Classe mista di commedia sexy all’italiana

Due blogger infoiati e una gentil donzella a discorrere di film che hanno fatto la fortuna degli oculisti di tutta Italia… (Ogni refuso è puramente dovuto a decimi mancanti e ostinazione a non portare gli occhiali). Con Cuoreruotante, RedBavon, G.Buonofiglio.

PARTE PRIMA

Il ruolo della donna nella commedia sexy all’italiana

di Cuoreruotante

Mi è stato chiesto, senza alcuna forzatura, di scrivere un articolo insieme ai due mostri sacri di WordPress. Ovviamente ho prontamente rifiutato, ma il mio dissenso è stato accolto con dispiacere, così non mi sono potuta esimere nell’aiutarli. Aiutare loro? Questo sì che è paradossale. Nella fattispecie l’argomento non è propriamente nelle mie corde (a differenza dei due fetenti), così mi sono documentata… non leggendo, ma guardando.

Ho acceso il computer, digitato i titoli dei film che mi sono stati suggeriti di guardare, preso una confezione di pop corn e una lattina coca cola  e, comodamente sdraiata, ho visto:

– La patata bollente, 1979, su Wikipedia la trama (Wikipedia)

– Spaghetti a mezzanotte, 1981 (Wikipedia)

– Rag. Arturo De Fanti, bancario precario, 1980 (Wikipedia)

Insieme ad altri spezzoni di pellicole simili su YouTube. Quello che leggerete di seguito è il mio pensiero, non tanto sul genere di film perché quello è materia loro, sul ruolo avuto dalla donna nelle commedie sexy all’italiana.

Mi sono chiesta, prima di tutto, come potessi fare per “entrare nella parte” , allora, a giorni alterni, sotto lo sguardo disorientato dei miei, ho indossato le parigine (tipiche calze autoreggenti moderne che, personalmente,  amo tantissimo), ho aggiunto il Babydoll (che uso esclusivamente d’estate, maquandomai), mi sono “coperta” con la classica vestaglia trasparente fatta di pizzi che ognuna di noi ha nell’armadio (ce l’avete, vero?) e per ultimo mi sono fatta fare la permanente (ai capelli eh) trasformandomi così nella brutta copia di Edwige Fenech, di Gloria Guida e di Barbara Bouchet,e cercando, tra  ammiccamenti e docce sexy, alternando candore e malizia, di diventare quella femme fatale che tanto faceva, e fa, sognare gli uomini e i ragazzi da quel periodo fino ai giorni nostri.

Quello che principalmente mi è saltato all’occhio (languido) è che il personaggio femminile non è lo stereotipo di una figura oca e promiscua, con una parte inferiore e marginale all’interno della scena, ma riveste ruoli e funzioni ben costruiti e presenti nella trama non per evidenziare la virilità maschile, impersonificata da uomini per lo più bruttini (perché si trascurano),  ma per supportarli, amarli e prendersene cura.

Una donna con cultura, determinata, disinvolta, appassionata, per lo più fedele e provocante, maliziosa, fintamente sciocca, velatamente vestita, dispettosa a piacimento, mai completamente estranea alla scena anche se potrebbe sembrare il contrario. Intanto che l’uomo si perde nel guardarla con le autoreggenti, in una vasca da bagno ricoperta a metà di schiuma, mentre sale una scala con il gonnellino, lentamente, scalino dopo scalino, consapevole del suo sguardo, lei è padrona e può, con un semplice battito di ciglia, fargli fare quello che vuole. Perché è lei che muove i fili, che si avvicina e che si allontana, spudorata e ritrosa, sfacciatamente impudica, ma con quel sorriso che, come avviene sempre a dispetto degli anni, dei luoghi e delle situazioni, ti rigira come un calzino senza che neanche tu te ne accorga.

E cosi vediamo l’insegnante, la dottoressa, la poliziotta, la liceale che diventano il perno centrale delle peripezie che vengono raccontate nella scena, alle quali viene riservata  una sessualità che non è celata, ma neanche accentuata, come può essere un vedo e non vedo in un rapporto sessuale  appena intravisto che intriga di più di uno consumato a mo’ di ginnastica a favore di telecamera.

Tutto questo costruito in maniera magistrale, con la figura femminile che non è oggetto del desiderio ma soggetto in primo piano, non come nei cinepanettoni che ci propinano ogni anno sotto le feste, che non fanno ridere, non appassionano, non trasmettono nulla.

PARTE SECONDA

“È morta Cassini!” “Chi Nadia?” “No, la sonda”

di RedBavon

Questo lo scambio al fulmicotone avvenuto durante una pausa pranzo tra due miei amici. L’amico più giovane ha letto sul monitor del PC della scomparsa del segnale della sonda Cassini mentre discendeva nell’atmosfera di Saturno; l’altro amico (e anche io) abbiamo associato “Cassini” alla nota attrice che – inutile fare giri di parole – deve la sua popolarità al suo posteriore, tanto che venne definito all’epoca come “il più bello del mondo”.

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Bella, ma ingenua, che non sa di essere così bella, tuttavia capace di inaspettata furbizia per manovrare gli uomini come più le aggrada. I registi decidono di farle interpretare questo cliché per quasi tutta la carriera di attrice.

Daltronde di cliché è fatta la commedia sexy all’italiana, sottogenere della più impegnata commedia all’italiana.

Una trama vera e propria non c’è, soprattutto quando viene scelta una struttura a brevi episodi come nel primo film in cui ha recitato la Cassini, Mazzabubù… quante corna stanno quaggiù (1971).

Altri contesti come ospedali e scuole funzionano come contenitore di barzellette, cornificazioni a go-go, personaggi perennemente arrapati, donne dalla bellezza prorompente, gag scoreggione e irriverenti; contenutisticamente irrilevante, l’intreccio è assente e lascia il passo a un intrattenimento che oscilla costantemente tra l’indelicatezza e il limite della decenza, almeno quella “dichiarata”, non quella realmente sentita dalla società dell’epoca.

Alla luce di quanto oggi si vede in televisione o è così facilmente accessibile sul web, i seni e i culi in mostra nella commedia sexy all’italiana non possono essere etichettati come “indecenti”. Si tratta, infatti, di film che – per la maggiore parte – possono ancora essere visti sorridendo, come qualche decina di anni fa al cinema.

L’esposizione di “cotanta mercanzia” femminile è per certi versi “sovversivo” per l’epoca; gli eventi e i personaggi si muovono secondo dei cliché consolidati, ma le scene scollacciate e sboccate rompono le convenzioni sia sessuali sia del “bon ton”.

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Non siamo di fronte a pellicole impegnate o di satira, ma tale “stimolazione sessuale” è presente per farsi beffe e ridere delle debolezze e fobie che l’essere umano manifesta nel vivere la sua sessualità. L’uomo, il “maschio” degli anni Settanta, in una società all’inizio di un processo di emancipazione femminile tuttora incompiuto, ne viene fuori con le ossa rotte.

Nel cast di molti film spuntano nomi di attori e attrici di certa caratura: Carlo Giuffrè, Sylva Koscina, Silvana Pampanini, Luciano Salce, Giancarlo Giannini, per citarne alcuni. Insomma, la commedia sexy all’italiana non è soltanto un divertissement edonistico o pecoreccio, ma è un fenomeno interessante anche se non lascia certamente nel Cinema l’impronta come pellicole del neo-realismo o di certa commedia all’italiana.

Senza comunque girarci intorno, per noi ragazzini a quei tempi e nell’immaginario collettivo l’essenza della commedia sexy all’italiana è: il culo di Nadia Cassini, i seni della Fenech, le mutandine di Gloria Guida liceale. Un vero “cult” per segaioli!

C’è poco da aggiungere o ricamarci su: quei perennemente arrapati Lino Banfi, Alvaro Vitali e Renzo Montagnani siamo noi ragazzini.

Se prendete Nadia Cassini, la mandate a scuola come insegnante di “dance” in mezzo a un gruppo di studenti, corpo docente e non docente assatanati, le strizzate il corpo in un body striminzito e attillato, il risultato può essere soltanto uno: il culo di Nadia Cassini all’ennesima potenza e testosterone a manetta!

Questo succede nel 1979 in L’insegnante balla… con tutta la classe, il primo film in cui la Cassini ha il ruolo della protagonista.

Stesso effetto accade se prendete la giovanissima Gloria Guida e le fate interpretare il ruolo dell’adolescente irrequieta che non si sente compresa dai suoi genitori: la madre ha un amante, il padre è un infedele patentato. Sfrontata e smaliziata, si solleva la gonna e mostra cosce e mutandine al professore di italiano, bionda, viso d’angelo, forme tornite, candore e malizia, è la ragazza più desiderata della scuola. Era il 1975 nel film La liceale.

L’attrice in un’intervista dichiarò: “[…]Mi si vede attraverso il buco della serratura, sotto la doccia, in bagno. Non è colpa mia se anche nel cinema ci sono i guardoni.[…]” (cit. “99 donne. Stelle e stelline del cinema italiano”,1999).

L’attrice può anche etichettare spregiativamente gli spettatori, che le diedero notorietà e soldi, ma non si può negare l’evidenza: il sedere della Cassini, i seni della Fenech, le mutandine della Guida bucano lo schermo e sono i protagonisti assoluti della commedia sexy all’italiana, che non viene ricordata per le trame o le gag esilaranti, ma per l’innalzamento improvviso dei livelli di testosterone e conseguenti problemi comportamentali: medio/gravi sbalzi di umore, senso perenne di irritazione non motivata, senso di potere non giustificato; offuscata visione generale e basso valore di buonsenso.

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Il continuo gioco del “vedo-non vedo” montano nello spettatore una tensione al pari di un thriller realizzato a mestiere. L’esposizione della nudità delle forme femminili assume un potere liberatorio.

Le forme femminili esposte, limitate ai seni e ai culi, con una certa specializzazione dei “ruoli” (la Cassini il posteriore, la Fenech i seni), sono parzialmente occultate da vestiario minimo, serrature o tende. L’immaginazione dello spettatore deve fare gli straordinari, il film è nelle nostre teste e ognuno si crea una “fantasia” diversa…fino a quando non viene mostrata la nudità nella sua interezza e bellezza!

Il culo della Cassini ha anche poteri rigeneratori, quasi miracolosi.

In L’infermiera nella corsia dei militari (1979), in veste d’infermiera (ma in realtà ha un altro scopo), la Cassini deambula con effetti “rivitalizzanti” sui pazienti per le corsie di una clinica psichiatrica per militari, cioè dei pazzi che si credono dei famosi condottieri. In realtà, la Cassini è una cantante che si finge infermiera ed è alla ricerca di quadri preziosi nascosti – non si sa per quale motivo – nella clinica.

Il film è il trito e ritrito assortimento di gag grossolane, non esattamente divertenti, ma meno noioso di quanto ci si possa aspettare.

La parte peggiore è quando la Cassini canta “Go out and dance”. L’attrice non ha mai  nascosto di avere aspirazioni di ballerina e cantante, la recitazione non è una sua dote, tanto che l’italiano non lo parla bene e ha conservato sempre un accento comicamente americano (è nata a Woodstock nel 1949). La terrificante “Go out and dance” è contenuta del suo LP, pubblicato lo stesso anno sotto etichetta CBS, Encounters Of A Loving Kind. Nel video potete rendervi conto che la canzone è uno strazio nel suo genere, la “disco dance”, e alla Cassini manca un elemento essenziale: la voce.

 https://youtu.be/dvsP-OjY8jk

La parte migliore del film è l’abilità della Cassini di perdere costantemente i propri vestiti e lo spettatore non attende altro da lei: il sodo posteriore.

Nadia Cassini, Edwige Fenech e Gloria Guida sono indiscutibilmente le protagoniste della commedia sexy all’italiana. Dal punto di vista fisico sono differenti: la Fenech ha un seno prosperoso e voluttuoso, la Guida è una sorta di Lolita petulante e a tratti spocchiosa, La Cassini ha un sedere sodo e arroccato in un corpo flessuoso. Ciò che accomuna queste tre attrici è l’abilità di ritrovarsi in situazioni in cui finiscono per perdere immancabilmente i propri vestiti e di mandare ai matti tutti gli uomini in un turbinio ormonale e di lussuria.

La commedia sexy all’italiana è concentrata in questo semplice ma sempre vincente “particolare”.

PARTE TERZA

Corno di bue, latte scremeto, proteggi questa casa dall’Innomineto

di Giancarlo Buonofiglio

“Capdicazz”, il titolo del mio contributo doveva essere questo; l’espressione la conosciamo e non ha bisogno di commenti. Ma c’è una presenza femminile, Cuoreruotante, e un minimo di eleganza è richiesta; siamo pur sempre un trio, come i Ricchi e Poveri e un po’ di contegno bisogna tenerlo. Tuttavia l’argomento invita alla disinvoltura e qualche oscenità mi è scivolata; come dice Pasquale Baudaffi in Vieni avanti cretino, potrò insomma apparire sguaiato, ma laido no: a me non me lo può dire, perché io vado a messa ogni domenica mattina, anche se lei si legge l’Osservatore Romano!

Nell’articolo con RedBavon e Cuore si parla della commedia sexy degli anni ’70 e vuol dire liceali, dottoresse, supplenti, insegnanti, poliziotte; docce, seni e culi (la parola natica non è appropriata a un genere che qualcuno ha definito pecoreccio) spiati dal buco della serratura. In quegli anni dopo Pasolini (Decameron, 1971) si allenta la morsa della censura e il cinema italiano represso da una cattiva legge prima ancora che bigotto scopre un sesso leggero e ironico, ma mai morboso o pornografico. La pornografia è un’altra cosa: i giornalisti italiani sono pornografi, le tette della Fenech celebrano l’inno alla fertilità come quelle delle Venere di Willendorf (però più belle).

Veniamo ai film.

Il genere sexy comincia con Mariano Laurenti, quando il regista prende a raccontare in maniera marcatamente eversiva (con Quel gran pezzo della Ubalda e La bella Antonia, prima monica poi dimonia) desideri e comportamenti degli italiani, pur cautamente filtrati dall’ambientazione medievale. Qualcuno storceva il naso, ma tanti riempivano le sale cinematografiche; a Milano ad esempio non si contavano i cinema e a pensarci oggi un po’ di commozione viene. Il Paese non è mai stato narrato con tanto disincanto come in queste pellicole spregiudicate (Pasolini a parte, che era la coscienza critica popolare e dunque un’altra cosa). Fotogramma per fotogramma veniva (e viene) fuori l’immagine di un’Italia contraddittoria e paradossale, fatta di brava gente ma anche di mascalzoni, cattolica ma solo la domenica; comunista con la proprietà altrui, altrimenti sfrontata con la propria, laboriosa quando capita e se non capita è comunque meglio, sfaccendata, lenta nelle istituzioni ma veloce sulle strade, addormentata eppure con l’occhio vigile sulle cose perché c’è sempre uno pronto a fregargliele, fedele tra le mura domestiche ma in coda dalle prostitute, moralista e pornofila a un tempo; arraffona quando può e se non può cambia casacca e partito, pronta a scendere in piazza se però ha la sicurezza di tornare a casa per cena. Pur con qualche interessante cambiamento dovuto anche a questi improbabili racconti goliardici che sono entrati nell’immaginario popolare, l’Italia sembra sempre la stessa, sessuomane e sessofobica ad un tempo, chiusa in casa a spiare la vita dal buco della serratura.

