SE NON CI FOSTI, IO TI INVENTAVO

L’amore non ha età

E’ commovente                                             
vederli tra la gente
mano nella mano
a dirsi ti amo
due vecchi alla posta
nella fila scomposta.

E così penso a noi
nel giorno del poi
con le teste canute
e le rughe cresciute.

Uno nell’altro in adorazione?
No, io e te con la pensione

 

Si supera tutto

Si supera tutto
soprattutto il male
quello graffia
e se non graffia non vale.
Si supera tutto
le ferite d’amore
l’ansia, le sciagure, il dolore.
Si supera tutto
il fato, il destino.
Si supera tutto
ma non il Pandino
guidato da un vecchio strano
che viaggia col freno a mano

 

Benedetto sia

Benedetto sia 
il punto, il mese e l’ora
il tramonto e l’aurora
dove t’ho incontrato
e baciato.

Tornare su quei sentieri di parole
mai nuove
sgrammaticate e violate
a lenti passi nella sintassi
a cercare il mio altrove.

Mille volte ancora tornerei.
Poi però mi hai detto “se sarei” …

 

Io, tu e le mensole

Le voci di un mondo a vivere
il rumore dal quale attingere
qualcosa che pare vero
i passi, la luna, il cielo.

E poi ci sei tu, bella come una dea
però col cazzo che ti porto all’Ikea

 

adesso(1)

libro

MI FAI MORIRE DAL RIDERE

riso

Gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso d’amore non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; tuttavia c’è un altro fenomeno sempre presente nelle relazioni amorose, la risata. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere, definendolo con il neologismo Marxlust. La risata come maschera o distrazione rimanda al significato del potere attraverso un meccanismo che preserva la vita privata a detrimento di quella pubblica; provoca un cortocircuito nel senso, un’assenza di significato come rimando al reale) perché le sue intenzioni primarie sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza come fondo sostanziale. Il riso non è il motto di spirito di Freud e non serve solo per una scarica pulsionale; nasce e si risolve piuttosto nella manque-à-être, rimane nelle fenditure del significato dando accesso non tanto all’Altro grande, ma risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della relazione in quanto trabocca dal discorso e richiama all’assenza di un fondamento nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, strappandolo dall’ordine abituale lo svuotiamo di senso per consegnarlo al nulla. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. La relazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità, non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non unisce l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata sacrifica l’altro, non lo conferma: “Il riso comune … è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio; non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse … Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve” (Bataille). Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem. XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo possibile di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, eterogeneo a quello della parola. La materia della pulsione non è quella della parola; è fatta di un composto simbolico, mentre la pulsione ha una natura erogena. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse e si muovesse il senso, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: quando si parla qualcosa gode. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo si parla per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, modulazioni, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua.

FRAMMENTI 3D

Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Per quanto l’uomo neghi la natura, essa ricompare nelle deiezioni, in un gesto che non è solo negazione dialettica, perché nella risata i termini non sono superati come nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine concettuale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica (se non come motto di spirito), lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là dell’inconscio, trascina nel luogo in cui si apre una ferita che non può rimarginarsi. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia non canalizzabile. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo e attuale sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io, che è una radicale inesorabile erosione della vita. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio, rendendolo assimilabile. E’ una voce che parla dall’infinito prima che dall’inconscio. Più che Freud o Lacan è stato Nietzsche a dare una disincantata spiegazione della risata, in quanto terapia contro la veste restrittiva della moralità logica; una retrocessione dalla ragione così come scorre nel discorso. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito.

Frammenti di un monologo amoroso

 

QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO

labbra

Più che altrove, è nel discorso amoroso che il corpo sembra perdere l’anatomia, gli organi, il nome, l’ordine, la forma. Da presenza diventa assenza, da identità differenza. Lo svuotamento consente di avvicinare l’altro, di riempire di vuoto un altro corpo parimenti assente. L’innamoramento provoca uno squilibrio dell’Io e la degenerazione del corpo. La frantumazione del corpo è però qualcosa di fecondo e produttivo; è una forma di dissimulazione prima che di dissacrazione: “Sento sgretolarsi il terreno sotto il mio pensiero e sono portato a considerare i termini che adopero senza l’appoggio del loro senso intrinseco, del loro substratum personale. Meglio ancora, il punto che sembra collegare questo substratum alla mia vita mi diventa di colpo stranamante sensibile e virtuale” (Artaud, 1966). Il pensiero si frammenta, perde di consistenza, si sgretola in una sottrazione semantica e dà luogo a un’erosione profonda dell’Io, non più in grado di controllare ciò che dice o pensa. Il linguaggio inteso come struttura organizzante è fuorviante, non appartiene al soggetto ma cospira comunque alle sue funzioni. Si presenta come la dilatazione di un corpo sotto dittatura o dettatura, dominato da una mancanza radicale. E’ il vuoto che diventa parola, non l’essere che manca a se stesso. La frattura è assoluta, diventa la regola nel discorso amoroso e l’inconcliabilità tra i corpi rimane abissale. La rivolta della carne si presenta nel corpo senza organi, mentre il desiderio scorre per le fenditure cercando di colmarla: il desiderio si ritrova in questa trazione, ed è come una domanda che cerca la risposta nel corpo dell’altro.

FRAMMENTI DI

Nella donna la domanda si avverte come silenzio, in quello che non dice, nel lasciarsi perpetuare come soggetto d’amore più che penetrare. Come una mancanza che genera un eccesso di pienezza, prima che la fame prenda nuovamente il sopravvento. Per un istante la simulazione diventa assimilazione e il senso della sazietà identità. La frattura che separa un corpo dall’altro racconta qualcosa che il soggetto non riesce a sopportare. E’ l’essere che il desiderio cerca e vuole, imbattendosi in una privazione ontologica. Non il reale o l’identità, perché sono presenti da sempre; premono e esondano dal corpo come un piacere in eccesso che i significati dell’Io non riescono ad arginare.

