ERACLITO E LA CARTA DI IDENTITA’

L’ufficiale allo sportello voleva darmi una carta di identità e con la parola identità intendeva qualcosa che non cambia, di continuativo secondo il prima e il poi. Ma l’identità mi sta stretta; ci ho messo tanto a perderla e che fa, me la ritrova un miope funzionario comunale?


I funzionari statali sono aristotelici e forse vanno pure oltre. Non si limitano al principio di non contraddizione e di identità, la relazione che dispongono tra il prima e il dopo è più simile al principio di individuazione che a qualcosa interno alla persona o a un corpo che è in continuo divenire e mai interamente definibile, neanche nel nome. Ma col nome ci rendono individui e individuabili, ed è questo che interessa allo stato. Chiamano generalità la nostra essenza (οὐσία) o carattere anagrafico e noi dobbiamo fornirle quando sono richieste; ma è una qualità vuota di senso perché non ci definisce sostanzialmente e non costituisce quello che siamo, se non di lato; e tuttavia paternità, luogo di nascita e residenza servono a collocarci in uno spazio e nel tempo e tanto basta. Lo stato idealista (ogni stato lo è) non riconosce la categoria del singolo e del diverso, la dissolve in un’universalità che precede dando consistenza giuridica al particolare. Che in sostanza vuol dire doveri prima ancora che diritti. La specie o il genere vengono prima dell’individuo e si sostituiscono ai suoi bisogni, anche sui documenti dove quello che realmente siamo caratterizzandoci è alla voce segni particolari. Particolari, come qualcosa di accidentale e marginale, utili però a distinguere nello specifico una persona dall’altra e dunque comunque sostanziali. Giustificano con l’universalità del diritto le infinite articolazioni dei doveri. Lo dico perché ero all’anagrafe comunale e l’impiegato pretendeva le mie generalità; nome, cognome e luogo di nascita per intenderci. Come se in quelle parole ci fosse l’identità o il senso della mia vita. Io ho provato a spiegare che non sono identico, che sono e non sono, che entriamo e non entriamo due volte nello stesso ufficio comunale. Confondeva il nome con l’essenza (τί ᾖν εἶναι), che nel linguaggio aristotelico significa “ciò per cui una certa cosa è quello che è e non un’altra”. La parola essenza indica ciò che determina l’oggetto o l’individuo e corrisponde alla visione ideale della realtà determinata dalle categorie mentali; che a quanto pare non sono particolarmente articolate nei funzionari dello stato. L’impiegato chiedeva di identificarmi col particolare e dunque con quel che c’è di accidentale e contingente in me, ma che contrassegnava come qualcosa di determinante, immutabile, di significativo per distinguermi all’interno della specie o nel gruppo. E meno male che il manipolatore di paradossi sono io, più contraddittorio di così non poteva essere. Voleva l’essenza e cercavo di fargli capire che sono assenza; e questa cosa non l’ho veramente capita, pur non essendo digiuno di filosofia e teologia. Poi mi è venuto in mente Duns Scoto e ho recepito che il burocrate mi stava sostanziando teologicamente, prima che giuricamente o con categorie antropologiche. Il ragionamento sottostante doveva essere più o meno questo: le cose sono uniche e particolari nelle loro caratteristiche individuali e tuttavia hanno una natura condivisa. Piero e Luigi hanno qualcosa in comune che li distingue da tutti gli altri del gruppo, da un cane o una scarpa; ciò che li apparenta è la natura umana. Ma allora perché Piero e Luigi sono diversi se la loro essenza è la medesima e se condividono la stessa forma? Non è per la forma che si distinguono e neppure per la materia, che non è (sempre secondo la definizione aristotelica) “privazione” e “passività”, ma essa stessa è attività e si delinea secondo una specifica individualità. L’ecceità (o haecceitas) propriamente, che è la concreta individuale differenza che permette di distinguere una cosa dall’altra e per la quale ogni essere individuale è unico e originale: “La causa, non della singolarità in genere, ma di questa singolarità nella sua particolare determinazione, cioè in quanto è proprio questa (haec determinate)”; (D.Scoto, Opus oxoniense, II, distinctio 3, Questioni 2-4).

L’ufficiale allo sportello voleva dotarmi di una carta di identità e con la parola identità intendeva qualcosa che non cambia, di continuativo secondo appunto il prima e il poi, di sostanziale e che non muta nel tempo. Ho provato a contestare, l’identità mi sta stretta; ci ho messo tanto a perderla e che fa, me la ritrova un miope funzionario comunale? Gli ho chiesto piuttosto di appuntare sul documento che sono un essere in transizione, assente più che essente; in divenire se preferiva, incerto, instabile cercando una parola appropriata che fosse assimilabile dal suo stomaco peripatetico. Ma niente, non ha voluto sentire ragioni; non mi aspettavo che avesse letto Eraclito, quello non aveva neanche visto il film “L’attimo fuggente”. Funziona così in questo Paese, invece di leggere il libro i miei connazionali aspettano che esca il film. Ho rinunciato a discutere e alla sua domanda perentoria: “Lei chi è?” non ho potuto che rispondere con nome e cognome e mi sono appunto identificato (nella sostanza vuol dire che mi sono reso identico a me stesso e con quel che si aspettava lo stato per bocca dell’impiegato). Mi ha dato del polemico, ed era inutile spiegargli che la parola polemos richiama a un’armonia profonda, a una radicale e incomprensibile per lui unità dei contrari. Mi sono limitato a farfugliare il Frammento 53 di Eraclito: “Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι …” (“Polemos è padre di tutte le cose…”).

Voleva il mio nome, solo quello e nient’altro; come il Diavolo quando chiede l’anima, il resto non gli interessava. Perché l’anima è quella, presente, non diviene e non cambia. E’ la misura del tempo secondo memoria, intelligenza e volontà, come diceva Agostino. Facoltà che rimandano appunto a qualcosa di immobile e che rimane inalterato. Tre vite ma una vita sola, un solo spirito, una sola essenza. La memoria soprattutto in cui risiederebbe (per il funzionario agostiniano) la sostanza di quel che sono e che mi specifica come questo e non un’altra persona; ciò che nella mia memoria non ricordo, non può far parte di me o della mia identità: “Quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza” (La Trinità, XI, 11-17). Avevo insomma davanti un raffinato teologo e non ci capivamo, la filosofia è un’altra cosa. Io ero Skoteinòs, oscuro per la sua logica lineare che non gli faceva concepire il panta rei (lo dico a chi non ha visto il film, “tutto scorre” secondo la formula lessicale di Simplicio in Phys., 1313, 11, rileggendo il frammento 91 di Eraclito) e quello non seguiva il mio ragionare, che alla fine era meno paradossale del suo. Avete mai parlato con un hegeliano? Spiegateglielo se ci riuscite che il divenire non è una progressiva presa di coscienza dell’assoluto, racchiuso nei limiti antitetici, quanto piuttosto risiede nella modulazione di un’identica sostanza (“Tutte le cose sono Uno e l’Uno tutte le cose”).