Registi e sceneggiatori di calibro, con una connotazione dal principio boccaccesca e a partire da Giovannona Coscialunga finalmente ambientata nel tempo attuale, hanno raccontato con il sorriso quanto stava avvenendo nella società. Il ’68 era appena passato e se l’immaginazione andava al potere, alla donna e al corpo femminile non più segregato tra le mura domestiche subentrava quello della femmina emancipata, disposta al piacere quanto quello maschile: noi abbiamo gli stimoli della carne, mentre loro hanno gli stimoli del pesce ! (come si sentenzia in L’insegnante viene a casa).

Un corpo che era comunque letterario e romanzato: più che di sublimazione è corretto parlare di detonazione del desiderio, contestualizzato in un ordine estetico e mai intenzionalmente sociologico. Lo stesso discorso vale per la lingua, che assorbe le varie contaminazioni: mi spettano sei ore di riposo; allora siediti e non ci rompere la minchia; questo suo modo di esprimersi mi ricorda Kafka prima maniera. Il corpo della Fenech, della Bouchet, di Gloria Guida, della Rizzoli, di Nadia Cassini e Lilli Carati veniva erotizzato ma non era mai osceno, rivestito cioè di un significato che non ha; svincolato semmai dall’ideologia che trasforma il piacere in un dovere sociale e l’erezione nella metafora di una società robusta e sana (dove l’impotenza rappresenta piuttosto la paralisi politica e sociale). Per Pasolini (è doveroso ricordarlo) i maschi fino ad allora erano sconvolti da un modello sessuale che obbligava alla disinvoltura. Ma nelle commedie sexy di Martino, Tarantini, Cicero e gli altri i ruoli in qualche modo si ribaltano; il messaggio era dichiaratamente reazionario (gli studenti più che politicamente impegnati erano sfaccendati e dediti all’onanismo (pippe, come le chiamava Montagnani): nella mia scuola … se non rigate dritti vi spezzo la quinta vertebra della spina dorsale; le istituzioni barbaramente svilite: la piaga sociale della disoccupazione giovanile, ma pure gli adulti che non fanno un cazzo; l’omofobia solleticata: te sì che se n’omo, no tua sorella!) eppure come accade nella narrativa l’intenzione ha finito per trasformarsi in altro adeguandosi al comune sentire.

Negli stessi anni di piombo questi film venivano assorbiti senza imbarazzo; e così non poteva non essere da parte di una generazione che faceva cose e incontrava gente. La conservazione ha ceduto il passo prima che all’erotismo a una disambiguazione linguistica nella quale il corpo non è più il soggetto che gode, ma l’oggetto di un piacere che si soddisfa nel racconto più che nel godimento stesso. Oltre che la metafora del rapporto sessuale, il sesso diventava la metafora del rapporto tra classi sociali. Steno nella Patata bollente (un film di rara intelligenza che tratta di politica e omosessualità) fa dire al Gandhi (Pozzetto nel ruolo dell’operaio ideologizzato e al principio omofobo): Senti ti ho portato un grappino perché ho pensato che la camomilla è una roba da culi. Nel potere c’è sempre qualcosa di feroce, stimola e nobilita la violenza sui ceti sociali più deboli; i film neorealisti che hanno preceduto Monicelli, Risi (Sessomatto), Steno (La patata bollente), Comencini (Lo scopone scientifico), Scola (Brutti, sporchi e cattivi) fino alla commedia pecoreccia lo raccontavano bene; l’anarchia degli oppressi è invece disperata, primordiale, ma soprattutto spontanea. Libera dai tegumenti culturali, come appunto accade in queste esilaranti cronache surreali. Pozzetto contratta l’acquisto di un’auto e non avendo di che pagarla sollecita il concessionario: vuole approfittare del mio corpo? (Zucchero, miele e peperoncino). Neanche Breton è arrivato a tanto. Il neorealismo aveva denunciato le aberrazioni del potere; dal ’68 in poi le incrostazioni politiche e culturali si andavano però sgretolando più per una naturale disposizione al piacere (il corpo femminile prima vincolato ai cliché domestici, diventava libero e sfrontato, la giovinezza distesa e disincantata, le istituzioni ridicolizzate, la famiglia ridimensionata) che per una autentico atto di coscienza rivoluzionaria. Lo slogan capdicazz si sostituiva in qualche modo all’immaginazione al potere, o meglio nelle fantasie popolari aveva il medesimo contenuto etico e eversivo: mica ti vorrai mangiare tutta questa roba! Oh, ricordati che hai un soprannome da rispettare: Gandhi, il campione del mondo dello sciopero della fame. A me mi sta sulle balle quel soprannome lì! Non potevate chiamarmi Bombolo? (La patata bollente)

E’ Sergio Martino ad aprire la strada alla commedia sexy: nel 1973, col capolavoro Giovannona Coscialunga disonorata con onore. La bella Cocò (Fenech) prostituta ciociara viene disonorata dall’onorevole (Vittorio Caprioli). Seguono quindi i le pellicole di Michele Massimo Tarantini, con la trilogia sulla Poliziotta.

I registi che hanno lasciato il segno:

1) Mariano Laurenti. Laurenti, che aveva già diretto Franco e Ciccio, ha lavorato quasi sempre con gli stessi attori (Alvaro Vitali, Gianfranco D’Angelo, Lino Banfi, Renzo Montagnani, Mario Carotenuto; Gloria Guida, Edwige Fenech, Annamaria Rizzoli, Barbara Bouchet, Lilli Carati, Paola Senatore). Nel 1972 con La bella Antonia, prima monica poi dimonia e Quel gran pezzo della Ubalda, tutta nuda e tutta calda, consacra Edwige Fenech come icona del genere erotico/comico. Classe Mista viene girato nel 1976, con Alfredo Pea, che sarà poi il protagonista de L’Insegnante, diretto da Nando Cicero. Nel 1977 Laurenti affida il ruolo principale femminile a Lilli Carati (lanciata da Michele Massimo Tarantini l’anno precedente in La professoressa di scienze naturali) ne La compagna di banco. Firmerà poi alcuni film con Lino Banfi (L’insegnante va in collegio, 1978; La liceale nella classe dei ripetenti, 1978; La liceale seduce i professori, 1979; L’infermiera di notte, 1979; L’infermiera nella corsia dei militari, 1979; La ripetente fa l’occhietto al preside, 1980; L’onorevole con l’amante sotto il Letto, 1981. Quest’ultimo di livello nettamente superiore.

2) Nando Cicero (porta il suo nome il ciclo della dottoressa e della soldatessa all’interno dei distretti militari). Sua è anche la regia di un film strepitoso Bella, ricca, lieve difetto fisco cerca anima gemella, 1973. Cicero si è spesso servito di attori di rilievo: Giuffrè, Buzzanca, Franca Valeri, Erika Blanc, Rossana Podestà. Nel 1975 dirige L’insegnante e la trilogia militare (La dottoressa del distretto militare, 1976); La soldatessa alla visita militare, 1977; La soldatessa alle grandi manovre, 1978). Nel 1981 gira L’assistente sociale con Nadia Cassini. I film che seguono, W la foca (con Lory del Santo) e Paulo Roberto Cotechino, centravanti di sfondamento sono di un livello marcatamente basso.

3) Miche Massimo Tarantini. dirige il ciclo della Poliziotta (sostituendo la Melato con la Fenech). L’insegnante al mare con tutta la classe, 1979, con un nutrito numero di attori: Banfi, Vitali, Anna Maria Rizzoli, Francesca Romana Coluzzi. La Poliziotta della Squadra della Buon Costume, 1979, sempre sceneggiato da Milizia e Onorati. L’Insegnante viene a casa (titolo che rimanda a L’insegnante va in collegio, diretto l‘anno prima da Laurenti) con Montagnani. Nel 1980 è alla regia di La moglie in bianco… l’amante al pepe, pellicola esilarante diretta e recitata con rara eleganza. La dottoressa ci sta col colonnello, 1981, con Nadia Cassini e i mediocri La poliziotta a New York, 1981 e La dottoressa preferisce i marinai, 1981.

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4) Sergio Martino. Quello che è forse il miglior film del genere, Giovannona Coscialunga, disonorata con onore, 1973, porta il nome di Martino. Gli attori sono di primo piano: Pippo Franco, Garrone, Caprioli, Ballista; la storia è spassosa, le musiche trascinano e la Fenech che parla ciociaro è di una bellezza museale. In un altro Paese la pellicola avrebbe avuto un successo epocale, ma in Italia la comicità viene considerata un prodotto culturale inferiore. Piace, la guardano, ma nessuno la consacra. Luciano Salce ad esempio ha firmato pellicole molto divertenti, come Il federale, il primo Fantozzi e l’Anatra all’arancia (Vieni avanti cretino rimane e concordo un prodotto invece minore) contrassegnate dalla Critica come serie B. Nel 1976 gira due film di valore: Spogliamoci così senza pudor (sceneggiato da Sandro Continenza e Raimondo Vianello) e 40 Gradi all’ombra del lenzuolo. In Sabato, Domenica e Venerdì, 1979, Martino dirige uno degli episodi (gli altri sono di Pasquale Festa Campanile, Castellano e Moccia). La moglie in vacanza…. L’amante in città, 1980, rimane uno dei film più belli di tutta la filmografia dell’epoca; gli attori sono Banfi, Montagnani, Solenghi, Pippo Santonataso e la Bouchet come protagonista femminile. Se ancora non l’avete visto si trova facilmente in streaming, ne vale davvero la pena. Zucchero miele e peperoncino (1980), Spaghetti a mezzanotte (1981) e Cornetti alla crema (1981), che portano in locandina i nomi (tra gli altri) di Teo Teocoli, Gianni Cavina, Daniele Vargas, Marisa Merlini, Milena Vukotic, sono tra le produzioni più alte del genere. Nei primi anni ‘80 il regista firma alcuni titoli con Gigi e Andrea (Se tutto va bene siamo rovinati e Acapulco, prima spiaggia… a sinistra) di livello però imbarazzante. Altra cosa è Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983), girato con Lino Banfi,  Johnny Dorelli, Paola Borboni, Mario Scaccia, Milena Vukotic, Janet Agren, Gegia, Adriana Russo, Ugo Bologna, Renzo Montagnani, Mario Brega.

In ordine sparso quelli che seguono sono i film (a mio parere) più belli. L’aggettivo però non rende; surreali, con una scrittura fluida e matura, ben recitati, ironici e autoironici, mai volgari. Un magistrale prodotto culturale, esteticamente compiuto nella forma e nei contenuti. Iper/neo/postrealista (come preferite), a volte con una dichiarata matrice ideologica, altre quasi poetica: Essere ciechi e sordi davanti a qualsiasi cosa di diverso non è forse una malattia? (Claudio -M. Ranieri- La patata bollente).

La moglie in bianco l’amante al pepe, Spaghetti a mezzanotte, Occhio malocchio prezzemolo e finocchio, La patata bollente, Ricchi, ricchissimi praticamente in mutande, Cornetti alla crema, Giovannona Coscialunga disonorata con onore, La prima notte del dottor Danieli industriale col complesso, La moglie in vacanza l’amante in città, L’onorevole con l’amante sotto al letto, La soldatessa alle grandi manovre, La vergine, il toro e il capricorno, Sessomatto.

“Sei cose impossibili” Tag

Il mio amico Red, stimolato da Cuoreruotante (la curiosità, lo sappiamo, è femmina) che così ha proposto: ho pensato di creare un Tag con l’augurio che, come diceva la Regina ad Alice, allenandoci giornalmente a pensare a sei cose impossibili, possiamo avere quello stimolo in più che ci aiuti a credere che le giornate, a volte, possano anche stupirci ed essere migliori delle nostre aspettative, andando al di là di ogni nostro scetticismo, mi ha invitato ad aderire a una catena di S. Antonio. Appuntare nel blog sei cose impossibili, nominando a mia volta altri sciagurati. Ognuno dei quali ha l’obbligo (altrimenti che catena è?) di inserire nell’articolo il logo di Alice’s in Wonderland, di proporre sei cose inattuabili, di nominare altri sventurati. Con l’invito ci vado a nozze (si dice così, mi pare), nei luoghi nei quali scrivo sotto al mio nome c’è anche quel che faccio: manipolo paradossi; potevo insomma non partecipare?

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TESI:  le cose impossibili devono essere irragionevoli, inedite e appunto paradossali. La logica si occupa della verità e a noi è invece richiesta l’incoerenza della verosimiglianza. La differenza tra ciò che è vero e quel che è verosimile è tutta qua: la cosa impossibile non è e non può essere ma quanto ci piacerebbe che fosse così come la vogliamo (svincolata dall’abitudine e dalla coerenza logica).

ANTITESI: le cose impossibili sono incoerenti. La coerenza è l’incrostazione della lingua a parlare delle cose sempre nello stesso modo. Hume e Husserl erano incoerenti, tra la parola e la cosa esiste un legame culturale e mai veramente aderente alla realtà. Ciò che reale è anche irrazionale, il buon Hegel se ne faccia una ragione.

SINTESI: impossibili, incoerenti ma verosimili insomma, come le copertine di questi libri, editi o meno da qualche improbabile editore. Ma è poi importante che qualcuno li abbia davvero pubblicati?

 

BRUNETTA (1)

 

GESU (1)

 

MALGIOGLIO (1)

 

TOMTOM (1)

 

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ARMANI

Veniamo alle nomination. Lo scrivo con un tono notarile, perché non può che essere così per una catena che ha il nome di un santo. E dunque: Per l’autorità conferitami e con i poteri che mi sono stati dati, nomino e senza possibilità di appello (ma la lista presto si allungherà, perché troppi ne ho in mente)

Andrea Taglio

Ero sveglia: poi ho capito Freud

Marzia, alchimie

Alemarcotti

GengisJokerKhan

LE OMBRE DELLA PERVERSIONE

La parola perversione viene dal latino perversum e richiama a uno stravolgimento non tanto delle regole ma del senso comune o del comune sentire. La società si dà delle norme, anche nel campo sessuale e l’individuo si adegua. L’adeguamento è immediato prima ancora che mediato dalla legge che pure vigila coi suoi apparati medici piuttosto che con quelli giuridici. E tuttavia come si dice fatta la legge trovato l’inganno, perché il piacere è anarchico e dove ci sono le regole il desiderio esplode o implode a seconda dell’educazione che il singolo ha avuto. Quando implode abbiamo tecnicamente una perversione; se il fenomeno diventa sociale il rischio concreto è la rivoluzione. L’apparato medico dello Stato si mette all’opera e diagnostica una perversione di massa. Come ha fatto Massimo Recalcati rinvenendo una nevrosi tra coloro che hanno votato no a una consultazione popolare (19 milioni di degenerati). La politica perversa diagnostica la perversione nel dissenso e tutto finisce a tarallucci e vino. Le cose però cambiano, i costumi pure, l’omosessualità non è più una deviazione neanche per il DSM e quelli che erano atti fuorvianti dalle regole vengono assorbiti dalle regole stesse. Tra le stranezze attuali nel campo sessuale appunto le seguenti, con la speranza e il timore che prima o poi vengano percepite come qualcosa di normale. Anzi di naturale, che suona meglio. L’industria del sesso non da oggi ha dato una risposta a tali bisogni e l’intimo, quella che una volta era l’intimità ha finito per riempire gli scaffali dei supermercati. E non solo. Come si può vedere nel The Sex Machines Museum nella città vecchia di Praga. (E che ho raccolto in dettaglio in Consigli, amenità e facezie sopra l’esercizio del meretricio e dei lupanari.)