Da Frammenti

MARISA … FACCE TOCCA’ LA SISA

Io e Anna Maria ce semo visti il film Straziami ma di baci saziami. Stemo ancora ridenno e mo ve lo raccontemo. Anna è marchiggiana doc (o marchisciana) e io ce sto a provà a scriverce, ché a me quella lingua me piace tanto.

straziami

Di Anna Maria

L’hai visto il film sennò na che l’hai da vedè, che poi ce famo na recensione pari pari a linguaggio. L’ho visto sì, me pare perfetto e preciso,  se mischia er romano co la marchiggiana. Marchiggiano voi dì,  linguaggio s’è mica femmina. Linguaggio  eh appunto, na sta attenti proprio co questo caro mio che a fraintenne ce vole n’attimo,  me vorrai mica fa  confonne e famme fa  un miscuglio gay, eh no, de romanzo popolare se tratta e qui se sa, voce de popolo voce de Dio, na sta alla verità come menzogna detta, se po’ mica pervertì la perversione,  certe cose se fanno ma nun se dicono insomma, non ce impicciamo eh, restamo in superficie pe la cosa lì, come se chiama mannaggia… quella  che fa filà tutto liscio mentre dentro te rodi er fergato… il quieto vivere ecco! Vedi che bella parola, mica come quelle che me suggerisci tu, che poi te fai nemici, che secondo me te amano e te fanno bannà pe avette tutto per sé, e che ce vole a capì, oggi ce semo quasi e ancora se fa gli gnorri. E pe tornà ai giorni nostri mo’ tu t’hai da vedè Closer, come che è, naltro film, naltra lingua, sempre lo stesso minestrò travestito da minestra, dove  appunto, ce se scambia le donne, ma quarcosa nun torna, e chi nun torna è l’omo pe l’omo capisci? Ma torniamo nelle grazie del Signore, a sapè quale, perché poi tornacce se sa come se fa, l’importante è che nun se ne accorga delle tante pen.. azz  no! pene non se po’ dì, sia mai lor signori fiutassero quarcosa, pasciò ecco, pe niente!!!  ma quanto ce piace la pasciò, sai quella che ce scusa e ce fa fa le cose più insensate, ieri come oggi,  non come quelle de ieri, ma sempre insensate so, se va avanti insomma perché come se dice correa l’anno… e pe tornà da dove siamo partiti appunto,  quel che correa nella storia de sto film qua era il 1969 e semo a Roma, e se stanno a celebrà la Giornata folcloristica nazionale. Ecco che a un certo punto, nun te scocca il córpo de furmine tra un certo Marino e Marisa, e basta poco eh, du parole, perché lui romano de Roma se trasferisca da lei marchiggiana de le Marche.

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Eccoli dunque, che carini che so, e pure ingenui però, fanno na tenerezza…  e certi giri ce stanno pure, come l’ostacolo che non po’ mancà. Prima er padre de lei se oppone, ma la divina provvidenza che ce sta a fa? Appunto, e siccome Dio vede e provvede, quando se deve ripiglià sti due giovani che pare proprio che se vogliono suicidà, se riprende er… no siamo nelle Marche e se dice “lo” vecchio, ecco,  ma non è che poi tutto po’ andà liscio come l’olio, e come se dice  lo diavolo ce mette lo zampino, certo che se tirava via questo invece del vecchio,  cioè tutto lo diavolo eh, no solo lo zampino come al solito, ma se sa,  quei due glie piace giocà a rimpiattino co noi, e i tifosi de parte se ne accorgono mica, e procedono, pe modo de dì, verso un altro ostacolo. Eh sì, quello delle malelingue, ce n’è sempre una, che invaghita de Marino, glie fa crede che la sua Marisa mica se l’è tanto pura, qui mi sa so sforato co lo dialetto, facciamo che sia della malalingua via! E se torna a Roma, oh yea,  questo deve esse no strascico de Closer, perché Marisa sconvolta qua se trasferisce, e così Marino dietro pe tornà da do era partito. E ne passa de tempo prima che i due se rincontrano, e quanno succede,  l’amore se riaccenne sì,  ma che te pareva, ecco  nartro ostacolo, un certo Umberto sarto sordomuto che Marisa s’è sposato.  Staorda però, perché è proprio vero che chi te toglie da l’impicci te c’ha messo, o pe nun da la soddisfazione a due creature umane de risolvelo da loro,  perché pure il libero arbitrio, qui ar contrario, se dice ma nun se da, e se fa pe niente, dunque e pe questo a venì,  decisi gli amanti a  toglie de mezzo Umberto,  il cosiddetto terzo incomodo, che poi fa comodo, da qui i sensi de corpa che poi so de indecisiò, mettono in atto de fa saltà la cucina e co questa pe  aria il povero sarto,  ma questo che te fa? invece de morì  s’è preso solo un forte shock,  e non te racquista udito e parola? perdendo de diritto la moglie però, eh sì, perché mo’ cià da scioglie er voto, come desiderio della madre,  e se deve da fa frate cappuccino, e  così… glie tocca pure da benedì  “er” e “lo” matrimonio de Marino e Marisa.

MARISA … FACCE TOCCA’ LA SISA

Di Giancarlo Buonofiglio

Dopo quello che ha scritto Anna me tocca parlà in marchiggiano pure a me. E mo ce provo, guarda un po’. E voio dì ‘na cosa, che a me Balestrini Marino me piace. Pure Marisa di Giovanni però, che lavora in fabbrica e fa i pantaloni da omo. Il film di Dino Risi è la storia di du giovani vittime dell’egoismo del mondo e della scarsa comprenzione che c’ha per noi giovani. Come quella tra Lara, Živago e Viktor Komarovskij, ma il protagonista è l’amore, quello della canzone Nell’Immensità e nel senso che non esiste nulla all’infuori di esso. Con Marisa che fronda: musicabilmente me piace, ma le parole no. Sono scritte per chi si ama, come me e te. Tante grazie, e io sarei nullità? Nullità intesa in confronto all’immensità dell’infinito. Non me convince pe niente, il nostro amore è lui l’immensità, nullità semmai sarà tutto il resto. In senso che non esiste altro all’infuori di esso, del nostro amore? E’, vidente. Può darsi, del resto è un concetto presente anche nella canzone C’è una casa bianca che.

