MISS ITALIA: SE IL PAESE VA A PUTTANE…

SE IL PAESE VA A PUTTANE E SONO TUTTE A CASA TUA, FATTELA UNA DOMANDA…

Tante, troppe polemiche su una ragazza uscita vincente da un concorso di bellezza, di per sé vecchio e inutile. Gli intellettuali sbandierano il gonfalone dell’intelligenza e della cultura, le donne politicamente impegnate sono indignate, le femministe di ritorno scioccate. Guardiamola bene l’intelligentia italiana. Ricordo Lucio Colletti, studioso di tutto rispetto e marxista abbracciare il nuovo che avanzava (e il nuovo era Berlusconi), giornalisti lacchè deflorati per deontologia, Rutelli che appendeva il cappio in Parlamento nel nome della laicità dello Stato e che pro beneficio è diventato un integralista alla Torquemada, Dalema che passa per essere l’uomo più intelligente della politica nostrana, le cui profezie sono rimaste proverbiali (ad ogni elezione dal 1994 in poi se ne usciva con la frase: “l’Italia finalmente si è liberata del Giullare”, puntualmente smentito dai fatti, tanto che ad ogni vaticinio mi toccavo). La laicità dello Stato, argomento fondamentale, nessuno ne parla, pochi la vogliono. Si discute invece di una bella ragazza che incespica nell’italiano, non di migliaia di persone che ogni giorno sono mutilate nel diritto e nella dignità. Di mignotte in questo Paese ce ne sono eccome, ma non stanno sul podio di Miss Italia. Raccontano favole e lo sappiamo, ci vuole però la faccia tosta per trasformare Cappuccetto Rosso nel Lupo Cattivo. In Italia si va a puttane, è lo sport nazionale, ma di notte quando la moglie dorme e il prete è in sacrestia. Tanta troppa morale da parte di un Paese che ha il tasso più alto di evasione e che in Europa (per questo e non certo a causa di una bella figliola) è rimasto ai margini del diritto e della civiltà.

(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)

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MI PADRE

dai RIGURGITI ROMANESCHI

RIGURGITI ROMANESCHI

E FATTELA UNA RISATA !

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Cene
C’è una mancanza nelle favole, la risata. Le principesse non ridono mai, i principi hanno un tono grave e serioso, così che quando leggiamo “e vissero felici e contenti”, viene da dire “ma va là”. Ed è strano, perché dove non c’è un sorriso non c’è amore. Nella tecnica narrativa gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; c’è però un altro fenomeno sempre presente nella narrazione amorosa, la risata, ed è proprio quello che manca nella fiaba. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere definendolo con il neologismo Marxlust) perché le sue intenzioni sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Ma quello che conta, nella vita come nelle favole, è altrove, nell’assenza, in quello che non c’è. Il sogno, l’attesa, il principe. Il riso non è solo il motto di spirito di Freud e non serve unicamente per la scarica pulsionale; nasce e si risolve nella manque-à-être, rimane nelle fenditure risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della narrazione, in quanto trabocca dal discorso e richiama a un’assenza nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, lo strappiamo all’ordine abituale, lo svuotiamo di senso. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. Nella favola la narrazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità; non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non lega l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata appunto, che sacrifica desacralizzandolo l’altro. Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem.XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, diverso da quello della parola, pulsionale. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: “quando si parla qualcosa gode”. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo parliamo per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua. Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla, si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine razionale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica, lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un Oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito. Le principesse muoiono, ma c’è subito un principe innamorato pronto a salvarle. Morale della favola: il principe sta sul cazzo alla principessa, ma la poveretta che deve fare? E’ imprigionata in una storia che la vuole in attesa di un aristocratico, non può evadere dai limiti della narrazione. Arriva quindi a palazzo dove appunto “quando si parla qualcosa gode”; e c’è da supporre, che tra una chiacchera e l’altra qualche risata col giullare (da ciullare, che è quello che tromba) finisce per farsela.
(Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)

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CRONACHE DALL’EPIGASTRIO

CRONACHE DALL’EPIGASTRIO

(memorie dalla pancia)

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Per il titolo avevo pensato a “Memorie dal sottosuolo”, ma pare che qualcuno l’abbia già usato. Ho ripiegato su “Cronache dall’epigastrio”, anche perché non era mia intenzione discutere di inconscio, pensiero o anima. Il mio sottosuolo si trova nella pancia e il libro racconta appunto le sue cronache. Non amo i totalitarsmi dell’Io e le sue aberrazioni metafisiche. Esiste qualcosa fuori di me e questa cosa la chiamo reale. Mi hanno insegnato che questo altro da me sia la realtà, e mi piace. Mi piace perché mi colloca, mi definisce, mi dimensiona nella cosa. E mi fa sentire vivo. Se esiste qualcosa, la sua esistenza si conferma non in una relazione col mio percepirla, ma indipendentemente da quello che sono. Non ho un Io tautologico, non mi va di delirare in termini idealistici e penso che la verità non necessiti della mia presenza. Sono certo che possa fare a meno della mia ontologia. Non sono un metafisico e la veritas (come) est adaequatio rei et intellectus (la verità come l’adeguatezza o corrispondenza della cosa e dell’intelletto) mi pare una forma di delirio. E così guardo alle cose e per lo più mi piacciono, le spoglio e le scopro ogni giorno. E ogni giorno mi sembrano meravigliose.
CRONACHE DALL’EPIGASTRIO, al link

I TRE PORCELLINI

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I TRE PORCELLINI

E’ una delle favole a contenuto morale. Non tutte hanno questa finalità, le più belle rimangono le storie senza senso. Truffaut diceva che i film non servono a mandare messaggi, e aveva ragione; se ho un messaggio invio un telegramma. La struttura della favola dei maialini è banale, e la banalità penalizza il racconto. Tre fratelli, di cui due sfaticati e un lupo. Il lupo non manca mai, nella sintassi morale è necessario a dare corposità alla narrazione. La cosa ricorda Kant, che non credeva in dio, ma doveva pur supporlo per darsi una ragione dei fenomeni morali. Era un paralogismo, ma quanto ci piacciono i paralogismi e appunto le favole. I due perditempo alla fine si ravvedono; viene premiato l’impegno del maialino laborioso, che ha saputo costruire la casa coi mattoni piuttosto che con la paglia. Vorrei vedere la faccia di Jimmy quando riceverà la notifica di Equitalia. Perché la morale notifica sempre qualcosa ai porcellini laboriosi, gli altri non ne hanno bisogno. E’ una storia che manca di stupore (io per esempio mi ci sono sempre annoiato), per quanto nel fondo abbia in comune con le altre storie l’abreazione del piccolo lettore, che impara a controllare l’angoscia facendo bruciare il culo al canide. E non è bello e mi pare immorale.
(DA Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani)

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