Insomma sfogliando l’elenco che segue e la serie di oggetti e libri acquistabili in internet si tratta di normali stranezze o di vere e proprie perversioni?

Formicofilia: il desiderio di essere ricoperto di insetti nelle parti intime. Mysofilia: l’attrazione sessuale verso persone o oggetti sporchi. Infantilismo: il desiderio sessuale nato dal bisogno di indossare pannolini e di essere trattato come un neonato. Acrofilia: eccitazione sessuale in situazioni in cui ci si trova a grandi altezze. Acusticofilia: eccitazione sessuale che deriva dall’ascolto di determinati suoni come mugolii,sospiri, canzoni, frasi o ancora una certa lingua. Agalmatofilia: attrazione sessuale per statue, bambole, manichini e altri oggetti simili. Agorafilia: attrazione per l’atto sessuale consumato in spazi aperti. Altocalcifilia: il feticismo di chi trae piacere dall’osservare o indossare scarpe dai tacchi alti. Coprolalia: devianza che porta un soggetto ad utilizzare continuamente, in modo compulsivo un linguaggio osceno e volgare. Dendrofilia: attrazione sessuale per gli alberi tale da volersi congiungere con essi. Dorafilia: feticismo a causa del quale si prova attrazione e piacere sessuale nel contatto con indumenti in pelle animale e pellicce. Macrofilia: è il desiderio di fare sesso con un gigante. Sitofilia: è il desiderio sessuale che nasce dall’unione del cibo e il sesso. Spectrofilia: è il desiderio sessuale di fare sesso con un fantasma. Parliamo di Botulinonia quando salami, salsicce e wurstel vengono usati come surrogati sessuali. Tripsolagnia: piacere che deriva da un semplice massaggio alla testa. Agonofilia: eccitazione sessuale che deriva dalla lotta o dall’osservazione di persone che combattono come nel wrestling. Amartofilia: eccitazione sessuale derivata dalla convinzione che le azioni che si stanno compiendo siano fonte di peccato e di perdizione. Anisonogamia: attrazione sessuale verso partner con grande differenza d’età, molto più anziani o molto più giovani. In ambito femminile viene definita gerontofilia l’attrazione per partner maschili significativamente più datati. Chelidolagnia: provare piacere sessuale disprezzando il partner. Aggiungerei all’elenco anche l’attrazione per Barbara D’Urso. quella davvero mi sembra una perversione. Ma tant’è…

 

 

LIBRI CURIOSI (che ho comprato in Rete)

1) Extreme Ironing – Stiratura estrema
di Phil Shaw

2) Pets with Tourette’s – Animali domestici con la sindrome di Tourette

di Mark Leigh

3) Learning to Play With a Lion’s Testicles – Imparare a giocare con i testicoli di un leone
di Melissa Haynes

4) 5 Very Good Reasons to Punch a Dolphin in the Mouth – 5 ottime ragioni per dare un pugno in bocca a un delfino
di Matthew Inman

5) How to Raise Your I.Q. by Eating Gifted Children – Come aumentare il tuo Q.I. mangiando bambini intelligenti
di Lewis B. Frumkes

6) Chi me l’ha fatta in testa?
Edito da Salani

7) Chi ha mangiato la mia fetta di pizza? Giuro su Dio che se le hai mangiate tutte sparo alla tua stupida faccia
di J. Hunter

8)  La posizione del missionario: Madre Teresa in teoria e pratica

9)Giochi che puoi fare con la tua …. L’autore forse però intendeva “pussy” nel senso di gatto

10) Tutto quel che so sulle donne l’ho imparato dal mio trattore

11) Immagini con cui non dovresti masturbarti

12) Fai in casa i tuoi sex toys

13) Il libro tascabile delle erezioni

14) Guida per principianti al sesso nella vita dopo la morte

15) Bare decorate da costruire da soli

16) Castrazione: vantaggi e svantaggi

17) Mangiare le persone è sbagliato

18) Come avere successo negli affari senza un pene

19) Cazzi e canguri (pochissimi i canguri). Aldo Busi

Mi permetto di aggiungere all’elenco due miei testi

20) Diventare gay in dieci lezioni (de rerum contronatura)

21) Non desiderare la donna d’altri. E chi dovrei desiderare, la mia? Ma l’hai vista bene?

 

lib 1lib 2lib 3lib 4lib 5lib 6lib 7lib 8lib 9lib 10lib 11lib 12lib 13DIVENTARE GAY IN DIECI LEZIONI - giancarlo buonofiglio

STRANEZZE VARIE acquistabili in internet

– Kit completo per uccidere i vampiri; 4500 dollari. La confezione contiene: una boccia di acqua santa, un paletto di avorio, il Nuovo Testamento e altro ancora

– Un fan di Britney ha visto la diva gettare a terra una gomma masticata e non ha perso tempo: l’ha raccolta, e l’ha messa all’asta su eBay. La reliquia gli ha fruttato 263 dollari

– Anima in vendita su Ebay. Prezzo 2000 dollari

– Il 22 Novembre 1963 a Dallas, Lee Harvey Oswald sparava da una finestra al Presidente degli Stati Uniti John Kennedy. La finestra da cui partì il colpo è stata smontata dall’edificio e rivenduta a 3 milioni di dollari

– Toast alla Francese lasciato da Justin Timberlake
La popstar si trovava in un hotel di New York e prima di un’intervista avanzò dalla colazione un po’ di toast alla Francese. Le due fette erano mezze mordicchiate, qualcuno le ha raccolte e rivendute a 36mila dollari

– NIENTE: un prodotto per chi ha già tutto

– Carne di unicorno

– Corno per trasformare il vostro gatto in un unicorno

– Cucce di lusso per cani: costano 200.000 euro

– Borsetta autobloccante, per impedirvi di spendere troppo

– “Kissenger”, accessorio per smartphone per baciare a distanza

– Lattine di aria inquinata, per i Cinesi che sentono la mancanza di Pechino

– Col “profumo di culo” due imprenditori si sono arricchiti

– Occhiali che simulano le allucinazioni da LSD, senza assumere tuttavia la droga

– Slip con finto pene contro i tentativi di violenze sessuali

– Preservativi per cani e gatti

– Finte mutande sporche per nascondere i soldi in viaggio

– Abito da sposa fatto con i documenti del divorzio

– Armature per criceti in vendita su eBay

 

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LA FAVOLA TRA SEMIOTICA E SOGNO

(Le favole sono cose da l’ attanti)

Fiabe e favole forniscono una rappresentazione del mondo. Le immagini, per quanto inserite in un contesto narrativo, solo marginalmente risultano didascaliche e descrittive. Nelle prime i personaggi (orchi, fate, folletti) sono immaginari, quelli delle favole hanno una connotazione più realistica. Principi e principesse, bambini sventurati, animali con comportamenti antropomorfi, orchi con caratteri umani. Le favole hanno un contenuto morale, predispongono a un comportamento formulato alla fine del racconto (o è desumibile); nell’ambientazione fantastica le fiabe dimostrano invece una minore rigidità nella struttura. Per entrambe si tratta di racconti popolari, per lo più tramandate oralmente, arricchite da immagini semplici, con un contenuto povero e una narrazione elementare. Accompagnavano il sonno dei bambini e i lavori di casa degli adulti, soprattutto femminili. Presenti da sempre nell’ambiente domestico, le più conosciute dell’antichità rimangono quelle di Esopo e Fedro, ma la diffusione la ebbero soprattutto in epoca medievale. I racconti più celebri si perdono nel tempo; delle storie di Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola è difficile trovare l’origine, ma sono rimaste nella riscrittura di Charles Perrault, i fratelli Grimm, Andersen, Charles Dogson (Alice nel Paese delle Meraviglie). Ma anche di Giambattista Basile, Collodi e Calvino. Nulla è definito in questi racconti, eccetto i caratteri dei protagonisti: personaggi, epoca e luoghi sono collocati nella fantasia e mai nominati direttamente. Il principe non ha nome, la principessa riassume nel suo la purezza (Bianca-neve) e Cenere-ntola per ipotiposi rimanda alle sue origini umili; da qualche parte in un certo tempo c’è un castello, una foresta e una strega sempre cattiva. E’ difficile entrare in una favola ed è ancora più difficle uscirne, non per niente le storie cominciavano dicendo: “stretta la foglia, larga la via”. S’improvvisavano e quelle parole portavano la fantasia in un mondo irreale, erano l’ingresso che preparava l’ascolto. Per quanto riguarda l’impianto narrativo, favole e fiabe sono abbastanza conformi:

-si tratta di vicende inverosimili, per lo più impossibili e i personaggi improbabili o inesistenti;

-hanno un contenuto morale: il mondo è nettamente diviso in buoni o cattivi, furbi o ingenui e non esistono sfumature;

-ripetizione: i motivi ricorrono anche in altre fiabe, rimarcati dal ripetersi di frasi, cantilene e formule magiche;

-lieto fine: i buoni, i principi vengono premiati; le fanciulle del popolo diventano principesse, i giovani coraggiosi sono incoronati e la bontà vince. Nelle fiabe di magia in particolare, l’apoteosi è una costante. Dopo le disgrazie l’eroe trionfa, il bisogno di giustizia è appagato, il popolo che vi si identifica viene soddisfatto.

-didattica: c’è sempre una morale, anche se non espressa chiaramente, che induce a onorare gli anziani, il nucleo familiare, i regnanti, le leggi. Le favole, tutte indiscriminatamente, hanno un carattere calvinista e reazionario.

Le ripetizioni sono un elemento determinante (“C’era una casa piccola piccola”, “Cammina, cammina”, “Tanto, tanto tempo fa”, “Ucci ucci sento odor”). Raccontando più volte lo stesso fatto allungano la storia e dilatano il mistero, richiamano le emozioni. Inizio e fine danno la regola (“C’era una volta”, “E vissero felici e contenti”), numerosi e parimenti ripetitivi sono anche i rituali magici e le filastrocche. La ripetizione è una conferma, crea abitudini e relazioni, luoghi comuni. Come le briciole di Hansel e Gretel, segna il percorso. Ed è esperienza comune nei bambini sentirli chiedere “ancora ancora” mentre si legge loro una storia; la ripetizione allunga il tempo e lo contrae, lo rende familiare e magico. Le filastarocche prima delle vicende rappresentano la gestione di un ritmo e di un tempo. Il tempo della fiaba ha caratteristiche proprie particolari e presenta analogie con il sogno. Non si può collocare in un periodo storico preciso; il suo fluire è irregolare e non lineare. L’imperfetto e l’infinito prevalgono sul presente e sul futuro; se c’è un passato è talmente remoto da perdersi nel tempo e il futuro non è ben precisato, è anteriore. Le fiabe, spesso ambientate nel medioevo (ma non solo), mettevano in risalto l’epica del blasonato o di un cavaliere come un valore e non accennavano alle condizioni popolari. Favole e le fiabe non sono rivoluzionarie, tutt’altro. Le fiabe in particolare vengono collocate in uno spazio temporale irreale, concepite su antiche leggende (con draghi, fate, folletti, animali dotati di parola) in modo da eccitare la fantasia. Portando le immagini fuori dal tempo, fuori da un contesto ordinario, le fantasie prendono l’aspetto di un drago, di una strega, di un orco. Proprio come avviene in certe psicosi. La filastrocca in particolare fa in modo di controllare il materiale straordinario, gli dà una regola, lo disciplina. Come una grammatica del bordo, lo schema narrativo ripercorre una “narrazione di superficie” sulle operazioni logiche che caratterizzano un quadro semiotico (Greimas), sovrapponendo il carattere antropomorfo del fare. Il fare è antropomorfo perché ogni volta che attribuiamo un fare a qualcosa lo umanizziamo (e lo comprendiamo). Greimas spiega la questione con un esempio: “La matita scrive bene”; il fare della matita viene concepito positivamente come un compito inalienabile che il soggetto/oggetto svolge in modo inappuntabile. La regola è che ogni racconto, ogni testo dotato di un incedere narrativo, rende antropomorfe le cose di cui parla per lo stesso fatto di mettere in scena il loro fare. Nella fantasia dei bambini gli oggetti si animano e gli animali parlano, e ciò dipende proprio dall’ordine narrativo che prevale sulla logica e sulle relazioni logiche che chiamiamo reale. Tale struttura del racconto ha un’origine profonda e va al di là della lingua, pur rimanendo un fatto linguistico e discorsivo. Freud sosteneva che quando l’uomo reprime un desiderio, questo ricompare nel sogno durante il sonno e come sintomo durante il giorno. Citava due esempi di sogni collegati alle favole:

a) il sogno di trovarsi nudi in compagnia; a suo parere si origina dal desiderio di spogliarsi davanti ai genitori e produce una sensazione di piacere. Da questo ethos si sarebbe originata la fiaba di Andersen, “I vestiti nuovi dell’imperatore”.

b) Il sogno della morte di un familiare, che Freud collega al desiderio del bambino di uccidere il padre. Posta così la natura della fiaba è evidente una relazione con la catarsi; i personaggi spesso sono adolescenti che trovano la loro strada vincendo il drago e il male. Jung si è spinto oltre; era sua convinzione che ogni essere umano sia naturalmente portato a sviluppare facoltà innate, la cui riuscita dipende da una cooperazione tra inconscio e coscienza. Se questa sinergia si blocca, si verifica una reazione dell’inconscio che si esprime nei sogni, nelle fantasie e nelle fiabe, che hanno tra loro profondi legami nelle diverse culture popolari, al di là delle geografie e dei tempi. Queste relazioni che non hanno confini geografici e temporali sono propriamente gli archetipi. L’inconscio può esprimersi nell’immagine archetipica del bosco o di una foresta che l’eroe deve attraversare. Jung concentra le sue osservazioni anche sui personaggi di contorno come figure archetipiche. Se l’eroe non riesce a procedere e sopraggiunge un vecchio, significa che uno degli archetipi dell’anima o del giudizio stia facendo sentire la sua voce. Da queste considerazioni psicologiche e per quel che riguarda il racconto favolistico, nasce nel 1910 col Catalogo delle fiabe di Aarne, il metodo interpretativo storico-geografico; nel quale ad ogni fiaba venne attribuito un numero, dando luogo a diversi cataloghi regionali e nazionali. Allo stesso Aarne si deve anche un altro metodo di classificazione, basato su un indice dei tipi, poi rivisto e ampliato da Thompson (chiamato metodo di Aarne-Thompson). L’indice raccoglie circa 2500 tipologie definite nelle fiabe, consentendo di descrivere in forma numerica (così catalogandola) ogni fiaba.