Marino (‘ntelligente, struito, che trovò di collocare il suo lavoro a Sacrofante) a un scerto punto va a cercà la fidanzata fuggita a Roma, dopo averla ‘ngiustamente accusata di essere andata pe l’alberghi co Scortichini Guido Komarovskij (che se tu sei il Gigante di Rodi io non so il nanetto de Biancaneve; ‘n campana). Fa il cameriere ma finisce in disgrazia e si butta nel Tevere. Prima però cerca conforto nel Telefono Amico:

– Psichiatra: Chi è Marisa?
– Marino: Eh… è la mia fid…
– Psichiatra: No, Marisa è la mamma!
– Marino: La mamma?
– Psichiatra: Il bisogno della mamma che lei probabilmente avrà perduto giovanissima…
– Marino: 86 anni
– Psichiatra: Ecco, vede?

Mo me tocca però che ve spiego il titolo mio: Marino comincia a strillà Marisa, Marisa… e uno che c’aveva le recchie comme lu somaru, gli risponne: facce toccà la sisa. Poco gentili questi romani; ma nelle Marche c’erano l’etruschi e apposta je l’hanno date. A me le sise me piacciono, pe carità, ma non ne parlamo che il discorso è troppo spregiudicante. ‘Ntanto Marisa s’è sposata con Umberto Ciceri, sarto sordomuto che ordina il caffè fischiando e cucina come nonna quando te tocca la panza e dice: viè qua, che te la riempio. So corna e Marino se gioca i numeri (fanno 58 e chissà poi perché); la vita è pur sempre una roda che gira e li sordi e l’anni non se rifiuteno mai. Torna ricco e spietato a riprendersi i ricordi, il sapore dei baci, un disco per l’estate, le domeniche a Macerata e la prima frase che mi scambiasti: gradisce una gomma alla licurizia? No, grazie annerisce i denti. Marisa cede (la musica è finita, gli amici se ne vanno, impossibile resistere al melodramma) e come nei romanzi d’amore progettano l’inzano gesto, liberarsi del sor Ciceri (ma il rimorso arriva subito: il nostro amore ce stava portando su una brutta china, come tante volte si legge sulla cronaca degli amanti diabolici).

Umberto Ciceri, all’apparenza omo mite e marito premuroso ma violento tra le lenzola: come si chiama uno (domanna Marisa) che nell’intimità picchia la moglie? E che ne so, nervoso? Ma no, è un vizio, una perversità. Ma allora è un notanaso… un nasochista ! Ma il film va visto tutto, che qua con le parole ce famo notte.

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Marisa, facce toccà la sisa

Ora noi facciamo fatica a capire, ma anche quello era un modo per fare la corte. L’uomo era omo e pertanto malandrino, anche con le parole. Per quanto sgradevole, l’approccio urlato veniva comunque digerito in un mondo che parlava una lingua povera, contadina, almaccata dai fotoromanzi e dalle epiche del cinematografo, svincolata dai fasti grammaticali (che sono roba da signori). Ma è possibile che in tre mesi di questa schermaglia neanche un bacio? Tempo al tempo, Casanuovo. Una sintassi affrancata dalla scola, che si capisce meglio. Il sintagma percorreva la catena dei significanti e per metonimia la “sisa” prima che una metafora sessuale catturava il fotogramma della femmina (il profumo della tua pelle me fa ‘mpazzì… voglio ‘nfangà, voglio ‘nfangà). Storicizzandola anche. Corposa, materna, sostanziosa (ti mangerei; fallo… fallo). Perché la fame era fame e pure quello era un modo per saziarsi. Almeno l’occhi, come direbbe Marino. La lingua rurale tracciava la passione tra Marino e Marisa collocando la donna in un ambiente domestico e riproduttivo (Marisa mia, mia… mia… no sono la signora Ciceri; sempre di qualcuno ‘nzomma era). All’interno di un contesto familiare (ingenuo e immacolato: me so comportato sempre da gentilomo), il corpo femminile veniva abitato da significati che andavano al di là delle parole, diventando un modo per dare voce prima che ai ruoli tra maschio e femmina (so mai venuta qualche volta con te? Non ce sei venuta ma ce potevi venì, perché io so ‘n cavaliere e non ho ‘nsistito), a una narrazione romanzosentimentale come nel libro (o meglio nel film con Omar Sharif) di Pasternak, che ordinava la scena muovendo da un desiderio che pure c’era (hai voluto solo il mio corpo, non avrai la mia anima). Perché sempre di sceneggiata e di letteratura comunque si trattava.

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Pe concludere: Straziami ma di baci saziami racconta le peripezie di du giovani innamorati, de sor Ciceri e del fantasma della gelosia che ha i muscoli di Scortichini Guido. Se ride e se piagne nel film, però se ride de più. E tu Anna cara, te la si fatta ‘na risata con me?