Nella domanda “ma lei chi è?” non c’era solo l’ordine di un pubblico ufficiale che chiedeva di indentificarmi, di rendermi identico a me stessso; c’era piuttosto la richiesta di adeguarmi all’idea universale, di riconoscermi nel genere di uomo che lo stato e il dipendente comunale avevano in mente. La carta di identità altro non fa che annullare la categoria del diverso, dissolve le alterità nell’identità. Inutile spiegargli che le cose vengono prima, mentre le parole e le idee sono mero flatus vocis; se non aveva visto il film con Robin Williams di certo non aveva letto Roscellino o Abelardo. La mia identità, il mio nome doveva essere in re o ante rem; ma io ho non ho mai assorbito quella forma di egocentrismo e non prevarico le cose; potevo parlargli di post rem, che è forse là che si trova quello che conta. Ma ho desistito, alle sue orecchie che sapevano di incenso e logica aristotelica poteva anche sembrare una cosa sconcia. In pratica, dietro quel “chi è” c’era la volontà di sostanziarmi e il discorso era profondamente teologico. Il termine essere si predica univocamente, nello stesso significato, sia delle cose create e finite, sia dell’essere increato e infinito, cioè in sostanza Dio nelle sue funzioni. Così ragionano i teologi. Ciò non significa che l’essere sia il genere più ampio che al suo interno contiene tanto Dio quanto le cose: si tratta piuttosto della determinazione comune a tutto ciò che esiste. L’essere è il primo oggetto dell’intelletto e tramite la sua azione è possibile conoscere il resto. E’ una bella idea l’ontologia, ma la vita è un’altra cosa. Rimango fermo sulle mie posizioni, gli universali sono cose da aristocratici, la realtà è fatta da enti individuali, da assenza più che da presenza, dal nulla prima che dall’essere.

Nel nome è presente il principio di individuazione, come ciò che permette ad un’individualità di presentarsi come tale; ovvero e in termini aristotelici, come sostanza singola o prima. Rimuove la tensione originaria verso il non essere che pure è sempre presente; svolge un ruolo di rilievo nel rapporto che sussiste tra forma, materia e categoria. Come ho detto si può far risalire tale principio (che con mille buone ragioni Schopenhauer identifica con quello di ragione) ad Aristotele. Il peripatetico affermava infatti che la sostanza dotata di esistenza (dunque individuabile) è solo ed esclusivamente quella singola, o sostanza prima, ossia l’individuo composto dall’unione di forma (categoria universale) e materia (che conferisce le caratteristiche individuali). Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham sono andati però oltre. Il primo avendo una concezione realista degli universali proponeva una mediazione tra materia e forma che consentisse il sussistere della sostanza singola; la quale consisteva di una proprietà (ecceità) che doveva sommarsi alla quidditas e alla materia. Ockham sostenne più direttamente l’inutilità del principio di individuazione in quanto, da convinto nominalista, considerava l’universale come pura determinazione concettuale, mentre le uniche realtà esistenti sarebbero quelle individuali. Ma allo stato e ai suoi dipendenti a quanto pare piacciono più le parole di Tommaso, che distingueva la persona dalla natura umana: la persona è il soggetto che agisce concretamente, mentre la natura è ciò che permette alla persona di agire; ciò che caratterizza la personalità o la sostanza della persona sarebbe insomma tale sussistenza, mentre l’attività intellettuale e della volontà appartiene alla natura o essenza spirituale. Sempre secondo l’Aquinate la persona è il sussistere di una individualità umana nella sua concretezza, mentre la natura è ciò per cui una persona è un essere umano; la natura individuale si delinea come ciò per cui una persona possiede proprietà e accidenti in modo unico e irripetibile. L’identità della persona è radicata nella natura e per attuarsi deve essere sussistente e spirituale; per essere un esistente concreto, e non rimanere a livello di definizione astratta, la natura umana deve perpetuarsi in una sostanza, diventando sostanza prima. Dal momento che il soggetto sussistente è il supposito, la persona umana può essere definita anche “supposito di natura razionale”. Essendo pura forma, l’anima non è l’essere come Dio, ma ha l’essere. Non è puro essere, ma è un essere-questo, limitato e causato; eppure possiede l’essere in modo tanto immediato e diretto da trasmetterlo al corpo. Per questo Tommaso definisce l’anima spirituale “la forma sostanziale del corpo” (Summa, I, 76, 1). Come si vede sempre di idealismo parliamo, accade ogni volta che vogliamo dare un ordine logico al mondo; la pulsione al paralogismo pare incontenibile. Non diverso è il concetto di Aufhebung, che per quanto introduca un elemento vivo all’interno della rigidità dialettica, implica la tensione dei contrari, da superare però al culmine del processo la contraddizione conservandola migliorata. Tale trazione nel discorso filosofico si adatta alle intenzioni di Hegel: nel processo di sublimazione un termine o concetto è al tempo stesso conservato e modificato attraverso l’interazione con un altro termine o concetto. La sublimazione si presenta come il motore della dialettica stessa. I concetti “essere” e “nulla” sono entrambi preservati e modificati attraverso la sublimazione per dare luogo al concetto del “divenire”. Parimenti la “determinatezza”, o “qualità” e il “numero” o “quantità”, sono preservate e sublimate nel concetto di “misura”.

Il principio di individuazione non è insomma distante da quello di ragione. Se è possibile individuarsi, non è a causa della collocazione del tempo secondo il prima e il poi, ma per una particolare tensione ebbra di attualità. Ciò che è immediato è senz’altro vero, perché è conosciuto senza la mediazione intellettuale; in questo senso Nietzsche parla di conoscenza tragica contrapponendola alla conoscenza ideale, che con la logica ha legittimato la menzogna. Il principio di individuazione, in quanto artefatto, non può costituirsi come verità proprio perché non coincide con la realtà, ma con l’immagine di un sogno. L’impiegato chiedeva in sostanza di adeguarmi al suo sogno e alla mistificazione operata dallo stato, pallido surrogato di quel che è vero. Ma io sono un ente reale, non onirico, assente e non essente, attuale ma non presente, al di là di quella cosa che chiamano identità e che è solo la scoria di ciò che l’impiegato appunta nel documento secondo una successione del tempo. Qualcuno la chiama coscienza, altri con un eccesso di romanticismo coscienza infelice; ma allo stato e ai suoi funzionari non interessa la prima e chiudono gli occhi davanti all’ultima. Tutto scorre e l’Io diviene, ma non la rigidità filosofica dello stato e dei suoi funzionari.