Nel 1946 veniva pubblicato in russo il saggio di Vladimir Propp “Le radici storiche dei racconti di fate” (tradotto in italiano nel 1949). La conclusione a cui Propp giunse è che la maggior parte degli elementi delle fiabe risalgano a riti e miti primitivi, e in particolare al rito d’iniziazione e alla messa in scena della morte. Le fiabe popolari, soprattutto quelle di magia, sarebbero la memoria del rito d’iniziazione delle comunità primitive. Una pantomima che ripercorre quella fondamentale esperienza in cui i giovani morivano simbolicamente (e con l’aiuto di sostanze stupefacenti) per rinascere sotto la guida di uno stregone alla vita adulta. Col passare del tempo il rito d’iniziazione non si celebrò più ma rimase il ricordo, tramandato oralmente dagli anziani. Il rito si è poi trasformato in una fiaba.

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Approccio analogo ebbero i fratelli Grimm. Jacob e Wilhelm partirono dall’idea che ogni popolo abbia un’anima che si esprime nella lingua, nella poesia, nei racconti. Col tempo è andato perduta una parte della lingua, soprattutto nei ceti elevati, e le radici possono essere ritrovate negli strati sociali più bassi, nei quali il racconto orale, la tradizione ha mantenuto un certo valore. Non solo le favole, ma proverbi e modi di dire raccontano il passato di una comunità. In questa ottica, le fiabe si presentano come i resti dell’autentica cultura di un popolo. Nel 1812 e nel 1815 i Grimm pubblicarono due volumi dei Kinder und Hausmärchen, 156 fiabe che formarono il punto di partenza per lo studio dei racconti e delle fiabe popolari. Convinti dal principio che le fiabe fossero tutte di origine tedesca, per spiegare le affinità con i racconti di altre culture ipotizzarono (dal 1819) un passato indoeuropeo. Consideravano le fiabe come una rimanenza di miti antichi sopravvissuti nella memoria popolare e tramandati oralmente; Jacob Grimm così scriveva nel 1812: “Sono fermamente convinto che tutte le fiabe della nostra raccolta … venivano narrate già millenni fa … in questo senso tutte le fiabe si sono codificate come sono da lunghissimo tempo, mentre si spostano di qua e di là in infinite variazioni”. Jung concordava pienamente con quel che sostenevano i Grimm. Le fiabe sono l’espressione più genuina e pura dei processi dell’inconscio collettivo, cioè di quel deposito collettivo che si è sviluppato su una predisposizione comune ad organizzare in maniera simile le esperienze di ogni generazione che si è succeduta. Predisposizioni mentali ed esperienze che attraversano i confini geografici e temporali sono la base per la formazione di quelle immagini particolari, presenti nell’inconscio collettivo, che costituiscono sedimentazioni psichiche stabili di esperienze eterogenee. Queste immagini che hanno assorbito una struttura universale sono gli archetipi (“L’archetipo è la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali … continuano a derivare dallo stesso motivo fondamentale… la loro origine è ignota e si riproducono in ogni tempo e in qualunque parte del mondo, anche laddove bisogna escludere qualsiasi fattore di trasmissione ereditaria diretta”; L’uomo e i suoi simboli).

Se consideriamo le definizioni dell’inconscio collettivo e degli archetipi, ci viene facile comprendere perché Jung abbia ampliato le ricerche al mondo della fiaba. La fiaba è un prodotto della fantasia; assorbe ed esprime desideri, emozioni, aspirazioni, speranze comuni. Non c’è popolo che, assieme alla mitologia, non abbia anche fiabe e favole. In tutte si riscontra una somiglianza narrativa, motivi costanti e topoi privi decontaminazioni, pur nelle varianti locali. Della storia di Cappuccetto Rosso esistono oltre 40 riscritture; di Cenerentola se ne trovano 345 in Europa, in Africa e in Asia (Cendrillon in Francia, Askungen in Svezia, Aschenputtel in Germania, Guidskoen in Danimarca, Ashiepattle in Scozia).

La costante di motivi che si ripresentano, avvalora l’idea che la fiaba rappresenti un prodotto dell’anima universale comune a tutti i popoli e in ogni epoca. Le fiabe rimandano ai processi dell’inconscio collettivo, perché attraverso il ripetersi (in spazi e tempi distanti e diversi) degli stessi temi, danno una forma all’archetipo. A differenza del mito, la fiaba è scarsamente alterata dalle sedimentazioni culturali e rappresenta gli archetipi in una forma pura. Attraverso il campo dell’immaginario, la fiaba accomuna e avvicina civiltà e culture lontane, le sue costanti spiegano almeno in parte le comunanze di pensieri, emozioni, aspirazioni.

Favole e fiabe contengono dunque elementi ancestrali e si esprimono con caratteri comuni. Vladimir Propp studiò proprio le origini storiche della fiaba nelle società tribali in riferimento al rito di iniziazione e ne codificò una struttura generale che propose come modello di tutte le narrazioni. Nel suo studio Morfologia della fiaba, appuntò lo schema che segue, identificando 31 funzioni (inalterabili nell’ordine). Ogni funzione rappresenta una precisa situazione nello svolgimento della trama di una fiaba, riferendosi in particolare ai personaggi e ai loro specifici ruoli (l’eroe e il suo antagonista, il principe e il drago, la principessa e la strega). Nell’analisi di Propp prevale l’azione, è più importante come si comporta e non chi è il personaggio: se l’eroe è una fanciulla, un principe o un orfano è irrilevante; è l’azione che l’eroe compie e non le sue caratteristiche particolari a determinare la trama.

[…]

Lo stesso ruolo può essere svolto da più personaggi, oppure uno dei personaggi può rivestire più ruoli. Il protagonista si fonde con l’azione, il fare svilisce l’identità e se la motivazione è forte domina il carattere dell’azione che finisce per prevalere sulle identità. La linguistica e la semiotica si sono concentrate proprio su questo aspetto delle narrazione, puntualizzando un modello “attanziale” (delineato da Algirdas Julien Greimas nel 1966). L’attante è il soggetto che compie l’azione indicata dal verbo; è un elemento nominale che insieme a un verbo dà luogo a una frase. Gli attanti non sono costretti a compiere un’azione, possono anche subirla. Il concetto di attante è fondamentale non solo per i diversi generi letterari, ma anche per la sceggiatura di un film, il canovaccio di una rappresentazione teatrale, di un discorso pubblicitario o elettorale.

La semiotica ortodossa focalizzava tre elementi fondamentali, il soggetto (può essere colui che agisce o che si caratterizza in relazione all’oggetto), l’oggetto di valore e il destinante. Sulla base di quella prima elaborazione il modello attanziale di Greimas prevede le seguenti categorie:

1) il soggetto è colui che agisce per conquistare l’oggetto (confluenza dell’azione del soggetto);

2) nel suo muovere all’oggetto, il soggetto dà luogo a un’azione con un contenuto;

3) il soggetto assume una familiarità con l’oggetto;

4) agisce sulla base di un mandato (se tende all’oggetto è perché qualcuno lo ha spinto a muoversi);

5) ottiene una ricompensa o una punizione.

Accanto al rapporto soggetto-oggetto si delineano altre figure: il destinatore (che pone l’oggetto come oggetto di desiderio e gli conferisce un valore) e il destinatario (che è chi ottiene qualche beneficio dall’oggetto), l’aiutante e l’oppositore (che si delineano in base alle azioni che il soggetto compie per impossessarsi dell’oggetto).

Gli attanti messi in rilievo da Greimas sono delineati a seconda delle funzioni in quattro tipi […] Il modello ricorda quello di Propp. Se ci spostiamo sul livello della narrazione, gli attanti si definiscono in relazione a soggetto e oggetto, e destinante e destinatario. A un attante non corrisponde necessariamente un attore, ma può succedere che per un attante vi siano più attori. L’attante non è quindi una figura definibile, esiste in relazione agli altri attanti e alle competenze del soggetto e della sua capacità a fare. L’attante che possiede un ruolo tematico e ha un carattere narrativo è l’attore o un personaggio/cosa significativo. Nella sceneggiatura l’attante è un elemento che vale per il posto che occupa nella narrazione e per il contributo che le dà. L’attante si differenzia dal personaggio come persona e dal personaggio come ruolo, in quanto vale per la sua funzione e si caratterizza sulla base di categorie opposte: attivo o passivo, rivoluzionario o reazionario, protagonista o antagonista.

Come si vede dallo schema si tratta di una grammatica narrativa di superficie (secondo le Tre regole della cultura occidentale). Si ha una “narratività di superficie” quando alle operazioni logiche che determinano il quadrato semiotico (Greimas) viene sovrapposta la nozione antropomorfa del fare. Il fare è considerato antropomorfo in quanto ogni volta che attribuiamo un fare ad un oggetto lo trasformiamo in qualcosa di umano. Greimas (come ho già appuntato, ma la questione merita un approfondimento) porta ad esempio l’enunciato “la matita scrive bene”, nel quale il fare della matita viene considerato qualcosa di positivo, come un compito assegnato alla cosa e che la cosa svolge con competenza. Sottolineando che ogni storia dotata di una dimensione narrativa renda antropomorfi soggetti e oggetti (persone e cose) per lo stesso fatto di mettere in scena il loro fare.

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Analizzando un racconto si deve procedere con ordine e seguendo lo schema. Si parte introducendo una distinzione fra l’intreccio delle vicende nell’ordine in cui si presentano e la sequenza delle relazioni temporali e causali. Greimas riprende il termine attante da Tesnière; gli enunciati narrativi formano una serie ordinata, ricostruibile a ritroso per induzione o assimilazione. Ciò significa che nella fabula ogni enunciato è un elemento necessario all’enunciato narrativo che segue; ma anche che posto un enunciato narrativo, possiamo risalire agli enunciati che lo precedono. Per questo motivo una storia si capisce veramente soltanto alla fine e procura quello strano piacere di sazietà.

Gli enunciati narrativi. Gli enunciati descrittivi possono essere a) trasformativi o di fare quando descrivono un evento che trasforma radicalmente una situazione (“Il drago rapisce la principessa”) b) di stato o di essere quando descrivono la situazione (se attribuiscono una proprietà sono attributivi, come “Il drago è vorace”). Di altra natura rispetto agli enunciati descrittivi sono quelli modali, nei quali vi è un predicato modale e cioè un predicato che si applica a un altro predicato (“Il cavaliere può uccidere il drago”). Per Greimas sono predicati modali dovere, volere, potere, sapere, fare e essere. Questi enunciati possono essere considerati come attributivi in quanto attribuiscono all’agente un oggetto modale. Gli enunciati narrativi strutturano il discorso in due modi: 1) a due attanti (“Il cavaliere uccide il drago”), 2) a tre attanti (“L’oste dice al cavaliere dove si trova il drago”). Questo genere di rappresentazione è chiamata da Greimas Del Senso. 3) Si possono però presentare entrambi gli enunciati, come congiunzioni e disgiunzioni di soggetto e oggetto (“Il cavaliere libera la principessa dal drago”).

L’estensione al racconto nel suo insieme o comunque a sintagmi narrativi che si succedono secondo sequenza, risente dello schema di Vladimir Propp. In “Morfologia della fiaba” del 1928, Propp chiamava funzione l’azione di un personaggio considerato per il significato che assume nella vicenda (allontanamento, divieto, infrazione, partenza, lotta, vittoria). Per Propp non tutti i caratteri della fiaba di magia si presentano in tutte le fiabe, ma se sono presenti seguono comunque un ordine rigido. Identifica sette ruoli per i personaggi della fiaba: antagonista, donatore, aiutante, re o principessa, mandante, eroe, falso eroe. Funzioni e ruoli proppiani sono maggiormente sfumati e astratti nelle analisi di Greimas, in vista dell’estensione dell’analisi dalla fiaba in riferimento agli altri generi di racconto.

Inizialmente Greimas distingue due tipi di sintagmi narrativi: a) il contratto, in cui il destinante passa un oggetto modale (dovere, volere) a un destinatario che diventa così soggetto di un progetto narrativo b) la prova, in cui il soggetto si confronta con l’opponente per la realizzazione del progetto (unione con l’oggetto). Si distinguono tre tipi di prove: 1) qualificante 2) decisiva 3) glorificante. Nella prova qualificante il soggetto manifesta le qualità per superare la prova successiva. Nella prova decisiva ha luogo un confronto fra il soggetto e l’antisoggetto; il vincitore s’impossessa dell’oggetto per cui ha lottato. Nell’ultima prova il soggetto si confronta direttamente con l’antisoggetto, viene riconosciuto e premiato (l’antisoggetto sarà punito).

Greimas distingue anche quattro strutture modali a) fare-fare b) essere-fare c) fare-essere d) essere-essere, a cui corrispondono quattro processi della struttura di un racconto: 1) manipolazione 2) competenza 3) performanza 4) sanzione. Poiché competenza e performanza danno luogo all’azione, Greimas identifica la seguente struttura a tre fasi chiamandola schema narrativo: x) manipolazione y) azione z) sanzione nella manipolazione. Nell’azione il soggetto, che deve avere una competenza per padroneggiare la situazione, affronta la performanza acquisendo o non acquisendo l’abilità per fronteggiarla. Nella sanzione il soggetto e la sua azione vengono ricompensati. L’applicabilità dello schema narrativo ai diversi ambiti sociali e non solo letterari, lo presenta come un carattere determinante dell’immaginario.

[…]

Il percorso narrativo del soggetto. I sintagmi descritti delineano il racconto come un percorso narrativo del soggetto. Il soggetto all’inizio del racconto è lontano dall’oggetto. Questo soggetto etereo (dal punto di vista della corposità descrittiva del carattere e dell’azione) non ha ancora la maturità narrativa per completare il suo progetto (e unirsi con l’oggetto); acquisisce le competenze necessarie a completare il programma diventando soggetto attualizzato (potere e sapere sono facoltà attualizzanti). In seguito il soggetto procede per il suo iter letterario e si unisce con l’oggetto diventando un soggetto con un carattere definito.

1) Gli attanti. I nomi degli attanti per lo più derivano dagli enunciati narrativi, come enunciati a due o tre attanti. Nell’enunciato a due attanti troviamo soggetto e oggetto; in quello a tre attanti sono presenti destinante, oggetto, destinatario. In “Del Senso” a tali attanti si aggiungono l’aiutante e l’opponente ispirati a Propp; e abbiamo quindi tre coppie di attanti: soggetto e oggetto, destinante e destinatario, aiutante e opponente. In “Del Senso 2” troviamo invece: a) quattro attanti positivi (soggetto, oggetto, destinante, destinatario) b) gli speculari negativi (antisoggetto, oggetto negativo, antidestinante, antidestinatario).

2) Le modalità. Greimas non distinuge solo in modalità virtualizzanti, attualizzanti e realizzanti, ma sottolinea anche le modalità aletiche: potere e dovere quando si attribuiscono all’essere (ad affermazioni vere-false-verosimili) modalità deontiche, potere e dovere quando si applicano al fare.