Link

Film completo su Youtube

Nell’immensità

Telefono amico

Regia: Dino Risi
Interpreti: Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Pamela Tiffin, Gigi Ballista, Moira Orfei, Ettore Garofolo
Durata: 100’
Origine: Italia/Francia, 1968
Genere: Commedia

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LE FLATULENZE DI NONNA

Ieri ho ribloggato sbadatamente l’articolo di GengisJokerBaneKhan. Sbadatamente perché non era voluto; per sopraggiunti limiti di età non posso più discutere di sesso orale. L’argomento mi affascina, intendiamoci, sul piano ovviamente filosofico. Parlare di sesso in maniera autobiografica è una cosa da giovani virgulti e qua quel poco che è sopravvissuto lo dobbiamo oramai al Sildenafil; il rischio è di passare per un adolescente di ritorno, o un vecchio satiro che non si rassegna all’entropia della carne. Ci ho però pensato sopra e ho scritto questa cosa; l’articolo è diviso in tre parti: cose che non puoi più fare in età geriatrica; perché è bello essere anziani; le flatulenze quali ultima sublimazione della sessualità.

vecchio

COSE CHE NON PUOI FARE IN ETA’ GERIATRICA

Gli ostacoli sono di ordine psicologico e somatico; morali no, gli anziani sono infinitamente più licenziosi dei ragazzi. Il Diavolo non li vuole più e allora non rimane che pontificare. Non puoi guardare con interesse una fanciulla o approcciarla come farebbe un giovane, il rischio è che la stessa inveisca contro il vegliardo laido e sporcaccione, esponendolo al diniego e alla riprovazione dei passanti. Vecchio porco, ricoglionito, ha un piede nella fossa ma vuole esumare la mummia dal pannolone, se Renzi non gli dava gli 80 euro era meglio (congiuntivi a parte il senso non cambia). Insomma ci siamo capiti e non è bello. L’anziano non può rincorrere una giovane per strada, l’osteoporosi, l’artrosi, la sciatalgia e spesso l’enuresi non glielo consentono. Qualcuno poi ha l’enfisema, difficile starle al passo. Il bacio diventa complicato con la protesi dentaria e sa anche di Kukindent; le mani causa artrite si serrano ai fianchi come tagliole e ci vuole molta fantasia per assimilarle alle carezze; l’epidermide a pelle di daino non scivola su quella levigata; le resurrezioni sono rare e si fanno sempre più insoddisfacenti, il vecchio prima che a una disfatta si espone al ridicolo: non sa neanche lui se quello che sente nel cuore è amore o uno scompenso atriale. Se è un anziano a dire: mi fai morire, ebbene è meglio prenderlo in parola.

PERCHE’ E’ BELLO (TUTTO SOMMATO) ESSERE ANZIANI

Una ragione si deve pur trovarla per andare avanti, perché ai vecchi rode proprio il culo. Quando qualche neurone sopravvive ancora, vedono bene che mentre loro fanno briscola al circolo degli ottuagenari, i nipoti si accompagnano con ninfette che provocano le rigidità a tutti note. Alla fine il risentimento è abbastanza naturale; vero è che la natura sia diventata impietosa e consente loro di perpetuare il rancore oltre ai limiti fisiologici. Una volta la fine sopraggiungeva prima ancora del deterioramento organico e mentale; le cose sono però cambiate. Malauguratamente o per fortuna, fate voi. L’anziano gioca a bocce o a poppe (come ho sentito dire), dal filosofo Karl Poppe; è un epistemologo per erotica assonanza. Non esce la sera ed è libero di farlo, nessuno gli chiederà mai se sta male, se la ragazza lo ha lasciato, se ha problemi a socializzare. I vecchi stanno a casa e si sa. Guardare i cantieri è uno sport eccitante e travolgente, gli sbarbati non possono capire. Il gusto di dare buoni consigli arriva con l’età e il giudizio (lapidario ed è il caso di dirlo) stimola un rigurgito di piacere: ai miei tempi ! Con quel che lascia intendere la sentenza: non come voi debosciati e drogati; finocchi qualche volta (perché tanto i giovani sono sempre e comunque attratti dalle aberrazioni: e per il vetusto vuol dire tanta droga e poca figa). La pensione, vabbè lasciamo stare, con quella non ci campano e non infierisco. Il privilegio della badante qualcuno però ce l’ha e l’amore al catetere è un’esperienza unica e irripetibile (anagraficamente parlando). Rutto libero e flatulenze varie, il corpo che si decompone espelle tossine aeriformi; rispetto ai giovani gli anziani possono concedersi qualche disinvoltura lasciandosi andare ai piccoli legittimi godimenti del corpo in decadenza. Ma questo è appunto il prossimo argomento, che è anche un caro dolce ricordo di nonna Cecilia. Sorda come una campana, che rombava tranquillamente per casa le commoventi esternazioni. Inconsapevole del fatto che i parenti ci sentivano invece benissimo.

LE FLATULENZE DI NONNA

Nonna scoreggiava. Nella vita o ti scoraggi o scoreggi; c’è un filo diretto tra la visione del mondo e quel che avviene nell’epigastrio; al di là delle diverse profondità che vanno dal pensiero (più in superficie) alle emozioni (che si radicano piuttosto nella paleocorteccia) quello che conta viene concentrato nella pancia. C’è chi trattiene, gli idealisti e i metafisici per intenderci che pongono una barriera intellettuale tra le cose, e chi come nonna (che era fenomenologa prima ancora che materialista) le avvicina senza sovrastrutture linguistiche o formali. Le cose si possono pensare o vivere, nonna di più a quanto pare le fagocitava. Di per sé già la parola comprensione rimanda alle mani e al corpo che afferrando qualcosa conosce; nella fagocitazione c’è qualcosa di ancora più profondo, la masticazione del pensiero che diventa appunto una ruminazione, con quel che ne consegue sul piano fisiologico. Perché nonna ruttava, seppure arrossendo al momento dell’emissione di quella gutturale il cui suono è pur sempre sgradevole. Faceva brup e qualcosa di simile al raglio di un asino, poi si metteva la mano davanti alla bocca (poi, perché le mani non erano sincronizzate e i movimenti si facevano lenti con gli anni) quasi a scusarsi per essersi lasciata andare ai bisogni ineluttabili. Ed è proprio questo il punto, si lasciava andare verso le cose come se Platone (o Agostino) non fosse esistito. Le idee sono pur sempre portate da intellettuali e il suo era uno stomaco contadino abituato al poco in tavola; l’ho vista inorridire davanti a antipasti raffinati ma non sostanziosi. Le idee appunto che mettono fame e non saziano mai. Nonna non aveva quella forma di analità intellettuale, non tratteneva; si limitava alla sospensione del giudizio quando poteva e se proprio non riusciva evocava dall’intimità ciò che aveva assorbito. Anche i pensieri, che non per niente sono fatti di aria. Non c’è più nonna, era un’altra epoché la sua; con poche certezze, nessuna verità, ma capace di avvicinare le cose nella loro superficiale e sensuale profondità.