Da La vita è una camicia stropicciata (ricettario filosofico); di prossima pubblicazione

NEL NOME DELLA MADRE

DA IL DEMONIACO NELLA NEVROSI OSSESSIVA

La figura di Cristo è, come dice Hegel, un punto cruciale della storia, la “terza navigazione” di un principio di Ragione che, dopo aver purificato il desiderio nella metafisica è riuscito nella piena rimozione delle pulsioni; il trionfo del Logos sull’Eros, del bene sul male. In questo senso si può allora affermare non solo che religione ed etica si equivalgono nella misura in cui edificano un totem a cui sacrificarsi (una forma ternaria-trinitaria, che è poi il simbolo nel suo epocale assestamento triangolare) e di cui non rappresentano che una dilatazione concettuale, ma addirittura che l’una e l’altra sono le premesse storiche di un unico sillogismo gioachimista che è destinato onto-logicamente a concludersi nella figura della croce (nella parabola logica della croce). L’elemento pato-logico non risiede nell’esistenza delle rappresentazioni metafisiche, ma nella dissociazione della coscienza che soccombe frammentandosi nell’incapacità (si dissocia edificando un totem nella nevrosi e soccombe distruggendolo nella psicosi) di dominare semanticamente l’immaginario, lo spazio precosciente del non-ego-logico. Aprendosi al senso del trascendente oltre l’ordine codificato il simbolo, la sua polifonia semantica ritorna nella forma delirante dell’allucinazione. Nel disordine ermeneutico (anarchico e distruttivo) della psicosi. Se il problema è il totem significante (il Nome-del-Padre) si capisce insomma perché il materiale di una nevrosi sia sempre interpretabile, mentre non lo è quello psicotico. Quello che il nevrotico è ancora in grado di controllare, non è più infatti possibile allo psicotico invaso e dominato dal materiale collettivo (a cui è precluso l’accesso all’ordine del simbolico), divenuto oramai simbolo, archetipo e funzione esso stesso. Corpo senza organi, puro spirito: sintesi di pensiero ed essere, funzione trascendentale che si autocrea a sua volta creando tutte le de-terminazioni del reale. Lo psicotico è perciò nell’identità col simbolo, un dio senza più né bene né male, privo della misura morale (è de-moralizzato = depresso), di una coscienza religiosa; sviluppa come si detto una struttura anarchica/atea non sensibile ad alcuna con-versione (l’impossibilità di un transfert emotivo), per lo meno nella misura in cui ateo e non-convertibile può e deve esserlo un dio: svincolato dai valori e dagli altari del sacrificio, eternamente perduto nelle terre simboliche del Sinai, dove è ancora possibile rompere le tavole della legge. L’esorcismo morale (la confessione del prete o dello psicoanalista) riesce solo se l’individuo da esorcizzare si riconosce mala-to, portatore del male. Lo psicotico diventa concetto assoluto e totalità significante (dio che ha dato origine al mondo ad opera di quel significante demiurgico che è la Parola; e nella psicosi l’invasamento è effettivamente un invasamento di parole), idea. Privilegio concesso a chi vive nel non-senso del precosciente, sul monte del sacro non ancora contaminato dal principio di Ragione: dove il significato non ha motivo d’essere e l’uomo cosciente è costretto, faccia a terra e in religioso silenzio, a togliersi i sandali (in ebraico ki ha-makòm ashèrw attà ‘omèd ‘alàw admàth-kòdesh hu) dell’impurità morale. All’ascolto che lo porta ancora una volta domandarsi: “perché l’ente e non piuttosto il nulla?”
Come il dio testamentario, artefice non solo del mondo ma della fine dei tempi e del giorno del giudizio, lo psicotico (sigillo palingenetico dell’ultima epoca dello spirito) si realizza in una dialettica circolare che non ha alcun riferimento antitetico (nessuna antinomia: non l’uomo, non l’altro, non dio), la possibilità di una quadratura della coscienza (Figlio-Madre-Padre-Figlio); concentrato nella continuità predialettica dell’essere in cui non solo l’essere è anche il dover essere, e il reale ad un tempo il razionale, ma esso stesso tesi (Figlio) e antitesi (Padre) autoponentesi e autosuperantesi, il trionfo bacchico del superamento speculativo dell’imperativo edipico, il principio e la fine di una storia che si consuma tutta quanta nell’ebbrezza della follia. Autosuperamento di soggetto e predicato in una sintesi panlogica priva del necessario rapporto speculare con il totem; appunto l’Aufheben, il mistico di un’identità dinamica delle parti che annulla la differenza tra l’uomo e il dio, tra il bene e il male.
Questa dialettica psicologica che consustanzia, trasfigurandolo nel Getzemani della coscienza, il Figlio nel Padre (riflesso di quella ontologica dell’idealismo che opponeva la libertà di un Io puro autoponentesi e autogenerantesi ad un non-Io) è espressa con particolare efficacia proprio (non a caso) nei libri dell’Antico Testamento, che richiamano all’idea di una struttura funzionalmente “religiosa” (simbolica) sottostante alla coscienza (non è un fatto di analogia: effettivamente ogni coscienza presenta i caratteri morali di una impalcatura religiosa che ruota teocentricamente attorno alle orbite dell’imperativo; ed è solo in un secondo tempo che il totemismo morale, a cui dispone il rimorso, si dilata nei riti e nelle istituzioni di un popolo. Concetto che espresso con efficacia dalle parole di Jung: “Un dogma è sempre il risultato di molte menti e di molti secoli. E’ puro di ogni singolarità, di ogni manchevolezza e di ogni crisi dell’esperienza individuale”; Psicologia e religione) e in essa alle istituzioni sociali. E per dirla nei termini dello schema proposto (nel testo), se la regola si esprime con un carattere meta-psichico: lo psicotico in qualche maniera incarna, e non solo a causa del delirio apocalittico che lo porta talvolta ad emulare le gesta del dio, una specie di paraclito, epifania del biblico YAHWEH; il nevrotico, per converso e simmetria concettuale, quella mortificante del povero e sciagurato Giobbe, emblema di una perversione morale che da sempre immola l’umanità all’estetica ebraico-cristiana (inchiodando la tensione dell’imperativo in una risposta che più non lascia motivo di discussione: “perché l’ente è bene!”) del martirio. Dal suo altare di narcisismo è perciò il primo a camminare sulle acque limpide dell’innocenza, costringendo l’ultimo, perennemente instabile e alle prese con una lacerante mortificazione di Sé, a battersi il petto su una terra contaminata dal peccato per espiare colpe che non ha ma che tutto sommato potrebbe chissà come avere. A soffrire dal suo deserto di privazioni nientemeno che per la salvezza dell’intero genere umano.

DA IL DEMONIACO NELLA NEVROSI OSSESSIVA

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DEMONIACO DEMONIACO 1

NB per una discutibilissima scelta stilistica scrivo la parola “Dio” in minuscolo

SULLA STUPIDA VOLUTTA’ DI CREDERSI A IMMAGINE E SOMIGLIANZA

SULLA STUPIDA VOLUTTA’ DI CREDERSI A IMMAGINE E SOMIGLIANZA

DISCUSSIONE DEL PROBLEMA CITATO
Da H. Arendt: “Il punto essenziale nell’idea di colpa heideggeriana è che l’esistenza umana è colpevole nella misura stessa in cui di fatto esiste”.
(Capitolo VIII del testo La vita della mente, pag. 510).

