MI FAI MORIRE DAL RIDERE

riso

Gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso d’amore non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; tuttavia c’è un altro fenomeno sempre presente nelle relazioni amorose, la risata. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere, definendolo con il neologismo Marxlust. La risata come maschera o distrazione rimanda al significato del potere attraverso un meccanismo che preserva la vita privata a detrimento di quella pubblica; provoca un cortocircuito nel senso, un’assenza di significato come rimando al reale) perché le sue intenzioni primarie sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Il riso non è il motto di spirito di Freud e non serve solo per una scarica pulsionale; nasce e si risolve piuttosto nella manque-à-être, rimane nelle fenditure del significato dando accesso non tanto all’Altro grande, ma risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della relazione in quanto trabocca dal discorso e richiama all’assenza di un fondamento nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, strappandolo dall’ordine abituale lo svuotiamo di senso per consegnarlo al nulla. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. La relazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità, non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non unisce l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata sacrifica l’altro, non lo conferma: “Il riso comune … è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio; non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse … Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve” (Bataille). Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem. XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo possibile di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, eterogeneo a quello della parola. La materia della pulsione non è quella della parola; è fatta di un composto simbolico, mentre la pulsione ha una natura erogena. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse e si muovesse il senso, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: quando si parla qualcosa gode. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo si parla per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, modulazioni, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua.

FRAMMENTI 3D

Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Per quanto l’uomo neghi la natura, essa ricompare nelle deiezioni, in un gesto che non è solo negazione dialettica, perché nella risata i termini non sono superati come nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine concettuale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica (se non come motto di spirito), lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là dell’inconscio, trascina nel luogo in cui si apre una ferita che non può rimarginarsi. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia non canalizzabile. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo e attuale sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io, che è una radicale inesorabile erosione della vita. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio, rendendolo assimilabile. E’ una voce che parla dall’infinito prima che dall’inconscio. Più che Freud o Lacan è stato Nietzsche a dare una disincantata spiegazione della risata, in quanto terapia contro la veste restrittiva della moralità logica; una retrocessione dalla ragione così come scorre nel discorso. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito.

Frammenti di un monologo amoroso

 

LE ANIME NON MORTE

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Nel discorso amoroso “tu sei tutto per me” è un’espressione che compare di frequente. Apparentemente gratificante per l’altro, rivela però una certa morbosità. Il significato di questo “tutto” compromette la stabilità della scena, mettendolo in realtà ai margini l’altro. I significati non sono semplici segni, hanno origine nella disposizione mentale del parlante e diventano di uso comune, danno luogo ad una rappresentazione della realtà; di per sé sono elementi sensibili alle ingerenze emotive e psicologiche, per somiglianza o contiguità (metafore o metonimie), per timologia o ellissi dei nomi. Possono quindi trasformare quello che è vero, rivelando una struttura paranoica; ma ciò dipende dal soggetto nella relazione che instaura con l’Altro. In essa Lacan vede amplificata la struttura di significati che non riesce a controllare, al punto che il suo essere dipende da quello che avviene nel campo dell’Altro. Nella paranoia l’Io è più parlato che parlante, è abitato e perseguitato da ciò che dice questo Altro assoluto; a dominare sono il suo automatismo e il suo linguaggio. L’attenzione del paranoico è rivolta essenzialmente all’Altro, da cui deriva il senso dell’oppressione e della persecuzione. Se la paranoia dimostra l’importanza della struttura sull’Io, nel senso che il soggetto dipende da ciò che avviene nell’Altro, l’isteria determina il desiderio come un piacere insoddisfatto. La paranoia racconta la dipendenza del soggetto dal ruolo dell’Altro, quanto l’isteria il desiderio come desiderio inappagato. Tra paranoia e isteria, rimane comunque sempre l’Io nella sua dipendenza dall’ordine dato dall’Altro. Posto così il desiderio dimostra la prevalenza nella struttura paranoica del significato sul segno, del significante che domina nella lingua e sulla realtà. Il segno è l’elemento fondamentale della comunicazione, ma è il significato ad articolare la relazione, che può essere scollata o meno dal reale sulla base della dominanza dei significanti che si muovono nell’Altro. Dopo la lezione di Jakobson, Levi–Strauss ha fornito un modello all’antropologia basato sulla linguistica strutturale e in particolare sulla fonologia. Con l’analisi del mito e poi del racconto ha concentrato l’attenzione sulla narrazione (e quindi sull’enunciazione); da cui lo sviluppo della narratologia, che puntava l’interesse sulle proprietà strutturali del linguaggio letterario, sulla sintassi delle strutture narrative e non sulla semantica o sulla rappresentazione della realtà. A sua volta R. Barthes, nell’articolo Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, escludeva la referenza, considerandola subordinata in letteratura. La funzione del parlare o raccontare non è di rappresentare, ma di costituire uno scenario verosimile; per giustificare questa posizione Barthes rimandava a Mallarmè, sottolineando che il linguaggio si sostituisca al reale, rimarcando la sua necessità. La realtà frammentata nel linguaggio paranoico viene sostituita dal significato del “sei tutto per me”. Se sul piano linguistico e relazionale tale significato diventa assoluto e pone ai margini la realtà, su quello sessuale è devastante manifestando una natura fortemente patologica. Con la massima “il rapporto sessuale non esiste”, Lacan mostra che nel rapporto sessuale l’uomo cerca di scongiurare il godimento femminile percepito come insaziabile. Gli uomini sono angosciati dal senza limite del corpo femminile e da una domanda d’amore che si presenta senza fondo. Lacan in una lezione del Seminario XVIII (1971) afferma che per un uomo la donna è l’ora della verità, in quanto espone l’uomo a qualcosa che non può controllare. Il “senza fondo” appunto, il vuoto di un piacere illimitato. Da “tu sei tutto per me” a “sono tutte puttane” il passo è breve. Quando gli uomini affermano che la donna sia una puttana cercano di ridurre l’incomprensibilità del piacere femminile. Provano a controllare la tensione che tale infinitezza comporta. Questo tipo di linguaggio dimostra la struttura paranoica della personalità. L’uomo o ha l’erezione o non ce l’ha, una donna può fingere e recitare. L’enunciato “sono tutte puttane” è un modo per esorcizzare l’angoscia indotta dall’infinito femminile. Alcuni uomini vivono la sessualità non solo come un esercizio di dominio, ma come difesa per arginare ciò che spaventa nella sessualità della donna. L’innamoramento è l’antitesi di questo tipo di amore angosciato e semanticamente malato. E’ vita non morte, non per niente il suo anagramma è “anima non morte”. Non ancora impostato rigidamente nei significati, il significante è ancora libero di fluttuare ordinando il discorso. Non è detto che le orecchie percepiscano la parola innamoramento; nell’eccitazione scombinano le lettere per similitudine, assonanza, metafore o metonimie. E ciò che l’innamorato sente in uno scenario sano che integra l’Altro piuttosto che subirlo, non è tanto l’amore quale “sei tutto per me”, narcisistico presagio paranoico di morte (il “ritorno del morto”, R. Barthes) che si muove nelle parole, ma l’interesse per l’altro come una cosa viva, mobile, tipica appunto delle anime non morte.