L’AMORE NEL MULINO BIANCO

La pubblicità è una forma di comunicazione persuasiva; attira, corteggia, stimola l’azione e il comportamento. Il messaggio pubblicitario, breve ma ripetitivo, riproposto all’inverosimile lusinga, lambisce il desiderio, non aiuta però a conoscere. Ha una lingua elementare e emotiva, perché se il prodotto è di largo consumo deve arrivare a chiunque. Una valvola mitralica non necessita di essere pubblicizzata. Il tecnico la compra sulla base di informazioni che dettagliano l’oggetto per quello che è. Non sempre il prodotto è buono, è vero, ma a quel punto ci sono le leggi e una valvola difettosa manda il paziente al Creatore, ma il chirurgo diritto in tribunale. Tra ciò che si dice dell’oggetto e l’oggetto deve esserci una corrispondenza o quantomeno l’articolo è tenuto a rispettare i requisiti minimi di sicurezza e funzionalità. Questo per dire che ci sono prodotti che non richiedono la pubblicità perché la qualità e una buona gestione del mercato li fa vendere e altri invece, la maggioranza delle cose, in cui la qualità risulta marginale per la vendita. Ma è cosa nota, un pessimo prodotto si vende comunque, basta saperlo raccontare. Ci sono cose inutili, di cui non abbiamo bisogno, spesso dannose che vendono moltissimo. Altre più modeste nella comunicazione ma con caratteristiche superiori rimangono sullo scaffale del supermercato. La discriminante che stabilisce il successo di un prodotto è proprio la pubblicità, una buona campagna di marketing non racconta l’oggetto, lo rende desiderabile finché crea il bisogno e spesso anche una reale dipendenza. Quante volte avete sentito dire: mio figlio mangia solo i biscotti del Mulino Bianco? Ecco, non è vero; o meglio la mamma fa in modo che lo diventi. Lasciato il bambino in una foresta solo con i biscotti all’olio di palma, li mangia eccome e magari anche la confezione e la commessa che glieli ha venduti. La cui commestibilità peraltro (parlo della commessa) non è mai stata veramente provata.

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Analizziamo come esempio lo spot di Gavino Sanna: il Mulino Bianco ha acquisito credibilità, racconta una storia (il mulino, il prato, le spighe di grano) e la famiglia pur vivendo isolata, in un’abitazione medievale, in mezzo al nulla è felice perché ha tutto ciò di cui ha bisogno, i biscotti che benché riportino l’avvertenza sulla confezione “non contiene olio di palma”, sono stati  (il più delle volte) maneggiati con lardi idrogenati, edulcoranti e altro ancora; che abbiano inquinato la Salerno-Reggio nel trasporto dal mulino a casa vostra, che il grano provenga da Chernobyl passa come un peccato veniale. Le mamme sanno che l’olio di palma fa male e i pubblicitari lo ricordano loro ogni volta che possono. Non ho mai veramente capito perché non ci sia allora la scritta “non contiene uranio o acido arsenioso”. Vabbè. La pubblicità ha istruito le persone prima ancora delle università e conosciamo i danni che provoca l’olio esorcizzato con una competenza pari se non superiore a quella di un medico internista. Ma il Mulino Bianco è un marchio e un marchio dà fiducia e poi l’ha detto la televisione. Abbiamo votato un pubblicitario per vent’anni, non stiamo parlando del nulla. La pubblicità non veicola solo il consumo, in realtà fa qualcosa di più radicale, racconta l’attualità, non guarda al futuro ma al presente. Le interessano i soldi, quelli che abbiamo ora non quelli improbabili di domani. E’ così racconta storie reali più del reale stesso. Guardando Ernesto Calindri che beve il Cynar al tavolo in una strada trafficata, si capisce subito che siamo negli anni ’50 o ’60, oggi se va bene gli automobilisti ti stirano, dopo ovviamente averti fregato il digestivo. Oppure il povero Franco Cerri che ha vissuto un decennio nella lavatrice per convincerci che stare a mollo nel Bio Presto è meglio che tuffarsi nel mare dei Caraibi; oggi sarebbe un comportamento antisindacale. O ancora il gentiluomo che con una flessione sicula dice alla moglie: “Io ce l’ho profumato”, insorgerebbero le donne del mondo civile. Che dicesi civile proprio perché se anche ce l’hai profumato, non puoi comunque dirlo a nessuno e meno che mai a un esponente del sesso femminile. Per non dire di quella signora che confessava alla nipotina che Gennarino (pur gran lavoratore) non aveva il pesce come Santuzzo suo. Qua si configura proprio il reato di molestia a un minore, e non mi pare poco. Una pubblicità del genere sarebbe oggi improponibile. E’ però inutile dilungarsi, ma tanto ci sarebbe da dire, a cominciare dalla famiglia Boccasana. chiudo questo scritto con alcune immagini promozionali, normali una volta e assolutamente inconcepibili nel nostro tempo. Per inciso, mi piacciono più di quelle attuali; hanno dell’ironia e un nobile artigianato della parola che Oliviero Toscani se lo sogna. La pasta Barilla “ditalini” non scioccava nessuno, veniva richiesta con tanta naturalezza quanto ingenuità. Come quel condomino in uno spot degli anni ’90 che sentita la vicina ricciolina e desiderata gridare  con rabbia: “Esco e vado col primo che incontro”, si fermava davanti alla porta dicendole con un sorriso alla Pozzetto/Johnny Depp: “Buonaseraaaa”. Qualunque mora dai capelli increspati e con un Diavolo per boccolo oggi gli risponderebbe: e tu, che cazzo vuoi?