3) La veridizione. La categoria modale della veridizione è articolata su un quadrato semiotico in cui i due contrari sono essere e sembrare. Lo schema dell’immanenza mette in relazione essere a non essere, quello della manifestazione unisce sembrare a non sembrare. Le modalità veridittive si determinano sui quattro lati del quadrato: essere + sembrare produce la verità; non essere + non sembrare dà luogo alla falsità; dall’essere + non sembrare scaturisce il segreto; da sembrare + non essere si origina la menzogna. La definizione di ciò che è falso non è chiara, ma possiamo spiegarla come un destinante che pronunci un enunciato simile: “Non è così e non sembra così”. La locuzione determina appunto il falso. In Greimass e Propp è evidente il superamento della poetica di Aristotele, della verità come verosimiglianza e della verità come qualcosa di esclusivo nell’enunciazione (De Interpretazione). La veridizione è qualcosa di autonomo e istituisce la verità della storia. Essa complica la scena applicandosi agli attanti (soggetto e antisoggetto) alla loro competenza (autentica o illusoria) o ai sintagmi narrativi (contratto ingannevole). La sanzione si serve delle modalità veridittive per il riconoscimento del soggetto e lo smascheramento dell’antisoggetto.

4) Semiotica discorsiva. Il discorso del racconto è separato dalla sua struttura; possiamo avere racconti con la stessa struttura ma che utilizzano personaggi diversi o un diverso ambiente. Decontestualizziamo ad esempio Cenerentola in una moderna città in luogo del bosco. Tra grammatica narrativa e semiotica discorsiva passa la medesima differenza rinvenuta fra attanti e attori. Gli attanti sono attualità narrative a carattere sintattico, gli attori presenze discorsive in cui è rilevante l’aspetto semantico. Gli attanti prevalgono nel contesto narrativo e lo rendono riconoscibile anche quando si stravolge il contesto. Come accade per le caricature o la satira, dove benché deformato rimangono sempre individuabili il soggetto e la scena.

[…]

Gli attanti sono i veri protagonisti delle favole e svolgono funzioni diverse. Abbiamo visto schematicamente che sono riconducibili a otto: quattro positivi (soggetto, oggetto, destinante, destinatario) e quattro negativi (antisoggetto, oggetto negativo, antidestinante, antidestinatario). Prevalgono però sulla scena soggetto e antagonista, non per loro naturale propensione ad accentrare l’attenzione narrativa, ma per l’innato bisogno di giustizia che porta da sempre a dividere il mondo in buoni e cattivi. E dunque: “attanti a quei due”.

Da Per me Biancaneve gliela dava ai sette nani (tutto quello che non vi dicono sulle favole)

BIANCANEVE E LA MELA DI CHOMSKY

La scena è questa: Biancaneve sente bussare alla porta, compare una vecchia megera con una mela bellissima ma avvelenata, la fanciulla la mangia e muore. Poiché la ragazza è tutt’altro che sprovveduta, viene da chiedersi come abbia potuto fidarsi di una sconosciuta. La questione è importante; in primo luogo perché mi ha tolto il sonno da piccolo (e non mi pare una cosa secondaria) e poi perché ci raccontano favole abituandoci a ricevere informazioni, che per quanto improponibili vengono così assorbite senza problemi. Chomsky ha spiegato i meccanismi linguistici su cui costruiscono le favole, ma sembra averne dimenticato uno fondamentale, la sorpresa e il sogno. I punti 5 (rivolgersi alla gente come bambini) e 6 (concentrarsi sull’aspetto emozionale) delle dieci regole per il controllo sociale non spiegano un elemento importante, l’assenso e la complicità della vittima. I pubblicitari in questo sono molto avanti. Quando vuoi vendere un prodotto lo devi presentare come un sogno e non deve mancare il fattore sorpresa. Chomsky dimentica che veniamo abituati alle favole; viviamo nell’attesa del principe azzurro, dell’albero che produce monete d’oro, del paraclito o di qualcuno che si porti via nostra moglie. Attendiamo, sogniamo, e siamo disposti a pagare per una sorpresa. Siamo complici prima che vittime. Avrò letto il libro dei fratelli Grimm decine di volte e il cartone animato l’avrò visto altrettante, e sempre la mia coscienza di bambino mi faceva battere i pugni dalla rabbia. Qualche volta credo di avere anche gridato nel mezzo della proiezione, ma quant’è cretina. Oggi ne vado orgoglioso, avevo una coscienza e non lo sapevo. Andiamo con ordine: arriva una strega brutta come la fame, roba che pure il cane si nasconde sotto al tavolo e Biancaneve la fa entrare. Ecco un altro meccanismo che nasce dalla favola e viene sfruttato nella vita quotidiana, il travestimento. La vecchia è la matrigna cattiva (quella di “Specchio delle mie brame chi è la più bella del reame?”) travestita da mendicante. Il cattivo delle favole si traveste sempre; l’integrità e la coerenza sono cose da buoni. Si traveste perché la cattiveria è intenzionale, finalizzata e il resto davvero non conta. Altro elemento di distrazione è il linguaggio; la matrigna porge la mela alla fanciulla dicendo: “Roba bella, roba bella, voglio regalartene una”. Non dimentichiamolo, le favole nascono dalla lingua e si consumano nella stessa. Abbiamo la ripetizione roba bella/roba bella (come fa quell’altro cacciaballe che da vent’anni ci dice che la promozione è solo per oggi e tutte le volte gli crediamo) e la parola regalo. Ripetendo abituiamo il possibile acquirente al prodotto, lo portiamo nella favola; il regalo macina nelle emozioni scavalcando i processi adulti della riflessione. Le emozioni toccano il desiderio e non c’è ragione che riesca a fronteggiarlo. Il regalo distrae (primo elemento della distrazione sociale in Chomsky), distoglie da altro, serve a: “Sviare l’attenzione dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali”. La parola regalo viene da rex: re, regio, regale, e attraverso lo spagnolo regalo = dono al re, regalare = rendere omaggio al re. Ci sentiamo principi questo è il problema e vogliamo sorprese. Dal latino superprehendere; prendere da sopra, alle spalle. Poi non lamentiamoci se ce lo mettono nel culo.

bianca

ebook e cartaeo

CONSIGLI, AMENITA’ E FACEZIE SOPRA L’ESERCIZIO DEL MERETRICIO E DEI LUPANARI

Non esistono le prostitute; ci sono uomini che pagano il prezzo della propria solitudine. La prostituzione non è una categoria antropologica, ma il passaggio di denaro da una miseria all’altra.

Ci sono elementi di disturbo all’interno di un ordine; turbano il contesto ma lo mantengono stabile. Sono qualcosa di straordinario all’interno dell’ordinario; li troviamo nella fisica, nella lingua e in quegli aggregati umani che chiamiamo comunità. Non sempre manifestano una genialità nei contenuti, quelli non sono numericamente determinanti in quanto fuori dal comune e da ogni statistica, sono irrilevanti se collocati in uno spazio e un tempo ordinario, pur modificandone la struttura. I contesti sociali li producono per darsi una solidità. Gli emarginati, i solitari, gli esclusi servono a contornare i limiti delle norme, a dare un nome a quello che è giusto, accettabile, moralmente appropriato. Agostino nel De Ordine II, appuntava: “Togli le prostitute dalla società e ogni cosa verrà sconvolta dalla libidine” (“Aufer meretrices de rebus humanis, turbaveris omnia libidinus”; c. 4, 12). Riconosceva la funzione stabilizzante degli elementi esterni all’ordine morale di un contesto sociale. Il discorso è ampio perché tocca il piacere nella sua profondità; e sulla sessualità e dei modi di esercitarla non mancano ricerche minuziose. La prostituzione in particolare ha assorbito nel tempo questo tipo di connotazione; limita il piacere e lo colloca ordinandolo all’interno di un perimetro marginale, tollerato però dall’autorità; la cui funzione si delinea da sempre nel controllare l’espressione del piacere. E come sempre accade quando si tratta di ciò che procura alle emozioni l’intensità di un orgasmo, la sovrapposizione morale e il giudizio intervengono a riordinare l’eccesso. Le leggi fanno poi la loro parte, dimenticando che dietro a quel piacere rubato si nascondono le vite di donne trattate come fossero cose, attaccandolo ai loro corpi spogliati di un’identità il cartellino del prezzo.

Non esistono le prostitute; ci sono uomini che pagano il prezzo della propria solitudine. La prostituzione non è una categoria antropologica, ma il passaggio di denaro da una miseria all’altra.

Hoepli, Feltrinelli, Mondadori, Ibs

LE FAVOLE DELLA PSICOANALISI

CARTACEO – EBOOK

Accanto all’inconscio personale, inteso come rimosso e sede dei complessi, Jung individuava un inconscio collettivo composto da archetipi, che sono i modi con i quali funziona la psiche in profondità. Se tali funzioni (funzioni più che immagini perché precedono la loro formazione) invadono la coscienza senza un filtro possono risultare numinosi, ossia far vivere esperienze intense e significati; altrimenti danno luogo a fenomeni dissociativi e distruttivi. E’ nella fiaba come nel sogno che gli archetipi irrompono e danno forma alle rappresentazioni. La fiaba (più che la favola) racconta il percorso attraverso il quale la mente giunge alla sua maturazione, liberandosi dai complessi che la mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide), attraverso la funzione archetipica (un oggetto magico nelle storie o un feticcio animato nella vita del bambino) che invece di annientarla finisce per fortificarla. La sequenza è piuttosto lineare e ordinata. Nella fiaba gli eventi si dividono in quattro momenti. Il primo racconta il luogo, il tempo, i personaggi principali, l’inizio dell’azione. Il secondo la vicenda nella sua dinamica avventurosa. Il terzo la crisi, in cui il protagonista si trova di fronte a situazioni in grado di annullarlo. In ultimo la ”lisi”, in cui il protagonista trionfa. Per Bettelheim il bambino non è un soggetto passivo rispetto alla storia ma partecipa attivamente con le sue emozioni e la fantasia, avverte che è un racconto che lo riguarda in profondità. Attraverso l’identificazione con i personaggi riesce a superare le situazioni conflittuali e angoscianti; si libera dalle pulsioni aggressive e dallo stato di impotenza, in qualche modo nasce alla vita adulta. La componente trasgressiva è un elemento fondamentale nella favola come nella fiaba, ed è una tappa naturale nella crescita di un individuo. Si tratta di deviare da un sentiero segnato da istanze superegoiche non ancora assorbite dalle figure di riferimento adulte. Nell’infanzia il Super Io è debole e viene aggredito dall’Es; Pinocchio si sottrae agli ammonimenti della fata e di Geppetto, Cappuccetto Rosso a quelle della Madre. Padre e Madre non sono sufficientemente assorbiti e quindi ancora inconsistenti nella mente del bambino. La trasgressione è una specie di immersione nell’inconscio personale e una protesta al mondo adulto che non riesce a integrare, nella quale percepisce i conflitti interni personificati in immagini che provocano paura e panico. Ma è anche un tentativo di liberarsi dalle catene della lingua e dalle regole narrative quando invadono la vita intima. Si tratta di un’esperienza intensa e paurosa e il bambino avverte i pericoli; la paura è un modo per comprendere, quel che non ha forma assume un contorno e la paura viene almeno in parte detonata. L’immersione conduce poi a un ritorno all’inconscio extrapersonale collettivo. Nel sogno come nella fiaba il bambino sperimenta la forza distruttiva o creativa degli archetipi. Pinocchio incontra Mangiafuoco, poi viaggia nel Paese dei Balocchi, viene quindi inghiottito e incorporato, si immerge nella pancia della balena. Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo, Cenerentola deve ritornare dalla matrigna. Se il bambino fa un bagno nell’inconscio personale, il contesto immaginario risulta ansioso; mentre l’immersione nell’inconscio collettivo porta in situazioni estreme, angosciose e depressive. Il limite è quello. L’ansia vissuta dal protagonista e in cui si identifica il bambino è uno stato d’animo suscitato da eventi che non riesce a integrare, prima che da draghi o orchi, e rappresenta una reale minaccia per l’Io. Si tratta di una paura senza l’oggetto, paura della paura; quel cieco sentire che afferra Pinocchio (che infatti è pieno di presagi negativi) prima di partire per il paese dei Balocchi, o quello che prende Biancaneve quando si avventura nel bosco. Nella sua profondità la paura è attesa e l’attesa è uno dei modi in cui si presenta l’angoscia. L’incomprensibilità che sta nel fondo scaturisce da stati d’animo ambivalenti; è un elemento fondamentale, nella narrazione tanto nella psiche, quanto da presentarsi praticamente in tutti i racconti per l’infanzia, ma anche nella mitologia e in buona parte della letteratura. Nell’immersione i protagonisti incontrano figure fantastiche che sono elementi interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze con cui viene in contatto: i complessi dell’inconscio personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo. Il Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super Io, ma la voce narrante della coscienza in conflitto con i desideri del butattino; il Gatto e la Volpe (l’ultima in particolare, sotto la quale si nasconde la strega, come avverte Von Franz) immagini archetipiche dell’ipocrisia, dell’astuzia e della cattiveria. In Hansel e Gretel gli adulti sono figure divoratrici; le sorellastre di Cenerentola, l’Ombra che viene proiettata dal sottosuolo. In Cappuccetto Rosso il lupo è l’archetipo della malvagità e incarna l’immagine distruttiva o autodistruttiva. Il pericolo reale non è l’aggressione del Lupo, ma la personalità del bambino che può soccombere, divorata dall’inafferrabilità di fenomeni contrastanti o fagocitata dalla personalità degli adulti, diventando ritorsione e autodistruzione. La repressione diventa perversione, poi masochismo o sadismo a secondo delle situazioni. Si tratta di una trasformazione radicale del protagonista del racconto, non sempre lineare e ordinata come analogamente accade nel sogno. Il Brutto anatroccolo diventa un cigno, Pinocchio un bambino, Cenerentola e Biancaneve principesse. The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, A. Knopf 1976 (tradotto in italiano con il titolo “Il mondo incantato”), di Bettelheim è il libro da cui partire per una lettura psicoanalitica delle fiabe. L’autore sottolinea che le versioni originali delle favole, in cui erano ancora presenti gli elementi crudi e violenti, permettevano ai bambini di rappresentare i conflitti con maggior intensità.

