mi fai vomitare”. E succede di pronunciare le parole come l’epilogo naturale di una storia segnata dall’ottusità dell’altro, quando appunto si innamora di un “brutto e stronzo”. L’ottuso esce di scena e lascia la donna a cercarlo ovunque. In questa fenomenologia dell’amore, il corpo racconta la sua alterità rispetto all’ordine delle cose e del discorso. È il corpo innamorato, segnato da qualcos’altro a far implodere l’equilibrio su cui si sostiene. I limiti del corpo sono i limiti del lingua. L’ottusità fa perdere al corpo l’ordine e alla lingua la struttura. Fa “perdere la testa”, al punto da impazzire per uno che è “brutto” e “stronzo”, ma che sopraggiunge portando via. Ed è per questo che “ti piace” e pure tanto.

IN AMORE VINCE CHI FUGGE (E NON ROMPE IL CAZZO)

L’amore è desiderio. Non sempre però è facile sopportare il desiderio, perché si è soli nel desiderare. Quando gli innamorati chiedono “mi ami?” è come se non accettando il desiderio come mancanza, chiedessero di essere trasformati da “amanti” in “oggetti d’amore”, in una presenza. L’amore è la richiesta di una conferma. Desiderare è però un compito sfiancante; chi desidera è più fragile rispetto a chi è desiderato, e tuttavia la rinuncia non è la soluzione, ma il problema. C’è un prezzo da pagare per chi non vuole confrontarsi col desiderio, ed è una frustrazione che si trasforma in dolore. Il desiderio trova il suo completamento nella domanda e non esiste altro modo per soddisfare il bisogno se non completando il discorso con la risposta. La strada per non cedere al desiderio e alle pulsioni, è quella di metaforizzare l’oggetto dando un significato alla mancanza. Quando questa immagine non risponde alla realtà subentra una delusione che diventa depressione. Si prospetta l’ombra dell’abbandono e quella che doveva essere la soluzione all’assenza finisce per rimarcare il senso del vuoto e della solitudine.

FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO - Giancarlo Buonofiglio

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MEMORIE DI UNO SMEMORATO

Certe malattie sono un problema più per il medico che per il malato. Così per non deluderlo fingevo una sofferenza che non provavo.

La mia assenza della memoria era assenza di Dio. Adesso erano tranquilli, avevo anche io la mia croce e potevo esercitare la sua volontà, non la mia. Mi avevano dato una guarigione di stato. (Memorie di un ex smemorato).

Un giorno cominciai a ricordare e mi dimisero. La libertà i medici la chiamano dimissione. Questioni semantiche, ma detta così fa meno paura. Insomma mi misero in libertà proprio quando riuscirono a sistemare le briglie. Ricostruendo l’Io, mi avevano finalmente dotato di uno di quei cosi elettronici che controlla i detenuti fuori dalla galera, unica libertà concessa dallo stato. Dicevano che ero guarito perché avevo un passato, ma il mio disgusto cresceva. Si erano presi cura di ciò che a loro faceva paura, non della malattia.

Mi chiusero in una cella con un altro smemorato. Vi farete compagnia, dicevano. Come compagno di disavventura mi avevano dato uno affetto da TGA, quindi un altro vuoto, anche più grande del mio. Smarriva il presente con la frequenza di un battito di ciglia. La cosa divertente era che si presentava ogni dieci minuti. Lo invidiavo per quel suo nascere e morire ad ogni istante.

Certe malattie sono un problema più per il medico che per il malato. Così per non deluderlo fingevo una sofferenza che non provavo.

Lei soffre di amnesia, diceva il medico. Veramente io non soffro, è a voi che rode il culo. Non la voglio la vostra memoria. Ho rotto la catena dei significanti, perché si ostina a tenermi nella caverna?

Più di tutto mi impegnavo a non ricordare il mio nome, lo vivevo come un marchio d’infamia. Ho sempre avuto l’immagine di una scolaresca all’appello ogni volta che mi sentivo chiamare, e sempre mi veniva di rispondere “assente!”. Non ero smemorato, mi ero assentato.

Avevo dimenticato tutto. Non solo Dio, che non avevo mai incontrato. Ero come uno straniero in una terra sconosciuta. Guardavo la mia gente, quella che mi avevano fatto credere fosse a me simile per abitudini e cultura, arraffare, delinquere anche nelle piccole cose, per poi smoccolare veleno contro chi la amministrava. Non era amnesia, era disgusto per questi esseri dissimili e difformi. Scordavo finalmente le mie radici e la nausea che mi procuravano.

L’uni-verso è una strada piena di divieti di accesso, con quei cartelli blu e freccia bianca che obbligano a viaggiare in una sola direzione. Io avevo preso la vita contromano. La chiamavano amnesia e invece soffrivo di una banale apostasia.