Gli disse Pilato: “Che cos’è la Verità?”
Giovanni 18, 38

I temi trattati nel testo della Arendt non si risolvono unicamente in una dimensione antropologica. Volontà, libero arbitrio, Io (inteso come coscienza, persona, tonalità emotiva, appercezione trascendentale) desiderio, motivazione, dovere e azione aprono inevitabilmente il discorso a problemi che sono di pertinenza metafisica. Se questo è evidente nei pensatori medievali (meno, per ovvie ragioni teologiche, nei filosofi precristiani) come un dato certo e dunque non sempre teorizzato con la dovuta profondità, assume da Kant in poi una precisa, e giustificata sul piano logico-ontologico, formulazione concettuale. Cominciando proprio dall’imperativo categorico.
Il mondo, le categorie trascendentali che aprono in-formandolo un mondo, viene inquadrato prospetticamente secondo le leggi e le regole della pre-visione dell’intelletto, attraverso concetti puri che appartengono ad una soggettività sostantivante. Spazio e tempo sono le condizioni della sensibilità (condizione a priori della conoscibilità degli oggetti) del giudizio sintetico, e la sintesi, in quanto attività unificatrice e schematica, formale (formalmente morale: la coscienza dell’imperativo comanda di volere secondo la forma della legge, e siccome tale legge vale in virtù della sua forma e dunque della razionalità, l’imperativo comanda la libertà; il dovere che incombe sul mio essere come progettualità mi dice che sono libero, qualificandomi come l’ente capace di trascendersi in una metafisica, di un futuro, di ek-sistere nell’aperto della Provvidenza dove il pentimento e la redenzione sono possibili e accade la Parola salvifica; sostanzialmente e strutturalmente diverso da tutti gli altri enti che sono invece condannati ad un eterno Verfallenheit, scadimento cosale-fattivo), rende possibile l’accesso (senza tuttavia farglielo cogliere conoscitivamente: l’essere è e ha da essere come problema, pulsione fisiologica e prefilosofica al trascendente; una domanda che è destinata a rimanere senza risposta, come invocazione e attesa di qualcosa che è da venire e a cui ci si può solo predisporre as-sentendo alla chiamata) alla dimensione noumenica. Di modo che il mondo della cosa in sé (il noumeno presente come enigma e problema: angoscia) che sfuggiva all’intelletto (pensabile ma non conoscibile) può finalmente aprirsi per via pratica. E’ in quanto si e-spone moralmente (= progettualmente) al suo destino prospettico, nella luce della verità (pre-parandosi ad accoglierne l’ambivalenza ontologica, oltre e al di là della sua rigidità semantica, l’oscurità dell’Erranza -che Lacan chiama “altra scena” e Popper “falsificabilità”- la dimensione del possibile che incombe nel già codificato), che l’uomo ek-siste, esiste veramente (e per Lacan, volendo citare un pensatore che fa da cesura tra Kant e Heidegger e che si è specificamente cimentato coi problemi dell’Io, solo nella misura in cui s’inserisce nell’ordine simbolico, nell’aperto che apre oltre i significati già dis-velati, per esserne casa e custode, abitato e abituato dal richiamo di quei significanti che, benché parlino un linguaggio intelligibile chiedono una pre-disposizione all’ascolto, l’assenso e la preparazione all’avvento della nuova epoca della Parola), e il sottrarsi a un tale imperativo (che è poi il richiamo dell’essere che la tradizione ha identificato nella voce del dio) e-statico comporta lo scadimento in una in-sistenza deietta che, se non smette di presentarsi come destino e chiamata (coscienza morale che impone il superamento dell’originaria condanna nello scadimento del peccato), nell’uomo comune, assume i toni della tragedia (un passato che si ripropone ossessivo come ostacolo alla realizzazione del futuro, della trascendenza simbolica da avvenire) nella patologia. Ovviamente se teniamo per buono il presupposto dell’esistenza come progettualità, del tempo come costruzione lineare dell’Io da realizzarsi nella proprietà e nel possesso (e dunque del passaggio inevitabile dalla volontà dell’Io alla volontà di potenza. Non sono naturalmente mancati i critici, e non solo di ispirazione marxista, alla generale antropologia capitalistica; si veda ad esempio la diatriba tra Freud e Jung rinvenuta nel conflitto Io-Sé). Questo per dire che lo stesso Kant, vittima dell’allucinazione morale, non meno dei suoi predecessori è rimasto fermo ad una definizione dell’uomo che si può così tradurre: “un limitato periodo di tempo collocato in uno spazio progettuale che è concepito come il luogo in cui operare per la propria salvezza”. Movimento e azione che sono, come si è detto, ridotti dalla razionalizzazione moderna fatta sul tempo a mera produttività finalizzata all’accumulo patrimoniale (incanalamento del desiderio nel consumo: motivazione di natura calvinista che induce a cercare il segno della grazia, la certitudo salutis, nell’idolatria del capitale; disperazione insanabile che ha portato ad annullare l’individuo nella proprietà, a dissolvere l’etica in un’alienante economia di mercato). Quanto detto a proposito di una prepotente priorità pratica, e dunque dell’uomo come l’ente che progetta la propria salvezza (un progetto che è però dal principio destinato al fallimento, una volontà che è rinchiusa nel movimento improduttivo di un pre- che ricade costantemente nella gettualità, e a cui è solo consentito di collocarsi alla giusta maniera nel circolo del tempo), si chiarisce al meglio nell’analitica esistenziale di Heidegger.

Anche per Heidegger, la visione non è assoluta (non è assolutamente disinteressata, ma piuttosto inserita in una dimensione vissuta e tonale, ed ha la sua ragione in una prassi che articolandosi in un sistema di enti -pragmata: come Zuhandenheit o Vorhandenheit- organizza il molteplice frammentato e originariamente disinteressato nell’ottica di un’opportunità pratica) ma si orienta secondo una precisa finalità, in un senso che si configura come un sistema interpretativo capace di inserire i simboli noumenici in un preciso ordine grammaticale finalmente comprensibile (agendo e lasciandosi agire da essi). Questa finalità, principio e fine del circolo ermeneutico, storico prima che ideale, è una finalità di tipo morale. Acquista cioè una forma e una struttura unificante, ossessivamente circolare (cosa che accade anche in Kant in una disarmante circolarità della Ragione: dall’uomo -le idee- al dio per poi ritornare nell’uomo -i paralogismi- per postularvi i principi metafisici. Una grandiosa illusione trascendentale del dovere -se devo, devo volere qualche cosa e questo qualche cosa è già implicito nel dovere stesso non potendo la volontà volere ciò che non esiste- che è però divenuta fatale in epoca cristiana). Nel senso che il problema non è tanto quello di uscire fuori dall’inferno del circolo ermeneutico-morale, quanto piuttosto starci dentro alla maniera giusta: orientati, e-sposti pro-gettualmente, liberamente collocati (è in questo senso che Heidegger identifica l’essenza della verità nella libertà concepita come lasciar essere) nell’aperto di un non-senso, o di un pre-senso, che chiama all’evocazione e all’ascolto di una Parola che precede anticipandola, per poi finalmente chiuderla, la storia dell’uomo; un mandala della Ragione (una specie di cerchio magico: e infatti dio, l’anima e la libertà prima che una realtà extramentale sono idee, tonalità del pensiero funzionali all’economia emotiva) che preserva l’Io dal pericolo dispersivo dell’entropia (frantumazione dell’Io, il corpo senza organi di Lacan), e in esso dalla tentazione apostatica del nulla.