bianca

Le interpretazioni, che risalgono alla prima topica freudiana risultano certamente schematiche, ma di un certo interesse rimangono le considerazioni sulla coppia narratore e ascoltatore. Per Bettelheim: “Il processo inizia con la resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il ragazzo ha realmente trovato se stesso, ha raggiunto l’indipendenza psicologica e la maturità morale e non vede più l’altro sesso come minaccioso o demoniaco, ma è capace di entrare in relazione con esso”. Emblematica è la storia di Rapunzel dei fratelli Grimm. In Raperonzolo si legge che la maga rinchiude la bambina (Raperonzolo appunto) nella torre quando aveva poco più di dieci anni. Difficile non rinvenire nella vicenda il paradigma di un’adolescente e di una madre oppressiva che ostacola la crescita della figlia. Così scrive lo studioso austriaco: “Un bambino di cinque anni ricavò una rassicurazione completamente diversa da questa storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a lui per la maggior parte della giornata, sarebbe dovuta andare in ospedale perché gravemente ammalata … chiese che gli fosse letta la fiaba di Rapunzel. In quel momento critico della sua vita … [prese conforto dal] fatto che Rapunzel trovò i mezzi per sfuggire alla difficile situazione nel proprio corpo, ovvero con le trecce che il principe usò per arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il proprio corpo possa fornire a una persona il sistema per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel suo corpo la fonte della sua sicurezza”. Semplificando, così come fanno le favole, i problemi fondamentali si presentano in modo chiaro e conciso, comprensibile al linguaggio infantile. Ed è forse questo il loro carattere deleterio; non c’è sforzo o articolazione nella comprensione, creano dicotomie rigide su base emotiva e non secondo ragione. La ragione subentra posteriormente quando è oramai contaminata dalla morale. I caratteri dei personaggi sono nettamente spiegati, il dualismo bene-male impone il problema morale e richiede uno sforzo affinché possa essere superato. Non più secondo ragione però, ma sulla base di una tensione interna; la paura domina nella scena e muove organizzandola la psiche del fanciullo. La regola è salvarsi la vita, la comprensione dei fenomeni non può che essere subordinata e successiva. Per quanto l’eroe risulti come esempio al bambino, permettendogli di identificarsi in un personaggio positivo affrontando e vincendo situazioni pericolose, la morale compensata con la lotta e la vittoria tende a prevalere sul principio di ragione e ancor di più sul contenuto letterario. Ed è questo il limite della favola, la comprensione morale si sovrappone a ogni altra. La paura assorbe il campo e non lascia spazio ad altre considerazioni oltre quelle brutalmente contingenti. I personaggi delle fiabe non sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso tempo, come invece accade nella realtà. La scelta è obbligata, fa in modo che non si possa articolare il racconto e il lieto fine è pressoché scontato; ragione per cui risultano dannose per la crescita, in quanto limitano fortemente il campo dell’esperienza e delle emozioni. Pur precisando che per Bettelheim “Il succo di queste fiabe non è propriamente morale, ma piuttosto la fiducia di poter riuscire”. Raperonzolo è una fiaba europea, pubblicata dai fratelli Grimm nella raccolta (Kinder und Hausmärchen, 1812-1822). Il nome della protagonista dipende dal fatto che quando la madre era rimasta incinta venne presa dal desiderio di mangiare i raperonzoli che crescevano nel campo della vicina, la strega Gothel. La vicenda può essere ricondotta alla figura mitologica di Danae. Ne Lo cunto de li cunti (1634), noto come Pentamerone, di Giambattista Basile si trova la fiaba Petrosinella, che narra una storia simile. Basile racconta di una donna gravida che desidera il prezzemolo (da cui deriva il nome di Petrosinella, nel dialetto campano) che si trova nel giardino di un’orchessa. Il mostro la cattura e in cambio della vita ottiene il possesso della bambina una volta nata. Tutto questo avviene ovviamente con un linguaggio elementare ma profondo, non sempre accessibile alla coscienza vigile; si tratta di una simbolizzazione. Per l’analisi delle fiabe da un punto di vista psicoanalitico, a parte il libro di Bruno Bettelheim, risultano esaustive anche alcune pagine di Melanie Klein e di Erich Fromm. Di particolare interesse sono le considerazioni della Klein in merito alla posizione depressiva e schizoparanoide: i personaggi non sono buoni e cattivi nello stesso tempo; è l’ambiguità a provocare uno sforzo di comprensione e uno scollamento della personalità. La polarità del carattere permette al bambino di comprendere la differenza tra un modo e l’altro, ma disturba il suo campo cognitivo. Il bambino si identifica facilmente con i personaggi che suscitano la sua affezione (solitamente i buoni) e decide a sua volta di essere buono. Nell’identificazione la domanda che si pone non è “desidero essere buono?” ma “chi voglio essere?”. Non è la virtù a fare buoni ma l’imitazione di un eroe con i caratteri della bontà; diversamente è richiesta una capacità astrattiva, che di norma manca al bambino. Proiettando se stesso nel personaggio il meccanismo dell’interiorizzazione completa la formazione della sua personalità. La simbolizzazione è necessaria come mediazione con il linguaggio cosciente e la rappresentazione è una forma di simbolizzazione necessaria alla comunicazione con la parte in Ombra della personalità. Non va interpretato al bambino il significato della storia: “E’ sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio, e questo è particolarmente vero nel caso del bambino”. La mamma non deve mostrare al bimbo che conosce i suoi pensieri intimi; la spiegazione distrugge l’incanto, trascina nella realtà e non permette di fantasticare. La fantasia è una forma di libertà, anche dei pensieri. L’antropologo russo Vladimir Propp nel suo saggio Morfologia della fiaba (1966) ritiene che tutte le fiabe presentino elementi comuni, ovvero una stessa struttura che ritrova al suo interno i medesimi personaggi che ricoprono le stesse funzioni in relazione allo sviluppo della storia. In particolare la fiaba presenta un equilibrio iniziale (inizio), la rottura dell’equilibrio (avventura) seguita dalle peripezie del personaggio principale, per giungere a un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione). Questo schema universale fa da cornice al processo di simbolizzazione all’interno della fiaba perché il contesto stesso della fiaba è simbolico: il simbolo viene rinforzato dalla struttura della fabula proprio perché è comune in tutte le fiabe. Attraverso la via dell’immaginario, favole e fiabe accomunano civiltà e culture lontane, dimostrando che in esse siano assorbiti gli elementi dell’inconscio personale e gli archetipi di quello collettivo.
Quando si parla di favole e fiabe è anche inevitabile il confronto col mito, ma i processi identificativi risultano più complicati: se il mito, come la fiaba, può rappresentare un conflitto interiore in forma simbolica e suggerire la soluzione, presenta la storia in una forma colta spesso inaccessibile alla lingua e alla fantasia del bambino. Da un punto di vista propriamente psicoanalitico i miti sono collegati alle richieste del Super Io e raccontano il conflitto con le esigenze dell’Es e quelle di conservazione dell’Io. Sono rappresentazioni distanti e ricordano il rigore della censura o dell’imperativo morale. La favola, diversamente dal mito, non pone richieste, non produce un senso di inferiorità, stimola anzi una certa reazione. Attraverso esempi tratti dalla letteratura popolare, Bettelheim dimostra come il messaggio di queste storie domestiche aiuti a superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di grandi. Ed è per questo che risultano convincenti. Il pensiero del bambino è animistico (picchia la sedia su cui ha sbattuto, parla con la bambola); non ci stupiamo che il vento e gli animali parlino, o che un uomo si trasformi in un asino, poiché la separazione tra organico e inorganico non è ancora definita come nel mondo degli adulti. Le fiabe evocano situazioni che permettono al bambino di affrontare ed elaborare le reali difficoltà della propria esistenza; sono utili perché aiutano a tradurre in immagini visive gli stati interiori, danno un volto a quel che non ce l’ha. La fiaba intrattiene però il bambino, lo afferra come i gendarmi delle storie e lo costringe a riconoscersi in un contesto elaborato da un mondo adulto. Favole e fiabe sono scritte dai grandi e l’inconciliabilità con il mondo dei bambini è evidente, non possono che esercitare una qualche violenza. Doverosa certo, ma incontestabile. Il processo evolutivo del bambino inizia con la resistenza ai genitori e con il timore di crescere, e termina quando ha realmente trovato se stesso raggiungendo la stabilità psicologica e la maturità morale. Questi racconti danno voce a problemi evolutivi rilevanti (il bisogno d’amore, il sentirsi inadeguati, l’angoscia dell’abbandono, la paura della morte), scarnificando le situazioni, separando il bene dal male distinguono in modo chiaro quel che nella realtà è confuso; parlano al bambino dei problemi che avverte come angoscianti e ne prospettano le soluzioni. Soluzioni adulte naturalmente. Le storie accettano a livello della consapevolezza le pressioni dell’Es, e indicano i modi per soddisfare il piacere in accordo con le esigenze dell’Io e la severità del Super Io. Il bambino ha bisogno “di ricevere suggerimenti in forma simbolica riguardo al modo di affrontare questi problemi”. Diversamente, quando i contenuti nascosti vengono negati, se non hanno accesso alla coscienza, oppure se vengono limitati o oppressi, la personalità subisce un danno. Il piacere ha una sua legittimità riconosciuta anche dagli adulti, incistare la dinamica Io-Es vuol dire produrre una personalità sofferente e problematica; le fiabe offrono una via di fuga all’adulto che le racconta e una certa soddisfazione al bambino che le ascolta. E’ fondamentale che una parte del sottosuolo possa affiorare alla coscienza e venga elaborata attraverso l’immaginazione, perdendo parte della sua pericolosità. Bettelheim era critico sul fatto che al bambino debbano essere presentati soltanto le realtà positive. Il bambino non è un extraterrestre, deve fare i conti anche con la parte oscura, l’Ombra, con l’aggressività, l’odio, l’ansia, la rabbia maturando il coraggio per affrontare le difficoltà. Le difficoltà le creano più o meno consapevolmente gli adulti, riversandole spesso nella sessualità.
Se è evidente la presenza di contenuti sessuali nella storia, le interpretazioni discordano. Alcuni autori si sono spinti fino a rinvenire nei racconti la prostituzione. La fiaba potrebbe essere intesa come un’esortazione a non esercitare quella professione. Il tema della ragazza nel bosco in molte culture viene associato alla prostituzione; nella Francia del XVII secolo la mantellina rossa era veniva indossata dalle meretrici e le lupae dell’antichità dovevano portare un drappo rosso. Il rosso rappresenterebbe le mestruazioni e l’ingresso nella pubertà (la foresta) mentre il lupo, l’uomo era visto come l’aggressore. Ma, pur non mancando l’erotismo nelle storie popolari, sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano, frutto come si vede di una certa morbosità e di un gretto intellettualismo da parte degli adulti.
Un aspetto invece interessante è l’antropofagia. La fiaba ha origine nel contesto europeo piegato dalle carestie, durante le quali si contavano casi di cannibalismo (emblematiche sono la carestia del X secolo e quella ancora più drammatica del 1315-1317). Soprattutto nelle versioni più antiche delle fiabe la figura antropofaga prendeva la forma di un’orchessa, un mostro femminile, piuttosto che di un lupo (di sesso maschile, la cui antropofagia era riconosciuta come un fatto ordinario) e ciò induce a pensare come questi racconti si siano modificati per rispondere alle diverse esigenze educative.
Per concludere. La fiaba è un racconto mitico costituito da immagini e personaggi archetipici. Jung scrive che le fiabe consentono di studiare l’anatomia della psiche meglio delle discipline scientifiche, in quanto presentano in forma pura i processi dell’inconscio collettivo e riproducono modelli del comportamento archetipico (von Franz, 1996). Occorre mettere da parte la cultura per ascoltare ciò che il simbolo ha da dire. Marie-Louise von Franz ha dedicato parte del suo lavoro proprio all’interpretazione psicologica della favola. Sottolineava che tutte le fiabe descrivano il Sé, l’archetipo fondamentale della psiche. Nel libro “Le fiabe del lieto fine; psicologia delle storie di redenzione” (2004) la von Franz analizza il lieto fine a partire dalla trasformazione e la liberazione in quanto possibilità di arrivare al Sé. Le fiabe caratterizzano non solo l’equilibrio di un individuo, ma offrono anche un metodo terapeutico. Analizzando le strutture archetipiche della fiaba, la psicoanalista puntualizza: “Al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello, per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz, 2009). Ciò vuol dire che la fiabe presentano gli archetipi nella forma genuina e pura, offrendoci un alfabeto e un metodo per comprendere i processi della psiche collettiva. Mentre nei miti, o in qualunque altro materiale narrativo elaborato, rinveniamo i modelli della psiche rivestiti di elementi culturali, nelle fiabe l’invadenza culturale è presente in misura limitata; riflettono più direttamente i modelli profondi della psiche. La ragione di un’interpretazione psicologica delle favole, per la von Franz consiste nell’effetto rigenerante, nella reazione emotiva, in quell’incomprensibile equilibrio che producono: “L’interpretazione psicologica è il nostro modo di raccontare storie; avvertiamo ancora lo stesso bisogno, aspiriamo ancora al rinnovamento che scaturisce dalla comprensione delle immagini archetipiche”. E aggiunge con autocritica: “Sappiamo bene che l’interpretazione è il nostro mito” (von Franz, 1996). Nel suo libro “Le fiabe interpretate”, l’autrice schematizzava le fasi per una corretta interpretazione, con una tecnica che ricorda quella strutturalista: introduzione (c’era una volta; la formula indica una collocazione fuori dallo spazio e dal tempo e dunque in un luogo immaginario, e perciò comune, collettivo); personaggi (contare i personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico); esposizione (l’inizio del problema, la crisi e le difficoltà che caratterizzano la fiaba); avventura e lisi (l’avventura, che può articolarsi in varie peripezie fino a giungere al vertice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, l’esito finale; il racconto termina poi in tragedia o si conclude felicemente”). In ultimo ci sono le formule conclusive, “rite de sortie”, così dette per non rimanere vincolati all’universo infantile dell’inconscio collettivo. Una caratteristica della fiaba che non ritroviamo in altri generi come miti e leggende, è che la conclusione può anche essere ambigua, ossia una conclusione positiva sottolineata da un commento negativo del narratore. Fiaba, sogno e gioco sono l’espressione del processo di simbolizzazione e dell’interazione del bambino con l’ambiente circostante. Il problema rimane quello di non farsi sequestrare dal racconto (Barthes) e di svincolarsi dalla lingua. La letteratura prende il sopravvento fornendo le regole dei comportamenti adulti. Può anche essere qualcosa di positivo, nel caso l’identificazione avvenga con l’eroe buono, ma il pericolo è di ritrovarsi imprigionati in un ruolo, peraltro legato ai modelli simbolici dell’infanzia. Si è detto della componente sessuale nella favole, il ruolo impedisce la consapevolezza dei comportamenti e limita la circolazione del desiderio. Biancaneve, Cenerentola, Pinocchio desiderano e sono in cerca del piacere. Nella lingua di un bambino, fatta di metafore e metonimie, è più che evidente e il rischio è quello di circoscrivere tale fondamentale processo di crescita e di equilibrio della psiche all’interno di quel contesto semantico che chiamiamo favola. La trasgressione, la disubbidienza sono un modo per svincolare il desiderio dai binari del linguaggio e dalla narrazione. Si converrà che per il bambino che ascolta il racconto, rimangono la parte più eccitante, quella che viene percepita con maggiore intensità e partecipazione. Non c’è analogia tra fiaba, favola e sogno, ma un vero e proprio legame; sul piano linguistico e simbolico rappresentano esperienze comuni. Peirce distingueva tra tre generi di segno: quello “iconico” (che rimanda al suo referente; ad esempio il disegno di un cane), quello “indessicale” (che ha una relazione di causa col referente; le nuvole come segno della pioggia), e quello “simbolico” (che non ha nessuna relazione col referente). Favole, sogno e gioco dimostrano l’arbitrarietà del segno e la convenzionalità delle proposizioni. Imbrigliato nella lingua il desiderio non è più libero di circolare alla ricerca della realtà svincolata da una narrazione; produce allora una rappresentazione o una pantomima sulla spinta di un’esigenza morale. Metafora e metonimia precedono però non solo la lingua ordinata in un sistema semantico, ma la morale stessa. Jakobson partendo dalla distinzione tra dimensione verticale e orizzontale del linguaggio (che si collega a quella tra langue e parole), parlava di una sistematizzazione del linguaggio sull’asse sintagmatico o su quello paradigmatico. L’asse sintagmatico è quello sul quale gli elementi della lingua si dispongono in una linea; quello paradigmatico è il ricettacolo dal quale si attingono gli elementi da sistemare sull’asse sintagmatico. Ad esempio, nell’enunciato “il cane morde il gatto”, ogni parola è disposta sintagmaticamente lungo l’asse orizzontale, ma posso attingere paradigmaticamente dal genere dei nomi per sostituire a “gatto” o a “cane” altre parole e ottenere una frase diversa: “papà morde il panino”. Per Jakobson, questa distinzione sui due assi corrisponde alla distinzione tra metafora e metonimia. La metafora presenta la sostituzione di qualcosa sull’asse paradigmatico; la metonimia su quello sintagmatico. Da questo punto di vista, la favole e la fiaba (come il sogno) sono un lingua onirica che si costruisce sulle sostituzioni continue tra i due assi, giocando con metafore e metonimie. Il contenuto morale afferra il linguaggio in una sedimentazione di senso, elaborando i termini lo irrigidisce in una catena semantica che impedisce il passaggio dall’asse paradigmatico a quello sintagmatico. E ciò in sostanza vuol dire che il sentiero del bambino è dal principio segnato secondo l’ordine della lingua. Il sogno rimane un sogno e quel che gli adulti chiamano reale finisce per prevalere sulla fantasia e l’immaginazione. Dominato o domato dalla morale il desiderio conduce, come in una favola, prima o poi a dominare quello dell’altro.