Da FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO (L’AMORE TRA L’IMMAGINARIO E IL REALE)

MEMORIE DI UNO SMEMORATO

Certe malattie sono un problema più per il medico che per il malato. Così per non deluderlo fingevo una sofferenza che non provavo.

La mia assenza della memoria era assenza di Dio. Adesso erano tranquilli, avevo anche io la mia croce e potevo esercitare la sua volontà, non la mia. Mi avevano dato una guarigione di stato. (Memorie di un ex smemorato).

Un giorno cominciai a ricordare e mi dimisero. La libertà i medici la chiamano dimissione. Questioni semantiche, ma detta così fa meno paura. Insomma mi misero in libertà proprio quando riuscirono a sistemare le briglie. Ricostruendo l’Io, mi avevano finalmente dotato di uno di quei cosi elettronici che controlla i detenuti fuori dalla galera, unica libertà concessa dallo stato. Dicevano che ero guarito perché avevo un passato, ma il mio disgusto cresceva. Si erano presi cura di ciò che a loro faceva paura, non della malattia.

Mi chiusero in una cella con un altro smemorato. Vi farete compagnia, dicevano. Come compagno di disavventura mi avevano dato uno affetto da TGA, quindi un altro vuoto, anche più grande del mio. Smarriva il presente con la frequenza di un battito di ciglia. La cosa divertente era che si presentava ogni dieci minuti. Lo invidiavo per quel suo nascere e morire ad ogni istante.

Certe malattie sono un problema più per il medico che per il malato. Così per non deluderlo fingevo una sofferenza che non provavo.

Lei soffre di amnesia, diceva il medico. Veramente io non soffro, è a voi che rode il culo. Non la voglio la vostra memoria. Ho rotto la catena dei significanti, perché si ostina a tenermi nella caverna?

Più di tutto mi impegnavo a non ricordare il mio nome, lo vivevo come un marchio d’infamia. Ho sempre avuto l’immagine di una scolaresca all’appello ogni volta che mi sentivo chiamare, e sempre mi veniva di rispondere “assente!”. Non ero smemorato, mi ero assentato.

Avevo dimenticato tutto. Non solo Dio, che non avevo mai incontrato. Ero come uno straniero in una terra sconosciuta. Guardavo la mia gente, quella che mi avevano fatto credere fosse a me simile per abitudini e cultura, arraffare, delinquere anche nelle piccole cose, per poi smoccolare veleno contro chi la amministrava. Non era amnesia, era disgusto per questi esseri dissimili e difformi. Scordavo finalmente le mie radici e la nausea che mi procuravano.