La morale è uno strumento di salvezza per sottrarsi a quell’incidente prospettico che è il peccato (ogni coscienza è coscienza morale e la morale nello sdoppiamento ottico, nel giudizio di Sé, presuppone una cattiva coscienza): la mondanità è costituita da un tessuto di rimandi, da una rete di enti che hanno il carattere dei Zeuge (di mezzi o oggetti ad uso-per, di un’utilizzabilità globale finalizzata per scopi che trascendono il mezzo e l’oggetto stesso), da una maglia di oggetti culturizzati (il martello è un oggetto che si usa-per inchiodare, la sedia un oggetto che si usa-per sedersi e non per altro) che cospirano alla realizzazione di uno stesso fine pragmatico (ad una totalità di opportunità, Bewandtnis, intesa come principio organico e funzionale del molteplice esperito); il mondo-circostante (Um-welt) è non di meno un tessuto storico-culturale che ruota significante-significandosi attorno (deformandosi antropocentricamente nella dialettica dell’in-grazia-di e dell’in-vista-di) ad un Chi, ad una soggettività (un a-che-fare-primario) che è la Ragione (sufficiente) ultima significante, condizione di possibilità ontologica e fondamento (l’uomo latore di una metafisica dei costumi, attraverso la quale offre un sistema compiuto dei doveri quali regole generali per l’agire) dell’insieme concettuale dinamico (come significatività, Bedeutsamkeit) che si va realizzando orientando la prassi verso una totalità pratica. Gli enti, qualunque essi siano (anche e soprattutto i segni, che si presentano come enti allamano estrapolati però dal contesto meramente pratico), non sono degli oggetti privi di significato, una semplice-presenza aliena da una progettualità, ma richiami ed esortazioni (processo metalogico che, simile a quello kantiano, chiede la libera adesione: adeguazione della volontà alla forma della legge -devi perché devi!- nella sua capacità di determinare i concetti di bene e male) ad organizzare l’insieme dei rimandi secondo proiezioni e prospettive pragmatiche, per la realizzazione teleologica di uno scopo (come Cura, Sorge; presente anche nelle parole kantiane: “Agisci in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale”) che va oltre la singola individualità, verso un’etereogeneità (simbolica: come risposta ad un appello) di fini. La totalità di opportunità (Bewandtnisganzheit) non è quindi nulla di intellettuale, non può essere conosciuta noumenicamente da nessuno, ma si rivela piuttosto all’unilateralità dell’intelletto nel fenomeno della significatività (l’opportunità vista e pensata si chiama significatività). La priorità spetta perciò alla dimensione pragmatica (metafisica dei costumi come scienza pura della condotta umana; finalità morale intesa come progetto d’utilizzabilità, principio e fine del processo conoscitivo, come avanti-a-sé-essere-già-in-un-mondo) da cui unicamente può nascere quella teoretica. Come dire: delle cose noi, in quanto da sempre già-presenti interessati nel mondo, immersi nel trovarsi tonalizzato (Stimmung) di un’atmosfera familiare pre-teoretica, in un linguaggio che precede e struttura il materiale simbolico che informa le capacità intellettive di ognuno, abbiamo una precisa percezione della significatività globale prima ancora di comprendere i singoli significati, mentre i singoli significati è solo collocandosi nella dimensione pre-intellettuale di un ente capace (come condizione di possibilità: l’esserci è infatti l’ente che ha la priorità della decisione, di programmare e-sponendosi il suo futuro, l’ente che ha-da-essere in un’esistenza non priva di pericoli e difficoltà, quello che per realizzare il proprio essere ne-va-di, mette in gioco la sua stessa vita) significarli interpretandoli, che possono a loro volta assumere una dignità ontologica, un senso. La dinamica è quindi duplice: non solo l’esserci è Woraufhin, ciò in-vista-di-cui viene dischiuso un mondo, l’orizzonte di senso in cui si mantiene la comprensibilità di qualche cosa, ma la stessa apertura (Offenheit) in cui un mondo può per-venire ad una totalità simbolica che richiama evocandolo (come avviene nelle ritualità di massa che sono una specie di preghiera collettiva; da intendersi come la trascendenza di un linguaggio che si pre-dispone all’ascolto della Parola, una forma di estasi e dunque il principale modo di ek-sistere proiettivamente-moralmente operando per la propria redenzione: dove la Parola è sottratta all’immobilità della morte e la Verità recupera la sua ombra, l’Errore, in un mondo che si presenta come il luogo di libertà in cui accade l’avvento della salvezza) il progetto di una collettività che ha il nome profilattico (= strumentale, antientropico e unificante. E Dio è infatti propriamente una funzione logica in quanto consente il passaggio dialettico del Figlio nel suo individuarsi nel Nome-del-Padre, e una funzione ontologica in quanto immette l’immaginario dei significati già dispiegati nel
simbolico dei significanti ancora da avvenire, nell’epoca propria dello Spirito) del divino. Siccome però si è stabilito che la situazione fondamentale di questo ente particolare che si pone la domanda sull’essere è il trovarsi immerso in una dimensione che trascende la sua storia individuale (la libertà morale -la volontà- come pura e spontanea attività intellettuale, segno di quella metafisica alla quale l’uomo appartiene), in un senso che è il luogo della sua dimora abissale (da ricercarsi piuttosto però in una specie di sprofondamento nel linguaggio inteso come il luogo della memoria del Sé, nei simboli e miti che precedono ontologicamente la sua determinazione storica), il problema della comprensione (che precede il volere, dovendo essere la cosa voluta in qualche modo già conosciuta) viene a risolversi tutto in una pre-comprensione (un pre-volere) che è appunto un trovarsi a comprendere (a volere), in un comprendere che è situato-gettato da sempre in una Stimmung; ovvero in un’atmosfera generale di simboli che, per quanto inafferrabili intellettualmente, dominano e orientano dall’interno la mente e le sue funzioni. Nel senso che la visione, la quale sola può dar luogo ad una comprensione, è sempre strutturalmente condizionata e predeterminata (processo a cui per Heidegger va soggetta la stessa volontà) dalla familiarità con una pre-comprensione che la precede orientandola (“Edipo tiranno moderno!”, dirà Deleuze ammonendo di diffidare della vecchia mitologia che stava riproponendo in chiave laica e scientista -Lacan- il concetto di peccato), facendole venire incontro quegli enti che sono propri dello specifico di un interesse, di un’ottica angolare per quanto dilatata e ampia (e quindi la coscienza strutturante del peccato mette ad esempio in luce, oscurandone altri, quegli enti e quell’organizzazione semantica che è funzionale al suo orizzonte prospettico -dittatura semantica-; mentre ogni decisione assume non di meno il carattere della con-versione e quest’ultima a sua volta di un rovescio epocale nella storia dell’esserci). La visione vede solo degli aspetti ed ordina il veduto secondo una pro-spettiva (un oggetto è assunto come uso-per, per un uso particolare, è riconosciuto in-quanto rimanda a qualcos’altro che lo trascende significandolo; si colloca perciò in uno spazio di senso e in un ordine significante che com-prende l’uomo come il mondo e il mondo come dio. Ne consegue che per il penitente -l’ente morale- l’oggetto, su cui incombe con la sua intenzionalità, viene a significarsi come un artificio con cui progettare la propria redenzione, e il mondo uno strumento escatologico per la sua soteriologia morale) che si articola nella struttura fondamentale della Spectio che è la storia stessa non scritta dalla specie umana, ciò che la storia pro-gettante chiede e consente di vedere nella costruzione teoretica di un mondo. E’ dalla Spectio (Sicht) che deriva il fenomeno specifico della conoscenza, e la conoscenza a sua volta non è che un restringimento ontologico di quella che Heidegger chiama Umsicht del Besorgen, della circospezione del procurare che corrisponde all’a priori pratica di un mondo, ad uno sguardo totalizzante e finalistico (morale) dell’intreccio relazionale dei rimandi e dell’opportunità che li ordina interpretandoli. Questo per dire che la prassi visiva non vede in nessun modo il tutto (l’in-quanto -l’Edipo, il male, il peccato, la colpa-: la pluralità delle cose viene raccolta in un uni-verso, secondo un angolo prospettico), ma ha una vocazione al ritaglio semantico; guarda vedendo però solo degli aspetti (come il giudizio predicativo delle scienze). Noi, in quanto enti che avvertono il peso dell’essere come possibilità di un problema da progettare (priorità ontologica dell’imperativo categorico nel rigorismo etico del dovere) da convertire storicamente in un’epoché linguistica, siamo già da sempre pre-determinati, costituzionalmente assegnati e anticipati da un’ottica pragmatica (i cui aspetti principali si delineano come Vorhabe, Vorsicht, Vorgriff, ossia come pre-possesso, pro-spezione, e pre-concetto) che dirige deformando la dimensione della possibilità secondo quella struttura del comprendere che è la Spectio, e che corrisponde alla pratica del mondo, al pro-curare pragmatico che seleziona (lasciandoli venire incontro, Begegnen lassen) dalla radura (Lichtung, chiarìta) dell’essere quegli enti che sono necessari alla realizzazione di una contestualità assolutizzante. Di una finalità. L’esserci è una polarità ambigua, un pro-getto deietto: progetta ma progettando in avanti ricade inesorabilmente indietro, in un pre- (Vor) che chiede e consente di vedere (vede ma non vede imbrigliato com’è nella luminosità chiaroscurata -Lichtenden Bergens- della sua circolarità scaduta; condizione passiva e sofferta che ricorda il travaglio di una fede che non riesce ad evadere dalla dimensione ombrosa del peccato, dalla coscienza morale), di costruire un futuro che è già da sempre pre-determinato da un passato che ritorna ossessivo, e che si serve dell’esserci per realizzare in-formandoli principi storico-epocali scritti nel libro generale dell’essere, o se si vuole della natura.