MONDADORI http://www.mondadoristore.it/me-Biancaneve-gliela-dava-Giancarlo-Buonofiglio/eai978882601898/

HOEPLI http://www.hoepli.it/ebook/per-me-biancaneve-gliela-dava-ai-sette-nani/978882601898E.html

FELTRINELLI http://www.lafeltrinelli.it/ebook/giancarlo-buonofiglio/me-biancaneve-gliela-dava-sette/9788826018980

FAVOLE E LUOGHI COMUNI

Andare al di là delle favole vuol dire scontrarsi con chi, nella difesa di un’illusione, presenta la verosimiglianza come verità

I luoghi comuni. Non si tratta di modi di dire o di acclarate comunanze di pensieri e idee; sono piuttosto i luoghi del senso che si aprono tra le parole e le cose. Quando parliamo utilizziamo dei nomi, il modo col quale il nome significa la cosa è qualcosa appunto di comune, fa riferimento a un comune modo di vedere. Diciamo ad esempio che il sole è giallo; il problema sfuma un poco se sono presenti due persone, perché vivono una comune esperienza (per quanto anche la percezione sia profondamente individuale) e un referente (il sole). Ma in assenza di quest’ultimo quel convergere sul colore fa riferimento a un’idea del giallo che supponiamo condivisa, indiscussa, inalterabile. Il discorso vale per i colori come per ogni cosa. Non è questo il luogo che aprire una discussione su quanto e come il nome significhi effettivamente la cosa (Περὶ Ἑρμηνείας); mi preme però sottolineare che è in quello spazio vuoto, fatto di parole che non hanno relazione con la realtà se non un comune modo di sentire e di vedere, che si aprono le questioni fondamentali. Giudizi e i pregiudizi che prendono la forma di un orco o di una strega. Qualcuno parla di Dio, altri di metafisica, altri ancora di idee, di senso, di causa, di morale; la psicoanalisi addirittura di proiezioni o di immaginario Le favole appunto, che richiamano a un comune modo di sentire. Qualche volta quel luogo è vicino alla realtà, altre crea uno scollamento insanabile al punto da ostacolare la percezione delle cose stesse. E scusate la protervia, ma prima che del mio libro sto parlando di Husserl (zu den Sachen selbst) e di Hume. Andare al di là delle favole, destrutturarle, scarnificarle fino all’osso significa proprio mettere le mani nella metafisica, che è fatta di credenze e illusioni prima ancora che di idee. Non c’è altro modo per tornare alle cose. Vuol dire però anche scontrarsi con l’ottusità di chi, nella difesa di un’illusione, non solo presenta la verosimiglianza come verità, ma fa un rogo dei libri che non richiamano a quella comune e inalterabile visione del mondo.

C’è una mistica per tutto; l’impossibile ma verosimile (ed è verosimile proprio in quanto più digeribile alla morale) si sostituisce alla verità. Destrutturare (che brutta parola) le favole vuol dire restituire alle cose una dignità, spogliandole dai luoghi comuni. Ed è un esercizio immorale, lo so; come quando qualcuno dice che Biancaneve gliela dava ai sette nani. Sempre a proposito del mio libro (acquistabile online su Amazon e nello store Mondadori alle pagine https://goo.gl/vQsLje  e http://goo.gl/qiDjfb) uno dei critici più ostinati mi ha scritto: “Allora è un libro di nicchia”. Ma sì, e non rompetemi la nicchia.

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pagina del libro

MINISTORIA DEL BAGNO E DEI SUOI INDISPENSABILI ACCESSORI

SULL’IGIENE PERSONALE ET I MODI DI NETTARSI

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(da Consigli, amenità e facezie sopra l’esercizio del

meretricio e dei lupanari)

GABINETTO

L’interesse per lo gabinetto et la funzione sua non è affatto recente. Erasmo da Rotterdam ad exempio nel secolo Sedicesimo cogitava sulle funzioni corporali, consigliando di coprire con un colpo di tosse il suono sgradevole di un peto (“Sostituite le scoregge con un colpo di tosse”), et di non salutare nessuno mentre sta urinando o defecando. La storia della stanza da bagno è però antichissima. Già i primitivi portavano i resti organici vicino a qualche fonte di acqua corrente; fu però nelle isole Orkeney, in Scozia, che diecimila anni fa si costruirono le prime tubature idrauliche per portare gli escrementi fuori dalle abitazioni. Et così per la prima volta la gente poteva andare di corpo nelle case, senza la necessità di uscire all’aperto. In Oriente l’igiene era una specie di culto, tanto che dal 3000 a.C. molti edifici avevano lo bagno privato (in Pachistan sono stati trovati bagni pubblici e privati muniti di condotti in terracotta et rubinetti per lo flusso dell’acqua). I più elaborati tra i bagni antichi appartenevano alle famiglie reali del palazzo di Cnosso, a Creta (2000 a.C.). I nobili minoici pare infatti che si dilettassero in vasche riempite et svuotate da condotti in pietra, poi sostituiti da tubi di ceramica. Le tubature trasportavano acqua calda e fredda, mentre lo palazzo era dotato di una latrina con serbatoio (il primo water closet della storia); tale serbatoio era progettato per raccogliere la pioggia et in sua assenza in modo tale da potersi riempire a mano. In Egitto le comodità de lo bagno subirono un notevole miglioramento; nel 1500 a.C. le case degli aristocratici avevano tubature in rame attraversate da acqua calda e fredda, et l’immersione nelle vasche prese un significato quasi religioso. Con la legge mosaica gli ebrei (nel regno di Davide et Salomone furono costruiti nella Palestina complicati impianti idrici pubblici) fecero dell’igiene nientemeno uno dei componenti essentiali della halakah.

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WATER CLOSET CON SCIACQUONE

Questa imprescindibile comodità dell’età moderna era già in uso dalla famiglia reale minoica 3500 anni fa. Dopo una moltitudine di experimenti, fu solo nel 1596 che Sir John Harrington ideò una “perfetta latrina” per la regina Elisabetta, sperando di rientrare nelle grazie sue dopo che era stato espulso da corte per avere fatto circolare dei romanzi volgari. Lo suo gabinetto comprendeva un serbatoio sistemato sopra l’impalcatura, un rubinetto azionato a mano, una valvola che scaricava le lordure in un pozzo nero. Harrington cadde però nella tentatione di un altro libro, che intitolò “The metamorphosis of Aiax”. L’umorismo irriverente dell’opera irritò nuovamente Elisabetta che lo bandì una volta per tutte assieme alla sua inventione. Et così bisogna arrivare al 1775 per trovare lo primo brevetto di Water con sciacquone; ad opera di un matematico et orologiaio britannico Alexander Cumming. Tale congegno differiva dal precedente per una fondamentale innovatione: il modello di Harrington si collegava direttamente al pozzo nero senza che ci fosse un contenitore d’acqua ad evitare il ritorno degli odori (cosa che la stessa Elisabetta lamentava); nel perfezionamento di Cumming lo tubo di scarico si curvava invece sotto la tazza, in modo da tamponare le esalazioni. Benché di innegabile utilità et di semplice applicazione, ci vollero tuttavia ancora vent’anni prima che il W.C. sostituisse lo vaso da notte.

CARTA IGIENICA

La prima carta igienica viene messa in commercio in America nel 1857, da Joseph Gavetty. Il prodotto, che era in pacchi con fogli singoli, non ebbe lo successo sperato. Gli americani sembra infatti che preferissero i ritrovati de la stampa: cataloghi dei grandi magazzini, giornali, opuscoli, foglietti pubblicitari (che tra l’altro fornivano un utile materiale di distratione). Nel 1879 Walter Alcock provò in Inghilterra a lanciare la moda della carta igienica nella forma dei rotoli a strappo, ma la morale vittoriana non accettò di pubblicizzare un accessorio tanto intimo et imbarazzante. Sempre in America nel 1880 due fratelli newyorkesi, Edward e Clarence Scott, riuscirono alla fine ad imporre il prodotto sul mercato (soprattutto ad alberghi et ristoranti che stavano ristrutturando le latrine per accogliere i nuovi water closet con sciacquone). La carta degli Scott, che era al principio marrone, si trasformò presto nella prestigiosa Waldorf Tissue (detta ScotTissue), portando su ogni rotolo la scritta “morbida come l’antico lino”. Le prime pubblicità erano rispettose della sensibilità de lo pubblico, fino a che dopo la prima guerra mondiale non cominciarono a girare messaggi di questo tipo “Hanno una bella casa, ma la loro carta igienica fa male!”.

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SALONI DI BELLEZZA (TERME)

I romani nel II secolo a.C. fecero dei bagni un ritrovo sociale, dotandoli di giardini, negozi, biblioteche, palestre et sale di lectura. Ad exempio nelle terme di Caracalla si praticavano cure per la salute et la bellezza. Ci si poteva cospargere di oli e abbandonarsi ai maxaggi; godere di bagni caldi, tiepidi o freddi; depurarsi con la sauna; curare i capelli; fare ginnastica nella palestra. Era anche possibile acquistare profumi e cosmetici, dedicarsi alla lectura o ascoltare conferenze, mentre in un’altra sala gli schiavi servivano il cibo et versavano lo vino. Anche se dal principio uomini et donne frequentavano terme separate, in seguito si diffuse la moda dei bagni misti. Tale abitudine continuò per qualche tempo anche dopo l’editto di Costantino (dal principio i bagni non avevano quel carattere promiscuo che presero invece con l’età rinascimentale, quando la parola “bagno” cominciò a significare tanto il bagno quanto lo bordello), finché la nuova religione cristiana non iniziò ad imporre la politica sua (nel 500 d.C. la moda delle terme era oramai decaduta).

SALVIETTE DI CARTA

Uno sbaglio di produzione del 1907 in una fabbrica, portò alla inventione delle prime salviette di carta a strappo. La carta igienica degli Scott proveniva da una cartiera et arrivava nei rotoli, che poi venivano tagliati e ridotti in pacchi formato bagno. Accadde una volta che una partita fosse difettata; poiché il prodotto non era buono per essere usato come carta igienica, uno degli Scott ebbe l’idea di farne delle salviette. Messi in commercio nel 1907, i primi fazzoletti usa et getta erano chiamati Sany-Towel.

RASOIO

Gli uomini si rasavano lo viso già ventimila anni fa servendosi di conchiglie et pietre di selce affilate. Tali strumenti furono perfezionati con l’intervento del ferro et del bronzo. Egizi, greci e romani si radevano quotidianamente (fu il termine romano “barba” a dare origine alla parola “barbiere”). Nelle americhe gli indiani usavano strapparsi i peli della barba uno a uno, utilizzando gusci di molluschi bivalvi come pinzette. Le donne per lungo tempo si sono invece servite della fiamma della candela, sostituita (dopo una serie di attrezzi parimenti dolorosi e abrasivi) nel secolo XIX dal moderno rasoio. Nella nostra cultura lo pelo è stato in generale bandito dalla parti visibili della femmina, eccetto sulla testa, nelle ciglia e nelle sopracciglia (vedi ad exempio H. Bazin, La mort du petit cheval) come surrogato di quella zona che Sigmund Freud chiama il “continente nero”. Ma sull’argomento gli storici dello pelo non sempre concordano nello giudizio, essendoci taluni che chiedono alle compagne loro non solo di fare bella mostra di gambe et ascelle virili, ma di ornarsi abbondantemente le pudende con le zolle di Venere (come puoi leggere nel libro Je suis renvoyé, di Marcel Ayme). Anche tu pertanto, amica mia, potrai secondo lo gusto tuo et lo piacere de lo cliente imbellettarti in quella parte di cui non è lecito dire, a conditione però che il pectiniculus non sia di impedimento al coito. Come è detto in quell’aneddoto che mi fu narrato personalmente da un gentiluomo di cui non faccio lo nome

“Il quale, intanto che si stava con una dama bellissima e di qualità, e le menava stoccate rudi, si sentì a un tratto pungere così forte nei genitali, ch’ebbe mille difficoltà a portare il suo lavoro a compimento. Ma, com’ebbe finalmente terminato, volle tastare il luogo puntuto: e scoprì che costei aveva tutt’intorno alla sua vulva una corona di petali talmente lunghi, ispidi e pungenti, che avrebbero potuto servire a qualche scarpaio in luogo di setole.”

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DENTIFRICIO

Lo dentifricio fu inventato in Egitto 4000 anni fa. Fortemente abrasivo, era realizzato in pietra pomice polverizzata et mischiata all’aceto di vino; la mistura veniva poi passata sui denti con un bastoncino da masticare. Per quanto rustico, lo dentifricio egiziano era certamente più gradevole di quello romano che era fatto di urina umana (nella forma liquida veniva anche usata come collutorio). Le donne romane altolocate pagavano fior di sesterzi per l’urina portoghese, dato che era ritenuta la più forte di tutto lo continente. Il piscio, come elemento delle paste dentifricie e dei risciacqui orali, continuò ad essere usato anche nel secolo XVIII. La caduta dell’Impero romano comportò invece l’arresto delle cure alla bocca. Per cinquecento anni le persone anestetizzarono le sofferenze con intrugli caserecci et extrazioni improvvisate. Gli scritti del persiano Rhazes, nel decimo secolo, segnarono il ritorno dell’igiene dentale; egli fu infatti lo primo medico a raccomandare l’otturazione delle cavità. Allo scopo utilizzava un impasto simile alla colla, composto di allume (ammoniaca e ferro) et lentischio, una resina extratta da una pianta della famiglia del mogano. Benché la sostanza per l’otturazione fosse valida, trapanare una carie richiedeva comunque l’abilità del medico, un’attrezzatura adeguata et un coraggio grandissimo da parte de lo paziente. Il principale problema dei trapani era la rotazione, che era manuale, lenta et dolorosa. Il primo trapano meccanico è del XVIII secolo (munito di un meccanismo rotatorio interno); seguì quello a pedale che aveva però l’inconveniente di surriscaldarsi nella rotazione.