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Il mio preferito rimane comunque lui

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il video alla pagina

Un mio maldestro tentativo di spot pubblicitario (booktrailer)

Renato Pozzetto, i libri, l’omosessualità

IL SORRISO DELL’AMORE

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Gli innamorati si avvicinano con la parola e il discorso d’amore non è mai vuoto in quanto nella parola scorre il desiderio; tuttavia c’è un altro fenomeno sempre presente nella scena amorosa, la risata. Lacan ha affrontato marginalmente la questione (rileggendo Marx, in relazione all’umorismo del capitalista, collocava il riso tra plusvalore e plusgodere, definendolo con il neologismo Marxlust. La risata come maschera o distrazione rimanda al significato del potere attraverso il meccanismo che preserva la vita privata a detrimento di quella pubblica; provoca un cortocircuito nel senso, un’assenza di significato come rimando al reale) perché le sue intenzioni primarie sono dirette ad ordinare uno scenario che confermi la presenza piuttosto che l’assenza come fondo sostanziale. Il riso non è il motto di spirito di Freud e non serve solo per una scarica pulsionale; nasce e si risolve piuttosto nella manque-à-être, rimane nelle fenditure del significato dando accesso non tanto all’Altro grande, ma risolvendo l’ordine nella mancanza. Che questa assenza nel discorso sia significativa si vede dal piacere che muove a soddisfare un bisogno primario. Il riso porta oltre il campo della relazione in quanto trabocca dal discorso e richiama all’assenza di un fondamento nella parola. Come una traccia che segna in profondità il linguaggio. Bataille ha inquadrato il problema sul piano antropologico. Descrive la risata come una forma embrionale di sacrificio, qualcosa di sacro in cui le forze distruttrici della dépense sono in azione. Ridendo di qualcuno lo dissacriamo, lo strappiamo all’ordine abituale, lo svuotiamo di senso per consegnarlo al nulla. Lo prendiamo in giro, girandogli appunto intorno senza centrare la verità. La relazione amorosa non è un luogo nel quale trovare la verità, non si tratta di ordinare i termini nella presenza (o nell’identità), pur spostata nel simbolico o nell’immaginario, ma nel vuoto dell’essere e nella privazione di un’identità. L’amore disturba, disorganizza, scioglie e non lega l’Io e l’altro col linguaggio dell’Altro; si presenta piuttosto nel sopraggiungere di un elemento perturbante e disorientante. La risata sacrifica l’altro, non lo conferma: “Il riso comune … è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio; non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse … Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve” (Bataille). Non sempre “dove si parla si gode” (Lacan, Sem.XX). Il piacere amplia e dilata la scena amorosa, la prolunga per conservarla nel tempo. Per Lacan il campo della parola è il campo possibile di ogni relazione, del simbolico e dipende da ciò che accade nel linguaggio. Il campo del godimento è quello della pulsione, oltresimbolico, eterogeneo a quello della parola. La materia della pulsione non è quella della parola; è fatta di un composto simbolico, mentre la pulsione ha una natura erogena. Il problema della psicoanalisi consiste nel verificare in che modo la funzione simbolica della parola possa modificare l’economia della pulsione. Con una certa autocritica Lacan dice che là dove prima pensava si comunicasse e si muovesse il senso, in realtà si trova il godimento. Il linguaggio è invaso dal godimento: “quando si parla qualcosa gode”. Lacan imbastardisce il rapporto tra la parola e la pulsione come se la pulsione interferisse con la funzione della parola. Non solo si parla per essere ascoltati; la parola necessita di essere riconosciuta e a un tempo fa anche da veicolo a quello strano godimento che è il godimento della parola stessa, il piacere del parlare. E tuttavia la lingua langue, mentre costruisce un flusso di fonemi rimanda a un venir meno, si indebolisce nell’incedere delle parole; non è solo un pieno di voce ma è composta anche da silenzi, pause, modulazioni, assenze. Quando langue non si verifica una stasi nel desiderio che continua comunque a defluire. Tra gli innamorati in particolare, prima si distorce, poi si carica di nonsense, i neologismi si contraggono in monosillabi incomprensibili, infine interviene la risata e in essa il sacrificio di un ordine nella lingua. Non è un fenomeno marginale, il riso che subentra alla lingua serve a riempire connotandolo di un senso il vuoto delle parole. E così quella che era la dépense, ciò che non serve a nulla si presenta come la “parte maledetta per eccellenza” (potlach), qualcosa di sostanziale che serve a dare continuità al discorso. Per quanto l’uomo neghi la natura, essa ricompare nelle deiezioni, in un gesto che non è solo negazione dialettica, perché nella risata i termini non sono superati come nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta di un superamento, ma di una trasformazione. La “parte maledetta” consegna l’altro ad una natura sconosciuta all’indagine concettuale, il piacere è subordinato e consegue. Il riso, se è di difficile integrazione nella teoria psicoanalitica (se non come motto di spirito), lo è ancora di più nell’indagine filosofica. Pone di fronte all’estrema corruzione del linguaggio e del pensiero, va al di là dell’inconscio, trascina nel luogo in cui si apre una ferita che non può rimarginarsi. Apre uno spazio sconosciuto in cui si respira qualcosa di nuovo, il desiderio non dell’Altro, ma di un oltre. La risata è il momento in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è essenziale e che Nietzsche ha raccontato come il grido angosciato di una soggettività felice. Bataille ha maturato la consapevolezza di un’incapacità nel dire l’impossibile, l’estremo, connotando positivamente lo svuotamento dell’Io. La “parte maledetta” rivela che nella natura sia presente un eccesso di energia non canalizzabile. Sempre secondo Bataille l’uomo è dotato di un’energia eccedente; questa “parte maledetta” deve defluire attraverso la nutrizione, la riproduzione, la morte. La risata consente un primo e attuale sacrificio dell’eccedenza, non come appagamento della libido ma in quanto usura e straniamento dall’Io, che è una radicale inesorabile erosione della vita. A un tempo si rivela però anche come una specie di riassorbimento, qualcosa che nasce da quanto c’è di indigesto nel linguaggio, rendendolo assimilabile. E’ una voce che parla dall’infinito prima che dall’inconscio. Più che Freud o Lacan è stato Nietzsche a dare una disincantata spiegazione della risata, in quanto terapia contro la veste restrittiva della moralità logica; una retrocessione innocua dalla ragione così come scorre nel discorso. L’amore -ed è questo il punto- irrompe come una dolce morte che traccia ridendo qualcosa di infinito.