La visione è un vedere quello che si è già visto, e il già visto (l’orizzonte mitologico dell’Io, conservato come una specie di traccia culturale che si va a collocare nell’istinto produttivo di una specie con-dizionandola dal principio) può configurarsi come tale, apparire, solo se è presente un fondamento ottico (dio, la legge), un cannocchiale (l’in-quanto della visione che è da intendersi come l’in-quanto del linguaggio nel suo passaggio alla comprensione) capace cioè di ricondurre aprendoli alla visione (e dunque alla comprensione teoretica e creativa) i fenomeni vissuti dall’esperienza emotiva. Se manca il noumeno aprente-significante (dio come rimando finale -àgape-, e dunque ragione ultima delle cose intese come strumento escatologico morale) viene meno anche il fondamento ermeneutico artefice della svelabilità di un mondo; e il mondo (che un esistenziale, una struttura dell’esserci), privo di un’intenzionalità pro-gettuale e prospettica, non può che vanificarsi nell’abisso di un vuoto più grande, sprofondando in un orizzonte sfumato e privo di un confine; senza più un Chi, un Io sintetico-utilizzante a cui fare riferimento (e senza un dio fondante, causa ultima che da sempre lo precede, il mondo può davvero reggersi sul nulla, o non sprofonderà piuttosto in un’eterna caduta, in un eterno ritorno? Morto dio muore anche la legge, anche questo è deducibile dall’autonomia della legge kantiana che non a caso fatica a rimanere in se stessa). Inabissandosi il non senso dell’uno nel non senso dell’altro, senza appunto entelechia morale (ma già Kant aveva individuato le conseguenze di questo pensiero: la priorità ontologica spetta all’imperativo categorico, che si presenta come fondamento della legge proprio in quanto privo di fondamenti; è l’ultima delle cause, autonoma e dunque incausata e ingiustificata, un atto di fede). La Ragione, possiamo dire con Kant, non è in nessun modo primariamente pura, in grado cioè di varcare assolutizzandosi i limiti dell’esperienza fenomenica, ma è soprattutto pratica, autonoma e sufficiente da sola a muovere, nell’imperativo categorico, la volontà (volontà pura che trascende informandolo il fenomeno) e l’azione morale. Processo meta-logico che libera l’uomo dal determinismo meccanicistico (indipendenza della volontà dalla legge naturale dei fenomeni; ma anche indipendenza dai contenuti della morale stessa, che sola fa essere il bene come bene morale e il male come male morale) facendone causa e sintesi noumenica. Il problema strutturale è perciò chiaro: la legge morale (o Nome-del-Padre, come la chiama Lacan) non dipende dal contenuto perché è già contenuto esso stesso (non ha cioè bisogno di essere pensata o giustificata, è un dato di fatto che ha la sua motivazione nella libertà, nel senso che se non supponiamo l’a priori della libertà non possiamo in alcun modo giustificare la presenza del dovere), fondamento ultimo che vale proprio in virtù del non avere altra ragione oltre la forma della legge, dalla sua razionalità (l’imperativo comanda di volere secondo forma la libertà ed essa si delinea quindi, pur rimanendo sconosciuta nella sua essenza, come la dimensione metafenomenica -giudizio sintetico a priori- che dà un senso a tutto ciò che riguarda la sfera della morale). E’ forma, razionalità pura, funzione logico-ontologica che determina a priori i concetti di bene e di male de-finendoli come tali. Apertura semantica e senso significante del materiale fenomenico esperito. Come dire: l’imperativo precede la teoria e la stessa visione teoretica orientandola nella dimensione morale, e senza questa determinante funzione deuteronomica non è possibile solo un’ermeneutica e una visibilità delle cose, ma la stessa ontologia (il mondo intelligibile che sfugge alla ragion pura, e che si presenta alle idee della ragione solamente come un’esigenza trascendentale, è invece accessibile per via pratica. Dio, l’anima, la libertà devono essere ipotizzati per dare un significato ad una legge morale che ha la sua causa ultima nella libertà). Oltre il fondamento morale non si apre che lo s-fondamento del nulla, il disorientamnto di un vuoto (grund) che più non consente una comprensione del mondo né tanto meno la sua operabilità, e chi prova nel salto verso la dimensione angosciosa del non-senso (o del pre-senso: al di là del bene e del male) finisce inevitabilmente tra le braccia (è propriamente dis-orientato) di Dioniso: con-segnandosi come Nietzsche nei roghi del nulla, dove non ha voce che il vuoto dell’assenza e la domanda (“perché l’ente e non piuttosto il nulla?”) è destinata a rimanere senza risposta (in un fondamento che è ad un tempo l’assenza del fondamento; questa è la notevole intuizione kantiana: dio, immortalità dell’anima, libertà non hanno altra Ragione che nella Ragione stessa. Esigenze strutturali che solo per Errore diventano dialettiche e che è necessario postulare affinché ogni cosa abbia un senso: l’ipotesi di un dio che adegui il grado della felicità a quello della virtù, la necessità della volontà pura come causa libera, l’anima quale attuazione infinita del rigorismo morale). Nel non-senso dell’angoscia che si configura come il pre-discorso di una Parola che non e-spone in un’apertura già dischiusa (fenomeno che Schopenhauer chiamerebbe “rappresentazione” e Nietzsche “apollineo”), ma che apre all’apertura stessa (che il filosofo di Danzica definirebbe “volontà” e quello tedesco “dionisiaco”), s-coprendo una Verità da sempre dis-velata sul Sinai non ancora contaminato dalla morale; l’estasi del silenzio quale trascendenza ultima di un linguaggio che è più simile alla risposta di un appello che ad altro, alla dimora originaria degli dèi verso cui da sempre siamo in cammino. Nel suo percorso che tende a conciliare soggetto e predicato, e ad annullare la differenza ontologica tra l’uomo e il dio (Hegel) la libertà si pone come uno dei momenti più alti, storicamente determinabile (in Hegel con l’epoca illuministica, in Heidegger con la Kehre, con l’avvento di un radicale rovescio temporale). Da Kant addirittura concepita come la più alta delle idee della Ragione, di cui conosciamo a priori la possibilità e dunque la condizione di una legge che rivendica nel formalismo etico la conformità alla norma. Non l’uomo però la possiede (questa è forse la più significativa delle intuizioni heideggeriane, derivata dall’epoca della tragedia) come cosa tra le cose, ma è piuttosto l’uomo stesso ad esserne una proprietà, a collocarsi (nel breve spazio di una vita che può al limite illudersi di giocare un ruolo determinante, appropriandosi-espropriandosi di una Verità che si serve della Parola parlata per annunciare principi che appartengono alla natura dell’essere) nel suo orizzonte semantico che (in Kant) fa da cerniera tra la vita e pensiero, sensibile e metasensibile, il piano logico e quello ontologico. Fenomeno che si può chiamare in molti modi, ma che comunque si consuma nel prospetto del sacro. Nella radura della libertà è possibile esistere coscientemente, pre-disposti all’ascolto dei significanti e dunque in cammino per accogliere e custodire quello che vine detto e annunciato; o rigidamente (per dovere), assolutizzando i principi che la Ragione (spinta da un interesse e da un’ottica essenzialmente produttiva: totalizzando quegli aspetti della contestualizzazione globale che sono funzionali ad un interesse specifico e divenuti perciò epocali, de-terminanti e uni-versali; da cui il rapporto stretto rinvenibile tra la coscienza morale e il bisogno calvinista dell’accumulo e del possesso, tra l’angoscia e il consumo, l’ossessione e la proprietà) ha trovato per uniformare l’ambivalenza e la polifonicità primordiali alle esigenze codificate dal principio di identità (la rigidità dell’Io in conflitto con la plasticità del Sé). Per sottrarsi a quest’ultima dispotica eventualità (che da sempre risponde con inaccettabile arroganza “perché l’ente è un bene!”), si può cominciare a sfidare il destino per tornare alla casa del linguaggio, alla ricerca di quella terra che da sempre custodisce il senso del mondo e che rappresenta la nostra storica e materialistica aurora.