L’uni-verso è una strada piena di divieti di accesso, con quei cartelli blu e freccia bianca che obbligano a viaggiare in una sola direzione. Io avevo preso la vita contromano. La chiamavano amnesia e invece soffrivo di una banale apostasia.

La violenza comincia quando al nostro Io viene dato un nome. Col nome diventiamo una persona e nello specifico quella e non un’altra persona. Come individui ci rendono appunto individuabili. Ho provato a spiegarlo al funzionario che era venuto a censirmi, che sono e non sono, di incasellarmi come un essere in transizione, incerto, instabile se preferiva. Ma pare che lo stato non riconosca la categoria. L’impiegato ragionava col principio di identità. E io un’identità proprio non l’avevo.

Quante piccole improbabili identità. L’identità presuppone un Io sempre uguale a se stesso. Ma io non sono sempre uguale, io divengo.

Ho un’intolleranza all’Io, mi provoca aerofagia. La causa della mia amnesia si trova nella pancia, non riesco proprio ad assimilare un’identità.

Desideravo un rapporto tautologico con me che non fosse onanismo.

Facevo indigestione dell’Io. E stavo male. Di troppa identità si muore.

Ogni volta che mi radevo affondavo il rasoio e mi procuravo piccoli tagli. Cercavo nelle gocce di sangue qualcosa che mi facesse sentire vivo e nel dolore di ricordare quella parte di me che non riuscivo a vedere. E più premevo la lama, più il bruciore esasperava una memoria nella carne. Credo fosse un modo per sottrarmi, per un istante solo, a un presente che era fatto di niente.

Mi guardavo lungamente allo specchio, specie al mattino. E non mi riconoscevo, non vedevo niente alle spalle di quell’uomo, c’era solo un incomprensibile presente. Cercavo la storia, la vita in quel volto incupito come da un dolore appena sfiorato. Sembrava sgombro di tutto, anche da se stesso. Mi piaceva, per carità ma avrei dato non so cosa per un ricordo. Non avevo memoria di nessuno spasmo; avevo davanti il nulla e, questo sì, che mi spaventava.

Ogni volta che vado all’anagrafe mi prende l’ansia. La carta di identità in particolare. Ci ho messo tanto a perderla un’identità e che fa, me la ritrova un triste funzionario comunale?

Mi sono perso non so quante volte. Mi perdevo perché non avevo nulla da cui tornare, non trovavo nemmeno la strada di casa. Una casa è fatta di ricordi prima che da muri. E la mia era vuota, non l’avevo riempita d’amore, non ne ero capace. Mi allontanavo da me stesso e mi cercavo altrove. Non avevo dimenticato, la realtà è che non avevo proprio vissuto. E forse avevo anche cessato di esistere. Il dottore mi guardò appena, ma non negli occhi, e scrisse su un foglio amnesia dissociativa generalizzata.

Non avevo niente, solo silenzio. Il vuoto nella memoria acuiva il mio sentirmi altrove. Ero come su un’isola, ed ero solo. Non mi lagnavo, ondeggiavo anzi su una zattera piuttosto comoda. Il vociare della gente, quello sì che mi infastidiva, pareva un inutile bla bla. Ci ridevo pure delle facce che vedevo, con quelle cupe espressioni di finta allegria. Come quando in un film sfasi le immagini dalle parole; una cosa comica appunto. Sentivo di bambini che esaurivano mamme già esaurite, uomini alle prese con disturbi ordinari, che sono fastidiosi proprio a causa dell’abitudine e dell’immancabile ripresentarsi a ogni maledetto giorno. Cosicché manco la notte li lasciavano riposare, pensavo, in attesa di vivere la stessa giornata, sempre e solo quella. Ecco il vantaggio di essere rimasto senza memoria, ogni giorno per me era comunque nuovo. La chiamavo vita questa cosa e per loro era invece una malattia.

Non ricordavo nulla. Prima dimenticavo e basta. Le chiavi di casa, la macchina, il volto del vicino che mi ostacolava il passaggio sulle scale, con quell’alito acre e violento che rendeva sgradevole il buon giorno, chiedendomi chi davvero fosse. Poi ci ho preso gusto e la cosa ha cominciato pure a piacermi. Entravo in una stanza, in un locale e non riconoscevo le pareti, le facce, le voci, gli odori. Era come ricominciare ogni giorno, libero dai tegumenti familiari. La sensazione di vuoto però la ricordo, e cercavo di tornare sui miei passi, interrogandomi su quante volte ero passato per quella via. Ma anche la pace che quell’assenza mi dava. Mi sentivo bene, alla fine. Senza vincoli, amici, colleghi, costrizioni parentali. E vivevo, per la prima volta, con una leggerezza che non conoscevo. Avevo lasciato il mio Io da qualche parte e non lo cercavo e non volevo trovarlo. Ero felice, il resto non m’importava.

Dai FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO

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