Frammenti di un Monologo Amoroso

(L’amore tra l’immaginario e il reale)

LE ANIME NON MORTE

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Nel discorso amoroso “tu sei tutto per me” è un’espressione che compare di frequente. Apparentemente gratificante per l’altro, rivela però una certa morbosità. Il significato di questo “tutto” compromette la stabilità della scena, mettendolo in realtà ai margini l’altro. I significati non sono semplici segni, hanno origine nella disposizione mentale del parlante e diventano di uso comune, danno luogo ad una rappresentazione della realtà; di per sé sono elementi sensibili alle ingerenze emotive e psicologiche, per somiglianza o contiguità (metafore o metonimie), per timologia o ellissi dei nomi. Possono quindi trasformare quello che è vero, rivelando una struttura paranoica; ma ciò dipende dal soggetto nella relazione che instaura con l’Altro. In essa Lacan vede amplificata la struttura di significati che non riesce a controllare, al punto che il suo essere dipende da quello che avviene nel campo dell’Altro. Nella paranoia l’Io è più parlato che parlante, è abitato e perseguitato da ciò che dice questo Altro assoluto; a dominare sono il suo automatismo e il suo linguaggio. L’attenzione del paranoico è rivolta essenzialmente all’Altro, da cui deriva il senso dell’oppressione e della persecuzione. Se la paranoia dimostra l’importanza della struttura sull’Io, nel senso che il soggetto dipende da ciò che avviene nell’Altro, l’isteria determina il desiderio come un piacere insoddisfatto. La paranoia racconta la dipendenza del soggetto dal ruolo dell’Altro, quanto l’isteria il desiderio come desiderio inappagato. Tra paranoia e isteria, rimane comunque sempre l’Io nella sua dipendenza dall’ordine dato dall’Altro. Posto così il desiderio dimostra la prevalenza nella struttura paranoica del significato sul segno, del significante che domina nella lingua e sulla realtà. Il segno è l’elemento fondamentale della comunicazione, ma è il significato ad articolare la relazione, che può essere scollata o meno dal reale sulla base della dominanza dei significanti che si muovono nell’Altro. Dopo la lezione di Jakobson, Levi–Strauss ha fornito un modello all’antropologia basato sulla linguistica strutturale e in particolare sulla fonologia. Con l’analisi del mito e poi del racconto ha concentrato l’attenzione sulla narrazione (e quindi sull’enunciazione); da cui lo sviluppo della narratologia, che puntava l’interesse sulle proprietà strutturali del linguaggio letterario, sulla sintassi delle strutture narrative e non sulla semantica o sulla rappresentazione della realtà. A sua volta R. Barthes, nell’articolo Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, escludeva la referenza, considerandola subordinata in letteratura. La funzione del parlare o raccontare non è di rappresentare, ma di costituire uno scenario verosimile; per giustificare questa posizione Barthes rimandava a Mallarmè, sottolineando che il linguaggio si sostituisca al reale, rimarcando la sua necessità. La realtà frammentata nel linguaggio paranoico viene sostituita dal significato del “sei tutto per me”. Se sul piano linguistico e relazionale tale significato diventa assoluto e pone ai margini la realtà, su quello sessuale è devastante manifestando una natura fortemente patologica. Con la massima “il rapporto sessuale non esiste”, Lacan mostra che nel rapporto sessuale l’uomo cerca di scongiurare il godimento femminile percepito come insaziabile. Gli uomini sono angosciati dal senza limite del corpo femminile e da una domanda d’amore che si presenta senza fondo. Lacan in una lezione del Seminario XVIII (1971) afferma che per un uomo la donna è l’ora della verità, in quanto espone l’uomo a qualcosa che non può controllare. Il “senza fondo” appunto, il vuoto di un piacere illimitato. Da “tu sei tutto per me” a “sono tutte puttane” il passo è breve. Quando gli uomini affermano che la donna sia una puttana cercano di ridurre l’incomprensibilità del piacere femminile. Provano a controllare la tensione che tale infinitezza comporta. Questo tipo di linguaggio dimostra la struttura paranoica della personalità. L’uomo o ha l’erezione o non ce l’ha, una donna può fingere e recitare. L’enunciato “sono tutte puttane” è un modo per esorcizzare l’angoscia indotta dall’infinito femminile. Alcuni uomini vivono la sessualità non solo come un esercizio di dominio, ma come difesa per arginare ciò che spaventa nella sessualità della donna. L’innamoramento è l’antitesi di questo tipo di amore angosciato e semanticamente malato. E’ vita non morte, non per niente il suo anagramma è “anima non morte”. Non ancora impostato rigidamente nei significati, il significante è ancora libero di fluttuare ordinando il discorso. Non è detto che le orecchie percepiscano la parola innamoramento; nell’eccitazione scombinano le lettere per similitudine, assonanza, metafore o metonimie. E ciò che l’innamorato sente in uno scenario sano che integra l’Altro piuttosto che subirlo, non è tanto l’amore quale “sei tutto per me”, narcisistico presagio paranoico di morte (il “ritorno del morto”, R. Barthes) che si muove nelle parole, ma l’interesse per l’altro come una cosa viva, mobile, tipica appunto delle anime non morte.