Per concludere: i temi proposti sono dichiaratamente mirati a dimostrare l’assoluta priorità dell’uomo sulla natura e sulle cose (come condizione di possibilità). Questa priorità, benché non assolutamente teorizzabile, è celebrata oltre misura in Kant. Nell’uomo rispetto alle cose della natura c’è un incontenibile pulsione a trascendersi (la prova è data proprio dai concetti di volontà, libero arbitrio, dovere che sembrano trasumanare l’individuo in una metafisica della Ragione) nella visione teleologica di un mondo che si presenta alla comprensione come strumento per una soteriologia morale, da plasmare (con l’obbligazione del dovere: il sacrificio paolino nella fatica e della pena; la contemplazione di Sé nella penitenza quotidiana della misura e del limite = castrazione e ossessione) demiurgicamente per la propria salvezza. L’uomo è qualcosa di diverso e nobile, però chiaroscurato (pro-getta) nel suo delirio di onnipotenza, dall’ombra di una coscienza che lo pone a metà strada tra il bene e il male, il divino e la bestia; ben visibile nell’idea di finalità implicita a priori nel soggetto nel suo sostantivare (sostantivazione di emulazione biblica che tradisce una pericolosa volontà di potenza che ha fatto del risentimento e del dolore una virtù: capace di porre l’uomo in un universo antropocentrico che non smette di ruotargli attorno alla ricerca di un senso; non solo causa tra le cause ma Ragione ultima fondante delle cose) l’oggetto (attribuendogli uno scopo e un fine) in una dimensione appunto lineare-temporale (il giudizio riflettente: estetico e teleologico). La “rivoluzione copernicana” ha certamente rivoltato il mondo, dandogli una prima decisiva umiliazione, ma ha ad un tempo contribuito ad alimentare la follia di un ente morale, l’esserci, che ha creduto dall’alto della sua cattiva coscienza di poter salire sul trono, se non della creazione, comunque del fondamento. A immagine e somiglianza: un dio minore legislatore ma anche ridicola entelechia delle cose terrene, che come nell’universo aristotelico-tolemaico non smettono di ruotargli attorno significandosi e assumendo un senso. Dato il presupposto divenuto epocale di una morale che ha detto “no” alla vita e di una volontà non meno distruttiva e vendicativa nella dinamica del “vorrei-ma-non-posso” (la volontà dell’uomo di fede: posto a metà tra l’animale e dio e alle prese con la coscienza della morte, nel suo interminabile Golgota di sofferenza che lo porta a sacrificare quei beni della vita che sono i piaceri, e che gli antichi chiamavano felicità), il passaggio dalla volontà alla volontà di potenza sembra quasi obbligato nella concezione lineare del tempo, e raggiunge uno dei momenti più alti nella Tecnica (= volontà di volontà, volontà di sottomettere il mondo al proprio potere -il capitale come strumento di dominio-, la cui fine può delinearsi solo nella distruzione totale). A immagine e somiglianza, appunto; custode della Parola (che, nel delirio escatologico, da sempre dice “non desiderare!”). Un dispotismo concettuale su cui può storicamente fondarsi il pericolo reale di una tirannia (le cui premesse sono nell’obbligo morale della redenzione da compiersi sacrificandosi nel mondo, inteso come il luogo in-vista-di-cui operare espiando per la propria salvezza: e-sposizione morale-progettuale in una specie di calvario della Ragione che interviene con prepotenza nella dialettica servo/padrone), a cui non si sottrae il mondo cristiano (che ha saputo con arroganza inaccettabile appropriarsi della Verità) inteso come il termine ultimo di un grandioso sillogismo in cui si giunge a superare la differenza ontologica tra soggetto e predicato, l’uomo e dio (Hegel); e dunque a rovesciare i principi teoretici precedentemente elogiati (la liberà) nel loro opposto. Non così in una visione circolare della storia in cui il volere vuole il futuro ricadendo però insistentemente in un passato che non smette di riportare l’uomo nella sua situazione naturale, che è poi in ultima analisi l’inevitabile condanna nella morte. Dal cielo alla terra: nella disperazione insanabile in cui il volere, l’agire, il fare nulla possono sui piani della Provvidenza (eccetto ricercare i segni che sono il simbolo della destinazione al cielo: calvinismo e capitalismo; dove la proprietà è una specie di ipostasi dell’Io, un cerchio magico che mentre da una parte alimenta il suo delirio di onnipotenza, dall’altra magicamente lo protegge esorcizzando la cattiva coscienza), che non smette di riproporre il passato della gettualità colpevole dell’essere con-dannato come cosa tra le cose.