SULLA BIANCHEZZA DEI DENTI

In Europa bisogna aspettare lo secolo quattordicesimo per la rinascita dell’igiene dentale. Nel 1308 i barbieri-chirurghi si unirono in corporazioni; oltre alle estrazioni si adoperavano nello sbiancare i denti (ma anche nel fare la barba, tagliare i capelli et praticare lo salasso). L’operazione consisteva in una limatura dello smalto et in un tampone di acquaforte a base di acido nitrico. Si può immaginare, dopo un simile trattamento corrosivo, quanto dovesse proliferare il marciume della bocca. La pulizia con l’acido continuò fino al XVIII secolo, seminando carie e dolori insopportabili tra la gente.

Per quanto riguarda il fluoro, le cose stanno così: nel 1802, nel napoletano, alcuni dentisti osservarono delle macchie scure sui denti dei pazienti; scoprirono che le macchie erano originate da una interazione tra lo smalto e la quantità di fluoro contenuta nell’acqua della zona. Solo decenni dopo fu chiaro che i denti macchiati erano per quanto sgradevoli privi di carie. Presero allora moda le caramelle a base di fluoro, addolcite con miele, mentre i dentifrici vennero arricchiti dello prezioso minerale.

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DENTIERE

Gli etruschi sono stati i più abili dentisti de lo mondo antico. Estraevano i denti cariati et li scambiavano con dentiere complete o parziali, in cui ogni dente era intagliato nell’avorio o nell’osso, mentre i ponti venivano fatti in oro. Quando una persona delle classi alte moriva, i denti buoni venivano asportati per essere incastonati sulle dentiere. La scientia di questo popolo nel campo dell’odontoiatria non è stata eguagliata fino al secolo XIX. Senza tenere conto della lectione etrusca, i dentisti medioevali insegnavano infatti che le carie erano provocate da vermi dei denti che scavavano per uscire; et era costume tra i ricchi di acquistare i denti buoni dai poveri, che venivano fissati su finte gengive in avorio. Queste dentiere erano agganciate alle gengive con dei fori praticati ne la carne; altre volte ci si serviva di molle per fissare l’arcata superiore, ma erano tanto robuste che bisognava fare una pressione continua per riuscire a chiudere la bocca. L’aspetto delle dentiere diventa più naturale con la Rivoluzione Francese, dato che i dentisti parigini realizzavano i denti in porcellana; in America tale abitudine venne adottata da Claudius Ash, che deplorava la moda di raccogliere i denti sui campi di battaglia. Mentre la porcellana migliorava l’aspetto dei denti finti, la gomma vulcanizzata (perfezionata a fine ‘800) aprì la strada alla prima base comoda su cui inserire la dentatura. Gli interventi furono un decennio dopo perfezionati con la scoperta dell’anestetico (protossido d’azoto).

 

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Da Consigli, amenità e facezie sopra l’esercizio del meretricio e dei lupanari 

COSA SI INVENTAVANO PER FARE L’AMORE

ERBE, BALSAMI ET SPEZIE AFRODISIACHE
Poiché davvero pochi prendono la malattia di quel tale duca di Ferrara, Borso d’Este, che pare fosse ingriffatissimo in quanto aveva lo “male del puledro” (diagnosticato per la prima volta da R. Burton nel 1621, in Anatomy of melancholy), et senza pretendere dai clienti tuoi lo comodo priapismo né tanto meno quella curiosa sindrome detta “elefantiasi”, la maggior parte delli uomini lamenta una forma più o meno importante d’impotentia, che finisce prima o poi per riversare ne la prostituta. Utilizzandola alcuni quasi come un farmaco, et altri facendone un capro espiatorio per condannare lo godimento ad essi precluso. (Come quei due sposi, di cui mi è stato detto, che furono sepolti accanto; l’epitaffio della donna recitava: Qui giace mia moglie, come sempre fredda!; et quello de l’uomo: Qua riposa mio marito, per una volta rigido!) Appercioché se non desideri passare lo tempo tuo cercando di suscitare ne la loro carne decadente la voluttà di coire con i metodi canonici de la professione (destinati allo insuccesso con i clienti più refrattari), lo consiglio mio è di diventare abilissima nell’uso della farmacopea popolare, i cui rimedi artigianali non solo sono accostabili per efficacia a quelli prosaici del prontuario nazionale, ma ingenerati spontaneamente dalla voglia di godere de la gente (più che elaborati in un freddo laboratorio), per quanto ingenui et pericolosi sfiorano a volte le vette subliminali de la poesia. Cerca soltanto, allieva diletta, di somministrare con prudenza le sostanze sottocitate alla clientela, et eventualmente a decesso avvenuto fammi la cortesia di non parteciparmi dei fatti tuoi.

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Di riconosciuta capacità terapeutica, l’antropofagia è stata utilizzata nell’antichità per dare forza et vigore ai membri fiacchi et passivi; stando infatti alle parole di M. Hieronimo de’ Manfredi: “Non c’è cosa né cibo che più sia conforme al nutrimento dell’uomo quanto la carne umana” (Venezia 1588). Ma molti sono anche gli extimatori de la semenza umana, a cui attribuiscono un valore magico et apotropaico1. In realtà tali amanti de lo seme sono dei simpatici pederasti, che spesse volte sconfinano nella perversione detta del “Soupeur”. La quale si exprime essenzialmente in due modi: a) porta a consumare alimenti impregnati di urina (in genere pane lasciato a mollo in un urinatoio pubblico); b) induce a degustare direttamente dalla vulva lo sperma depositato da un altro uomo. I bordelli conoscevano bene tali sozzoni et spesso li truffavano facendo loro assaporare un po’ di bianco d’uovo bagnato con alcune gocce di varechina.

I contadini nei secoli hanno invece fatto largo uso dei semi di lino; in proposito Alessandro Petronio (1592) ha lasciato memoria che le frittelle “Fatte nella farina come le mele e le pere, muovono gli appetiti venerei”, et sono utili alla “Resurrezione della carne, di quella carne senz’osso che penetra le donne”. Parimenti afrodisiaca sembra essere l’ingestione di testicoli di cani o di volpi, che “Moltiplicano lo sperma, lo desiderio di coire et fanno erigere la verga”.

Da parte sua così consigliava Giuseppe Donzelli nello suo prontuario farmacologico (Teatro farmaceutico, Venezia, 1737): “Piglia una libra di secacul bianco e mondo, bollito nel secondo brodo di ceci, testicoli di volpe oncie otto, radice di rafano oncie tre, radice di dragontea oncie due”.

Lo celeberrimo P. A. Mattioli nei Discorsi, pubblicati a Venezia da N. Pezzana nel 1744, a proposito del coito sosteneva invece: “[Essere] veramente mirabile per eccitare gli appetiti venerei … un’erba che aveva portato un indiano; imperocché non solamente mangiata, ma toccata tanto incitava gli uomini al coito, ch’essa li faceva potenti ad esercitarlo quante volte lor fosse piaciuto. Di modo che, dicevano, coloro che l’avevano usata l’avevano fatto più di dodici volte”.

Nell’antichità era anche convinzione (ad exempio Machiavelli, che ha reso note le virtù de la mandragora) che gli alimenti “ventosi” fossero eccellenti corroborativi venerei; tra questi le fave (forse per la forma loro che ricorda quella dei testicoli), le castagne et la mela insana. Michele Savonarola nel Trattato utilissimo di molte regole per conservare la sanità, prescriveva altresì i piccioni et le passere che “Scaldano le rene et così incitano al coito”. Ai vecchi che avessero giovani e belle mogli indicava altresì le tartufole, le quali “Aumentano lo sperma e l’appetito del coito”.

Ancora utili possono tornare talune ricette rinascimentali di Caterina Sforza, esposte nello suo ricettario secreto, in cui si trovano moltissimi unguenti “Per fare le mammelle dure alle donne”, et artifici medicamentosi per ripristinare gli organi largati dall’uso, nonché i “Segreti per restaurare la natura della donna corrupta, et fare in modo che [essa] se lo voglia demostrarà naturalissima vergine”.

Caterina da Forlì, che fu maestra impareggiabile nella scientia che irrigidisce lo membro, raccolse negli Experimenti “I segreti accorgimenti [volti] ad magnificandum virgam; [ossia] a perfezionare l’artificio di dilatarne innaturalmente le dimensioni”. Modus procedendi ut addatur in longitudine et gossitudine virge ultra misuram naturalem; come amava sentenziare la mirabilissima creatura. Consigliava anche “Un’oncia di polvere di stinco marino in bono vino mesticato… et sempre starà duro et potrai fare quanto vorrai et la donna potrà fare lo fatto suo”. Tra i cibi naturali l’elezione era rivolta ad asparagi, carciofi, tartufi, nonché un bagno caldo nello sperma di qualche animale. Non meno importanti riteneva essere lo miele, gli stinchi marini, le pannocchie, la cannella, i semi di canapa misticati in un’unica pozione. Di modo che bevuto l’elisir balsamico lo maschio “Va a letto con la donna … et starà duro et potrà fare quanto gli piace et stare in festa”. Sempre Caterina era fervente sostenitrice de la pratica contro natura per accendere lo desiderio. Ma la sodomia ha avuto naturalmente l’opposizione dello clero, che attraverso litanie, giaculatorie, preci, anatemi, minacce et roghi da sempre si erge a custode de la castità (lo mio consiglio è di erudirti con quello che scrive Francesco Rappi nel 1515 nel Nuovo thesauro delle tre castità), senza però riuscire mai a comportarsi secondo pudicitia et continenza. Pur con tutto l’impegno da parte delli uomini timorati, la crociata contro l’uso improprio dello corpo è stata infatti una battaglia persa dal principio, tanto che nemmeno le monache si tenevano caste in quella tale parte, et anzi largo uso ne facevano. Come testimonia l’autorevole Ferrante Pallavicino nello Corriere svaligiato (Villafranca, 1671): “[Le monache] Date in preda alle più licenziose dissolutezze, o con alcuna intrinseca amica, o da loro stesse solazzano nelle proprie stanze; e dopo assaporito il palato dalle dolcezze gustate, si conducono a loro amanti, con simulati vezzi facendo inghiottir loro bocconi, de’ quali smaltiscono la durezza … con arti studiate nelle loro celle, ingannano talmente che si rende più difficile lo sfuggire le loro insidie … in quella loro ritiratezza, come somministrano materia alla propria disonestà con artifici di vetro e con le lingue de’ cani”. Et poi è cosa nota che lo monastero è stato (et ancora molto spesso è) una fucina di vitio e di tortura, et che dietro le prescrizioni de le badesse (quali ad exempio un rigido regime alimentare, bagni freddi, l’uso di flebotomia, l’unzione dei reni con unguenti a base di papavero, la fumigazione delle celle con l’agno casto, pillole di canfora, oltreché l’astensione dalla menta, dai pinoli, le fave, le castagne, i cavoli, il finocchio, la cipolla, i fichi secchi et lo vino) si celassero vere et proprie turpitudini che sconfinavano nelle devianze più schifose.

Gli elettuari del passato, tra cui i manoscritti di Guglielmo da Piacenza et di Pietro Veneto, erano nondimeno ricchi di ricette “Ad errigendum”, et abbondavano di unguenti efficacissimi “Per fare sentire d’amore la donna” o “Ad avere dilectatione con [essa]”; insegnando ad ungere la verga con efficacia et ad offrire rimedi a chi non potesse usare con la foemina.

Il mercante Francesco Carletti nei Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo (1594-1506), per la fiacchezza dello membro raccomandava oltre ai testicoli di gallo, una bevanda presa in Portogallo a base di “Polpe di cappone [pestate] con mandorle, zucchero, ambra, musco, perle macinate, acquarosa e tuorli d’uovo”.

Boldo, nel Libro della natura et virtù delle cose che nutriscono, distingueva tra priapismus che si ha “Quando si distende lo membro senza alcuno appetito carnale” et satirismus “Quando si sta con desiderio”. In quest’ultimo caso la dieta antilussuria doveva essere a base di cibi che rendono lo corpo umido et freddo, come zucche, meloni, aranci et altri alimenti acetosi. Per fare rinascere lo desiderio prescriveva cibi “Cibi che fanno sangue, rendono lo spirito grasso et moltiplicano lo sperma”, come pane, farina di formento bianchissimo con grani di sesamo, carne di uccelli, galline, galli giovani, anatre, passere, lingua delle oche. Ma soprattutto latte d’asina et di pecora, testicoli di gallo secchi in polvere bevuti con vino. Nondimeno attribuiva qualità medicamentose a “Lo membro genitale del toro in amore; perciocché secco et polverizzato et sparso sopra alcun ovo da bere, opera meravigliosamente”.

Rimedio efficace per l’impotentia era considerata l’ambra rettificata (composta di ambra grigia, muschio, zucchero, distillato di rose), lo cui uso è documentato persino nella corte d’Inghilterra ai tempi de la regina Vergine.

Antonio de Sgobbis da Montagnana, un farmacista al servizio di papa Urbano VIII, nello suo tractato L’elisir nobilissimo per la Venere, sperimentò un intruglio a base di zenzero, pepe longo, cinnamono, noce moscata, seme d’ortica, vino selvatico, zucchero, ambra et altro ancora che “Rinforza le parti genitali, provoca gagliardamente la Venere, aumenta il seme et lo rende prolifico, accresce la robustezza virile … et è un rimedio stimatissimo per l’impotenza de’ vecchi e degli maleficiati”.

Nello Teatro farmaceutico del reverendissimo Donzelli, si consigliava invece l’acqua sabina: “Se ne bevono due o tre oncie quando si va a letto, mangiando prima un poco di tabelle fatte di castoreo, testicoli di volpe et zucchero aromatizzato con olio di cannella distillato. Si trova esperimentata per confortare il coito in modo tale che etiam mortua genitalia, revocare dicitur”.

Per secoli è stata anche usata con un certo successo un’erba nordafricana oggi sconosciuta (come testimonia tale Giovanni Leone l’Africano), capace di far deflorare le vergini che involontariamente vi si fossero sedute sopra o che sbadatamente l’avessero aspersa con la loro urina.

In tempi recenti, l’industria farmacologica, oltre ai vari cerotti ormonali, ha prodotto ritrovati chemioterapici come il celebre Viagra, appannaggio di disgraziati che fanno peripezie pur di procurarselo2 (dato che l’autorità si ostina a non riconoscere il piacere per il buon funzionamento de lo corpo). Quella artigianale, con molta più fantasia et a volte un po’ di incoscienza, continua a somministrare cocaina, hascisc, peperoncino, stricnina, ostriche, ginseng, yagué, cacao, yohimbina et soprattutto un extratto secco o in polvere di cantaride (Lytta vesicatoria), un insetto dei coleotteri. Se proprio vuoi servirti di quest’ultimo, fai attenzione: la cantaridina (scoperta nel 1810 da M. Robiquet) è un potentissimo veleno; presa a dosi irrisorie, due decimi di milligrammo, ha un effetto intumescente, ma bastano appena cinque centigrammi per ammazzare un persona. La qual cosa, mi premuro di ricordarti, non solo non rientra ne le mansioni de la professione ma ti priverebbe irreversibilmente di un cliente.

DAL MANUALE DELLA PROSTITUTA (CONSIGLI, AMENITA’ E FACEZIE SOPRA L’ESERCIZIO DEL MERETRICIO E DEI LUPANARI)

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