Da FRAMMENTI DI UN MONOLOGO AMOROSO (L’AMORE TRA L’IMMAGINARIO E IL REALE)

TI AMO MA TI ODIO

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Ci innamoriamo delle persone sbagliate, di immagini alterate, di parole accennate, di verità taciute, di frasi volute, della menzogna e a volte di una carogna. Di ciò che è presente e assente, ci innamoriamo del nulla, del vuoto, del niente.
Come un desiderio che soffoca nel petto, negli occhi, nella testa, in quel che resta.
Ci innamoriamo di quello che non esiste ma che sussiste e resiste, di cose non viste, dalla mente, dalla bocca, dal cuore, ci innamoriamo di parole; di quello che vale e di quello che fa male. Cerchiamo risposte a domande mal poste. Ci innamoriamo di ciò che è diverso e lontano, di una domanda che immaginiamo, desiderata e insensata, di una chiamata. Ci innamoriamo di chi è diverso, che sfugge, che è perso, che dura magari un giorno, un battito di ciglia, di chi non ci assomiglia. Ci innamoriamo di chi ci ferisce e non si capisce. Di chi è crudele e infedele, di chi non ci vuole bene. Ma ci innamoriamo sempre e comunque di ciò che mente o è assente, perché è nell’assenza che troviamo risposta a quello che siamo, a quello che vogliamo. In un desiderio riflesso che diventa bisogno di se stesso; in quel posto strano dove è possibile dire ti amo. Dove l’Io si guarda nell’altro in un differire che è come morire; ci andiamo per non scomparire o svanire. E ci spostiamo in quell’impossibile luogo, che è come una voce che chiama lontana; dove l’Io è denso e ha finalmente un senso. Ci andiamo perché solo là è possibile cercare, sperare, respirare, vivere, afferrare quello che sparisce e rapisce; come davanti a uno specchio per guardarsi nel tempo e non vedersi mai vecchio. In quel posto sbagliato dove puoi essere amato. Ci incontriamo nell’essere altrove dove l’Io muore, innamorandoci in un disperato presente fatto di mancanza, di nulla, di niente.
E allora posso anche odiarti, ma non posso fare a meno di amarti. Perché senza di te mi sento svuotato, perduto, annullato. Ci torno perciò spesso per incontrarti lo stesso. Ed ora sto là dove mi hai tenuto e temuto distante per guardarti un istante. Sepolto tradito stravolto. Dove però esisto e dove ti ho visto: là dove posso guardarmi senza voltarmi.

Da Jungitalia rivista di psicologia analitica

In Frammenti di un monologo amoroso (l’amore tra l’immaginario e il reale)

SESSO E PULSIONE DI MORTE IN INTERNET

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Freud si è occupato della pulsione sessuale soprattutto in relazione alla conflittualità con l’Io, rinvenendo la causa del sintomo nel conflitto pulsionale. La libido, sostiene Freud, può assumere varie strade, fino a mutare in una ritorsione contro l’Io: trasformando l’amore in odio, il piacere di guardare in esibizionismo, il sesso in esasperazioni (spostando la relazione erotica in un altro luogo libero dal campo dell’Io, come avviene appunto in internet dove il contesto è più dinamico e meno vincolato). Oltre a trasformarsi nel suo contrario, la pulsione assorbita nell’immaginario di una relazione virtuale è libera di fluttuare volgendosi anche contro il proprio corpo, oltre che sull’Io; meccanismo non difforme, per quanto ridefinito nella modernità tecnologica, dal masochismo tradizionale. Il fenomeno può manifestarsi coi fatti e più spesso con le parole. Nel qual caso è più che mai corretto parlare di sublimazione della pulsione, spostamento dell’eros nell’altra scena, in un non luogo appunto della lingua e del discorso. La pulsione è sublimata nella misura in cui è deviata verso una nuova meta tendente all’esclusione degli oggetti reali socialmente valorizzati (il marito/la moglie, il contesto sociale). Il processo è automatico e permette un’adeguata scarica delle pulsioni sessuali e aggressive altrimenti minacciose per l’Io.

1) Sublimando il desiderio in un non luogo con non-persone di non-relazioni, la soddisfazione del piacere può avvenire senza disturbare il principio di realtà (ragione per cui spesso le persone che fanno sesso in internet non si incontrano nella vita reale; il sogno non deve diventare un bisogno e l’altro deve rimanere confinato nell’immaginario). E’ piuttosto diffuso come fenomeno; si fa sesso in rete sfogando la libido su uno schermo, con persone che sono surrogati e non vita reale. La morale è protetta dal non incontro genitale, l’Io dal non avere dato un corpo e un nome all’altro; mentre il piacere assume la forma di una letteratura, di un sogno. Tutto questo diventa inesorabilmente rimozione.

Pulsione di morte e masochismo.

Con “Al di là del principio del piacere” e “Io e l’Es” Freud introduce il concetto di pulsione di morte. La pulsione di morte si contrappone alla pulsione di vita, che comprende la pulsione sessuale e quella conservativa. L’istinto di morte non è direttamente osservabile, pur essendo dominante in alcuni soggetti. Freud lo individua nella coazione a ripetere, nel sadismo e nel masochismo che definisce primario. Come un’ecolalia nel discorso. Un masochismo che non nasce dalla paura della punizione per gli impulsi sadici ma che diventa bisogno autopunitivo. La sofferenza non deriva più dal conflitto tra la pulsione sessuale e la sua repressione, ma dal bisogno di sentire dolore, la cui soddisfazione è considerata fonte di piacere e appagamento.

2) Internet, dove la relazione viene spostata in un’altra scena, ha consentito al principio di morte una maggiore fluidità ad irrompere nell’Io senza rimozione e sacrificio pulsionale. Reich (e poi Marcuse) obietta che il discorso di Freud è viziato da un concetto destoricizzato della civiltà, configurando il principio di realtà come una mistificazione. Come in un teatro dove in scena sale finalmente il desiderio, questo tipo di relazione immaginaria originata da una pulsione distruttiva, consente tuttavia all’Io una buona aderenza alla realtà. L’adesione a un principio di realtà fragile, contaminato dalla pulsione di morte, è però precaria e virtuale. Il disagio persiste anche dopo il ritorno nella vita reale.

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Da Frammenti di un monologo amoroso (l’amore tra l’immaginario e il reale)