La chiusa è allora obbligata: così come la legge morale per quanto autonoma e indipendente presuppone un dio nomoteta che la giustifichi, non solo come causa ultima ma come principio architettonico (ed è a questa interiore esigenza della Ragione che le chiese devono la loro fortuna), non di meno la legislazione divina presuppone una perversione dell’essere, una colpa radicale. Ad ognuno è superficialmente consentita la possibilità della scelta, una scelta che è però in qualche modo obbligata e precondizionata dalle circostanze e dagli eventi. La volontà ha una sua precisa dignità “psicologica”, nella possibilità della redenzione (problema psicologico prima che teologico) a cui rimanda, ma è altresì costretta a muoversi in quell’orizzonte del possibile che rimane una costante riproposizione del già-stato (scrive la Arendt citando Nietzsche. “La volontà non riesce a volere a ritroso, non può arrestare la ruota del tempo… Io-voglio e non-posso, da tale impotenza il filosofo fa derivare ogni umana malvagità: il risentimento, la sete di vendetta, la sete di potere dominare gli altri”). E’ pertanto un concetto positivo e rivolto indissolubilmente ad un interesse pratico, nella ricerca necessitante di un Bene di cui si deve partecipare ogni singola individualità. La Arendt, impegnata nella rivalutazione delle categorie politiche con l’intenzione di sanare il dissidio agostiniano tra le due città, la filosofia e l’essere-nel-mondo (una proposta filosofica in grado di conciliare il pensiero con le altre facoltà spirituali -il volere e il giudicare- e con l’azione), e dunque lodevolmente interessata a ricondurre ognuno difronte alle responsabilità oggettive sulle scelte operate in campo etico (la coscienza ad esempio davanti al dramma antisemita o l’assenso dato ai regimi totalitari fascista-nazista), sembra avere in parte accantonato le aporie teoriche e strutturali non secondarie (ineliminabili; vedi Schopenhauer Sulla libertà del volere) che nascono dalla riconduzione del fenomeno della volontà (resta infatti un concetto di natura nascostamente giuridica e penale, funzionale all’ordine sociale, ma di difficile collocazione in ambito ontologico. Non così ovviamente ragiona il “potere”, che si serve di un’argomentazione brutalmente paralogica: se infatti non foste individui liberi non si potrebbe giudicarvi, e poiché sempre venite giudicati per quello che fate allora dovete essere necessariamente liberi. Logico. E’ un sillogismo elementare, come si fa a non capirlo?) ad una noumenica libera possibilità di scelta. Il dubbio infatti rimane e non sembra facilmente risolvibile: non sarà in qualche maniera obbligato l’assenso di una persona a cui si chieda di scegliere tra una vita che si prospetta felice (se vogliamo, e non è comunque determinante, di una felicità che non inquini e non entri in conflitto con quella degli altri), ricca, sana, bella? Piuttosto che infelice, povera e malaticcia. Non sarà un banale errore della Ragione il suo rifiuto, ignoranza, o più semplicemente follia?

Con queste parole non si pretende certo di chiudere un problema secolarmente aperto nella sua implicita contraddittorietà. Il concetto fondamentale di libertà, senza il quale non si spiegano la volontà e il dovere, ha infatti una storia millenaria ed è di difficile formulazione concettuale: in Socrate è la finalità di un cammino che la presuppone come combustibile da bruciare nell’esercizio maieutico, in Spinoza addirittura paradossalmente inserita come necessità in un ordine di cose che tutto prevede meno che il libero arbitrio, in Heidegger come essenza stessa della Verità (in quanto lasciar essere nell’aperto dell’essere), una specie di non libertà, uno storico fenomenizzarsi di un principio del tutto ateoretico più simile ad un luogo vissuto, emotivo e tonale che ad una vuota e astratta verbosità. In Fichte sarà addirittura l’essenza dell’infinito stesso, la ragione morale del non-Io quale continua e perenne attuazione (un infinito porre il non-Io per superarlo all’infinito), dio come ordine morale del mondo. Ma questa, si sa, è un’altra storia.

NB. Per una scelta stilistica (discutibilissima, per carità) scrivo la parola “Dio” in minuscolo.

In MANUALE STORICO CRITICO DI PSICOANALISI

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