La violenza comincia quando al nostro Io viene dato un nome. Col nome diventiamo una persona e nello specifico quella e non un’altra persona. Come individui ci rendono appunto individuabili. Ho provato a spiegarlo al funzionario che era venuto a censirmi, che sono e non sono, di incasellarmi come un essere in transizione, incerto, instabile se preferiva. Ma pare che lo stato non riconosca la categoria. L’impiegato ragionava col principio di identità. E io un’identità proprio non l’avevo.

Quante piccole improbabili identità. L’identità presuppone un Io sempre uguale a se stesso. Ma io non sono sempre uguale, io divengo.

Ho un’intolleranza all’Io, mi provoca aerofagia. La causa della mia amnesia si trova nella pancia, non riesco proprio ad assimilare un’identità.

Desideravo un rapporto tautologico con me che non fosse onanismo.

Facevo indigestione dell’Io. E stavo male. Di troppa identità si muore.

Ogni volta che mi radevo affondavo il rasoio e mi procuravo piccoli tagli. Cercavo nelle gocce di sangue qualcosa che mi facesse sentire vivo e nel dolore di ricordare quella parte di me che non riuscivo a vedere. E più premevo la lama, più il bruciore esasperava una memoria nella carne. Credo fosse un modo per sottrarmi, per un istante solo, a un presente che era fatto di niente.

Mi guardavo lungamente allo specchio, specie al mattino. E non mi riconoscevo, non vedevo niente alle spalle di quell’uomo, c’era solo un incomprensibile presente. Cercavo la storia, la vita in quel volto incupito come da un dolore appena sfiorato. Sembrava sgombro di tutto, anche da se stesso. Mi piaceva, per carità ma avrei dato non so cosa per un ricordo. Non avevo memoria di nessuno spasmo; avevo davanti il nulla e, questo sì, che mi spaventava.

Ogni volta che vado all’anagrafe mi prende l’ansia. La carta di identità in particolare. Ci ho messo tanto a perderla un’identità e che fa, me la ritrova un triste funzionario comunale?

Mi sono perso non so quante volte. Mi perdevo perché non avevo nulla da cui tornare, non trovavo nemmeno la strada di casa. Una casa è fatta di ricordi prima che da muri. E la mia era vuota, non l’avevo riempita d’amore, non ne ero capace. Mi allontanavo da me stesso e mi cercavo altrove. Non avevo dimenticato, la realtà è che non avevo proprio vissuto. E forse avevo anche cessato di esistere. Il dottore mi guardò appena, ma non negli occhi, e scrisse su un foglio amnesia dissociativa generalizzata.

Non avevo niente, solo silenzio. Il vuoto nella memoria acuiva il mio sentirmi altrove. Ero come su un’isola, ed ero solo. Non mi lagnavo, ondeggiavo anzi su una zattera piuttosto comoda. Il vociare della gente, quello sì che mi infastidiva, pareva un inutile bla bla. Ci ridevo pure delle facce che vedevo, con quelle cupe espressioni di finta allegria. Come quando in un film sfasi le immagini dalle parole; una cosa comica appunto. Sentivo di bambini che esaurivano mamme già esaurite, uomini alle prese con disturbi ordinari, che sono fastidiosi proprio a causa dell’abitudine e dell’immancabile ripresentarsi a ogni maledetto giorno. Cosicché manco la notte li lasciavano riposare, pensavo, in attesa di vivere la stessa giornata, sempre e solo quella. Ecco il vantaggio di essere rimasto senza memoria, ogni giorno per me era comunque nuovo. La chiamavo vita questa cosa e per loro era invece una malattia.

Non ricordavo nulla. Prima dimenticavo e basta. Le chiavi di casa, la macchina, il volto del vicino che mi ostacolava il passaggio sulle scale, con quell’alito acre e violento che rendeva sgradevole il buon giorno, chiedendomi chi davvero fosse. Poi ci ho preso gusto e la cosa ha cominciato pure a piacermi. Entravo in una stanza, in un locale e non riconoscevo le pareti, le facce, le voci, gli odori. Era come ricominciare ogni giorno, libero dai tegumenti familiari. La sensazione di vuoto però la ricordo, e cercavo di tornare sui miei passi, interrogandomi su quante volte ero passato per quella via. Ma anche la pace che quell’assenza mi dava. Mi sentivo bene, alla fine. Senza vincoli, amici, colleghi, costrizioni parentali. E vivevo, per la prima volta, con una leggerezza che non conoscevo. Avevo lasciato il mio Io da qualche parte e non lo cercavo e non volevo trovarlo. Ero felice, il resto non m’importava.

Dai FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO

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